Katarina Frostenson POESIE SCELTE traduzione di Enrico Tiozzo, Commento di Giorgio Linguaglossa, Presentazione di Claudio Angelini tratta dalla prefazione a “Tre vie”

 

Giorgio Linguaglossa
città di sera

 

 

da Prefazione a “Tre vie” di Katarina Frostenson di Claudio Angelini

 

Tra le voci più originali della letteratura contemporanea c’è quella di Katarina Frostenson, poetessa svedese che con la sua opera ha sconvolto il panorama lirico scandinavo, creando dissonanze ed ermetismo in un sistema che scorreva, quasi sereno, nell’alveo del modernismo e del post—simbolismo. Alla metafora la Frostenson predilige il suono, all’immagine il fonema. Così la sua non è una voce qualunque, ma la voce per eccellenza, la forza della parola, ora soffocata, ora stridente, ora morbida, ora impetuosa, che è alla base del verbo poetico, ovvero del verbo più assoluto, quello che si crea nei labirinti della gola e si riproduce per echi nei labirinti della mente. La poesia di Katarina è una poesia sonora che sgorga dall’udito e dall’animo e poi si condensa in frasi, perché il suono produce una concatenazione di pensieri e costruisce una tela affascinante. La sua lirica, pura e diretta, segue la logica della musica: i versi, come note, creano suggestioni e le raccolgono in brevi o lunghe sinfonie. Talvolta dodecafoniche, talaltra classicheggianti.

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Un discorso a parte merita l’ermetismo della Frostenson che forse è più apparente che reale. Soprattutto se per ermetici si intendono quei vocaboli creati per stupire e confondere, a causa della loro difficile interpretazione. O si considerano ermetiche analogie dal collegamento complesso e tecniche espressive ricercate. Katarina non mira a niente di tutto ciò, perché punta all’essenziale: il suono come fonte di vita. Semmai le sue composizioni sono ermetiche perché ci riconducono spesso a miti, a leggende, a figure scaturite dalla filosofia misterica. Ma talvolta i suoi miti sono anche nella semplicità o nella complessità della natura, nel ritorno alla casa dei genitori, nel viaggio. Però, al di là di tutto, alla base della sua poesia, c’è sempre la voce con i suoi ritmi, le sue relazioni, il suo mistero.

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Giorgio Linguaglossa

 

La stessa Katarina ha ricordato, all’inizio degli anni ‘80, che scoprì la magia della parola a soli tre anni d’età quando fu colpita dal gran parlare che si faceva in Svezia di un transatlantico italiano speronato e affondato dal rompighiaccio Stockholm: “La nave italiana si chiamava Andrea Doria e io andai ripetendo quel nome a voce alta da sola per tutta l’estate.” Insomma, da quando imparò a parlare, amò il suono delle parole in sé, anche al di là del loro significato, come “un’esperienza estetica della bellezza”. Ma questa attrazione a volte nasceva anche da parole grottesche e provocatorie. Così, a scuola, andò gridando “Hugg dem i strupen och ät! (Tagliagli la gola e divorali), ripetendo una frase tratta da un libro d’avventure (un pò sanguinose) che aveva letto in quel periodo. Il che significa che in tenerissima età la Frostenson capì che il linguaggio è un codice, una convenzione: le parole e le immagini non sono parametri assoluti, ma variabili. In un certo senso, questa autrice si appropriò della stessa poetica che aveva spinto, negli anni ‘20 e ‘30, Magritte a de-automatizzare il rapporto tra significante e significato, attraverso una serie di opere che rappresentavano degli oggetti e nello stesso tempo li negavano, come il quadro raffigurante una pipa e intitolato Questa non è una pipa. O quello dal titolo La luna in cui in realtà è dipinta una scarpa o quello che rappresenta un cappello ma è intitolato La neve. Magritte era “un tranquillo sabotatore” che criticava — forse con un certo elitarismo intellettuale — l’immagine pittorica convenzionale attraverso le sue immagini e le sue didascalie provocatorie, Katarina Frostenson contesta la convenzionalità delle immagini poetiche attraverso la forza spontanea e poderosa dei suoi suoni. La sua poetica diventa una missione o una via crucis per riscoprire la parola. Così ci prende per mano e ci porta alle origini stesse della poesia, agli oracoli che annunciavano prodigi o catastrofi, ai corifei delle tragedie, ai lamenti, alle grida che contengono il significato recondito della morte e della vita. Se Magritte fu il primo semiologo visuale, la Frostenson è una semiologa sonora il cui linguaggio, inizialmente misterioso, si dilata in armonie, melodie e disarmonie che suggestionano il lettore. Aggiungerei che Katarina si libera dai condizionamenti dei modernisti affamati di ego e innamorati delle loro immagini per puntare all’essenza. La sua poesia non ha un padrone, la lettura scorre libera e, pur muovendosi a volte nell’oscurità, ha un punto di riferimento luminoso come un faro: la voce interiore.

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Staffan Bergsten scrive che “molte poesie si presentano come un cifrario segreto. S’intuisce un significato che rimane nascosto ad un occhio che lo contempli da una fredda distanza. Che cos’è dunque che si nasconde e perchè non arriva ad esprimersi chiaramente? Le stesse grandi domande possono applicarsi a molto di ciò che viene creato in tutte le diramazioni dell’arte moderna, nella pittura e nella musica come nella poesia… Nello stesso tempo in cui queste poesie possono apparire ostili nella loro ermeticità, esse tuttavia attirano il lettore e lo stimolano — come avviene per ogni segreto — a cercare un’interpretazione.”

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Alla musica e alla voce interiore la stessa Frostenson fa un esplicito riferimento quando elogia Henry Michaux: “I suoi scritti sono viaggi nel tempo e nello spazio che ricordano la musica. Quando lo leggo non penso parola per parola a quello che vuole esprimere, perché lo ascolto. Il testo ha una sorta di voce interiore.”

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Giorgio Linguaglossa
Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 

Leggere Katarina significa soprattutto ascoltarla, ma non è necessario essere in possesso della registrazione di un suo reading. È come se la sua voce fosse incorporata nelle sue parole scritte, o meglio è come se le sue parole scritte avessero anche una componente corporea, fisica, vocale. I suoi versi danno senso compiuto ai suoni e li trasformano in melodia. Come ricorda Jan Arnald, questa autrice diventa la portavoce di una poesia al femminile, impegnata nella ricerca di un linguaggio più intimo e meno convenzionale, capace di esprimere le sue dimensioni più profonde. In questa ricerca perde valore la sintassi tradizionale che lascia il passo a versi slegati tra loro e separati da ampi spazi, il tutto opportunamente studiato e vantaggio di una voce spesso oscura nel suo significato logico e per tale motivo sfuggente ad ogni tentativo di classificazione ma in grado di trasformarsi in canto rivelatore dei moti profondi dell’essere.

Un esempio, questi versi:

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Tralasciato

 .

adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro
nel quadro: una persona un campo novembre
un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude lande 
sospette
come il tuo luogo 
là, là dove l’attesa è estrema
Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano 
la speranza delle città fredde 
il sesso dei luoghi brutti luoghi dove l’immondizia sta 
esposta come cosa santa 
contagiosa nel voltarsi respingente
Siedo in una sala d’aspetto
e mangio naso nero bollito
Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri
alti animali blu trascinano i loro zoccoli
attraverso alghe e piogge S’innalza
Precipita Non ho mai chiesto

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La stessa Frostenton in varie occasioni, e in particolare nel suo saggio I crani, ha sottolineato la funzione centrale della voce nella sua produzione e ha scartato qualunque tentazione a una lirica metaforica e imaginifica. “Quando un testo mi si avvicina, quando il ritmo mi si fa strada nel corpo, le chiostre dei denti cominciano a muoversi l’una verso l’altra, a battere. È sgradevole, una specie di tic, penso, ma è soltanto la voce che arriva.” Però, a parte l’immagine dei denti che battono, il testo è una sorta di spartito musicale. E se non si sente subito musica, si percepisce come un segnale acustico indistinto e poi sempre più chiaro, un qualcosa che — chiarirà la stessa Katarina — comincia con una nota e tende verso un canto.

“Per me — ha detto ancora questa autrice — le parole sono uno strumento di ricerca (dichiarazione del 1983), una possibilità di compiere viaggi in condizioni diverse dalla mia, di esplorare l’ignoto. La poesia è un enigma. Io amo ciò che è grezzo e brutale, ma qui in Svezia si apprezza soprattutto ciò che è ben ordinato e sottile, e si rifugge dal confuso e dall’indistinto. A me invece interessano le tensioni e le contrapposizioni.”

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Alla voce, intesa come “materia della poesia, come sua musa e suo demone”, Katarina ha dedicato una lirica, Mi chiamo voce, che è stata scolpita, in svedese e in italiano (traduzione curata da Enrico Tiozzo), nella primavera del 2008, nel Libro di pietra del Comune di Arpino, presso Roma. La voce è “alla base del ritmo” e, come ricorda Tiozzo — suo grande traduttore ed estimatore — ogni poeta ha il suo unico e inconfondibile ritmo di voce. La natura del verso viene accostata da Katarina agli atomi eraclitei e il ritmo è forma in continuo cambiamento.

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Giorgio Linguaglossa
Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 

Spesso il suono trae spunto da miti tragici e tra di essi il più caro alla Frostenson è quello di Filomela, cui è dedicata una composizione poetica nella raccoltaTankarna (I pensieri) del 1994. Comprendiamo dai versi iniziali della lirica che una lingua è stata strappata dal suo tessuto e sepolta sotto una pietra e approdiamo a Ovidio e alla sua leggenda. Filomela è rapita dallo sposo di sua sorella Procne, il re di Tracia Tereo, che dopo averla violentata, la priva della lingua con una tenaglia perchè non possa rivelare le atrocità che ha dovuto subire. Ma la voce prevale sul silenzio, la verità sul tentativo di nascondere quel crimine. La lingua in qualche modo riesce a parlare. Filomela ricama su una tela un segno che indica a Procne la sorte che le è toccata e quando il crudele Tereo cerca di uccidere le due sorelle gli dei le salveranno trasformandole in uccelli. Così, la muta Filomela potrà diventare un usignolo capace di cantare. È uno dei miti che affascinarono anche T.S. Eliot, che lo ripropose con versi onomatopeutici in The Waste Land, ed è per eccellenza il mito della poesia, come riscatto dalla sofferenza. È affascinante il modo in cui Katarina si inserisce nella leggenda. I suoi versi cominciano con suoni indistinti, il mormorio (in svedesesorl) della lingua che vibra nella terra. Attraverso quei suoni il mito prende vita. Ed è un altro suono indistinto quello che ispira la raccolta Joner (Joni) del 1991: è il rumore dell’acqua che scorre. Gli ioni diventano particelle di energia. L’assassinio di una vergine è cadenzato da uno sgretolamento del linguaggio che fa eco allo smembramento del corpo. C’è un pò del mito di Atteone, trasformato in un cervo e sbranato dai suoi cani perchè colpevole di aver visto Artemide nuda al bagno. E c’è il riferimento a un’antica ballata svedese su una vergine uccisa. Il sacrificio, comunque, diventa poesia, la morte si trasforma in vita. La Frostenson è affascinata dalla mitologia della violenza, ma soprattutto da una lirica che nasce dalla sofferenza e da suono disarticolato che diventa voce per uno scopo eroico: salvare l’umanità.

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Questa autrice ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui il Gran Premio della Società dei Nove nel 1989, il Premio Bellman nel 1994 e il Premio radiofonico svedese per la poesia lirica nel 1996. Il 20 dicembre 1992 è divenuta membro dell’Accademia di Svezia, un onore mai toccato a una scrittrice così giovane (aveva 38 anni).

In Italia la Frostenson è nota non solo per la sua poesia scolpita sulla pietra di Arpino, ma anche per alcune raccolte come La fonte del suono, Conversazioni eDalla nuda terra al corallo pubblicate da editori come Crocetti e Il Leone di Venezia. Da noi, il suo vero o presunto ermetismo non ha certo suscitato diffidenza, visto che la poesia ermetica costituisce uno dei più bei momenti della nostra poesia del Novecento, grazie a Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale. C’è però da precisare che le illuminazioni liriche dei nostri ermetici hanno pochi nessi con la produzione di Katarina, tranne forse qualche componimento di Montale, affascinato quanto lei dal suono della parola.

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

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Improvviso qui alcune superficiali considerazioni di lettore:

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Innanzitutto, l’impiego del verso libero da parte di Katarina Frostenson (immagino che Enrico Tiozzo nella splendida resa in italiano abbia rispettato gli input e gli a-capo dell’originale svedese) è guidato da una peculiarissima percezione da “regista”. Il poeta diventa “regista” della propria poesia. Infila e connette le immagini secondo un ordine mentale tutto suo. Come dice Claudio Angelini nella presentazione, è il “suono” delle parole che guida lo spartito linguistico; sì, ma c’è anche, ed è evidente, una qualità da “regista” di ordinare la sintassi (rari i punti, quasi assenti le virgole, come a far vedere che il flusso dei suoni e della sintassi è un tutt’uno). E si presti attenzione alla particolare agglutinazione dei fotogrammi, perché è questa, credo, la peculiarità della poesia svedese contemporanea rispetto alla poesia italiana. Quest’ultima dà scarso credito ai “fotogrammi” o, se preferite, alle “immagini”, così che la linea di sviluppo della poesia italiana contemporanea è costretta ad incanalarsi in un modello lineare; questo non avviene nella poesia svedese del secondo Novecento e contemporanea. Ci sono motivi storici che hanno influito su questa evoluzione della poesia italiana, ben percepibili e comprensibili a chi voglia indagarne le ragioni. Ma passiamo alla Frostenson. Siamo grati innanzitutto ad Enrico Tiozzo per la splendida resa in italiano, tanto che alcune poesie sembrano scritte direttamente in italiano, e questo è il più grande complimento che si possa fare ad un traduttore.
Un ultimo fuggevole apprezzamento è rivolto alla costruzione del verso libero della Frostenson, interessantissimo, perché spezza ovunque lo scorrere lineare (laddove ce n’è bisogno) del verso, dandogli input e contro input, azionando il freno e, immediatamente dopo, innestando la frizione per ripartenze improvvise e folgoranti. In una parola, la Frostenson de-automatizza il linguaggio poetico rispetto al linguaggio di relazione, sconvolgendo i rapporti usuali tra significante e significato, ma, soprattutto, tra significante e significante e tra significato e significato.
Una ultima considerazione va alla costruzione degli “interni”. Un poeta come la Frostenson dà grande importanza agli interni e alle sequenze dei personaggi che si muovono in quegli “interni”. È questo un modo di costruzione della poesia direi tipicamente svedese.

Ed ora la parola alla Frostenson:


“Quando un testo mi si avvicina, quando il ritmo mi si fa strada nel corpo, le chiostre dei denti cominciano a muoversi l’una verso l’altra, a battere. È sgradevole, una specie di tic, penso, ma è soltanto la voce che arriva.” Però, a parte l’immagine dei denti che battono, il testo è una sorta di spartito musicale. E se non si sente subito musica, si percepisce come un segnale acustico indistinto e poi sempre più chiaro, un qualcosa che — chiarirà la stessa Katarina — comincia con una nota e tende verso un canto.


“Per me — ha detto ancora questa autrice — le parole sono uno strumento di ricerca (dichiarazione del 1983), una possibilità di compiere viaggi in condizioni diverse dalla mia, di esplorare l’ignoto. La poesia è un enigma. Io amo ciò che è grezzo e brutale, ma qui in Svezia si apprezza soprattutto ciò che è ben ordinato e sottile, e si rifugge dal confuso e dall’indistinto. A me invece interessano le tensioni e le contrapposizioni.”

 

Giorgio Linguaglossa
Katarina Frostenson Tre vagar

 

Poesie di Katarina Frostenson

Da NEL GIALLO

 

Fermato, continuato

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Le vetrine stanno lungo tutto il fiume le ombre
cadono giù verticali le città diventano centri
commerciali stessivolti
un pezzo di plastica blu galleggia sul fiume e la parola
incontestuale diventa chiara, s’accoppia con l’uguale
ben fissato
mondo circostante sono io una strada
passaggio le luci gialle non smettono mai
di lampeggiare
avanti alti amiamo sempre altrove il tuo sesso
è un occhio
indagata notte
la bucce grasse delle mele brillano nel buio
non marciscono rimangono là, illuminate

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Non quadro

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Nuda luce tutti i suoni
affondano scompaiono del tutto
è solo il movimento
nella stanza ondeggiante
sorriso distorto la luce del tuo viso
davanti al mio piede giace terra terra
è un quadro cinese
alla parete giunche, foschia
acqua, tenero fogliame e le vele
soltanto entrano sempre di più tra le montagne
nella foschia Il tuo volto
galleggia ovale acqua Una luna…
faccio un rapido gesto di sfogliare
sulla tua fronte Tu scuoti la testa
ti alzi Adesso arriva il suono
di nuovo: il tuo silenzio L’altra Sempre
l’altra

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Tralasciato

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adesso quel suono ritorna un rauco prolungato respiro
nel quadro: una persona un campo novembre
un cane lupo strabico col naso macchiato nelle nude
lande sospette
come il tuo luogo
là, là dove l’attesa è estrema
Monaco Parigi Austerlitz Stoccolma Milano
la speranza delle città fredde
il sesso dei luoghi brutti luoghi
dove l’immondizia sta
esposta come cosa santa
contagiosa nel voltarsi respingente
Siedo in una sala d’aspetto
e mangio naso nero bollito
Sono tempi di frutta. Caduta. Dietro i vetri
alti animali blu trascinano i loro zoccoli
attraverso alghe e piogge S’innalza
Precipita Non ho mai chiesto
senza convinzione
nella frase mozza
la mano nuda dell’occhio
la macchia che fissa
e nell’assenza arde una candela

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Fuochi verdi

.

La strada è fiancheggiata da specchi coperti
il campo splende spento:
Tre pezze nere, e una verde
una fredda impronta nella mia anima
Tratto di distanza Il desiderio
è il mio pensiero
Il cielo stende il suo telo grigio
brucia un fuoco vicino al mio ginocchio
le lepri si muovono fra le spighe

.

7
Da JONI

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La sua espressione

.

Lui è corso via
il suo volto è un cane da caccia. Il granello nell’occhio
La piega della frogia. La guancia nera
E lo splendore dello sguardo
Tutto respinge. Tutto
è solo soffio e brusìo
dietro la fronte non c’è niente
Lui è il Segugio
silenzio calcificato sui lineamenti
aspira
sente l’odore del Quadro
profondo, scuro dolce
sopra tutta la sua pelle di cane da caccia
dove lascia una traccia
Tutto l’occhio s’arrossa nel morso
perché è scomparso nel bosco dell’immagine

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Giorgio Linguaglossa
Katarina Frostenson Foto Mats Bäcker

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La natura del terrore

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Cerco l’uomo che mi ucciderà. Il terreno è
verde o bianco. Stessa cosa. È un sentiero sicuro.
Tra gli alberi. La strada cammina dritta fra i tronchi
È un pezzo di terreno. E la strada continua in giù verso
una spiaggia
Ma sempre là, dove c’è una via breve fra i boschi
Ginepri, more di rovo. E il bosco fitto di abeti, alberida
cartellone didattico
Un canale. Un suono sussurrante, là – lontano. Qualcuno
combatte per
avere voce. Un inarcamento. Una schiena
Tu passi oltre
Davanti al bosco i passi si fermano, è qui ch’è accaduto.
Qui è accaduto.
Sono tutti gli occhi che negli anni hanno visto
chi ha fissato il suo sguardo nel silenzio
Alberi. Come un albero “sta al margine”. Non lo fa uscire.
Alberi – Terreno.
Due boschi, una strada. Due file d’alberi da ogni parte,
betulle, ginepri,
abeti Sono tutti occhi che negli anni hanno visto
e cercato di entrare.
Cercare riparo
fuggire con gli occhi nella schiena
Chi ha teso la sua schiena nell’esteso. Qualcuno vede.
Lo sguardo si gonfia
del tuo sguardo, del fatto che tu vedi – indietro
Alberi. “S’erigono” come gli alberi. Cominciano
a camminare come gli alberi – da soli.
Lo vede. Tu sei fuori. Al di fuori. Ora si chiude l’udito
Cerco la mano che prenderà la gola. Da una schiena.
Da un posto. Non c’è alcun segno nello splendore
della tela
Qualcuno combatte per avere voce. E qualcuno
non combatte.

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La vergine parla:

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Farò uscire la frase dalla frase sterminerò
la fiera che s’acquatta lì. Estrarrò
la pallottola da lui
dal cuore
e udirò –
la parola da un corpo
Come suona –
che cos’è che cammina sempre e non arriva mai
ed è Ostacolo
e non fa ostacolo
che cos’è che sta là
l’enigma dell’orrore –
Oh, mio nemico, io sono incoerente
Io sono l’apparenza, le parti e il sorriso
Io sono l’onda sonora nel vaso dell’aria

.

8

.

il mio cuore verbale che non batte. Entra solo
dentro, nella fortezza del corpo sognato. Finché affoga
nel sussurro del sangue
io sono senza traccia, senza luogo
sono luce travestita Io sono l’onda sonora intorno
e dentro la parola
sta’ in guardia
c’è uno schema
La madre apre il torace
nella luce del dopo. Risuona
la madre, nera radice
cuore – oro
Ma il corpo è vuoto
La risata della vergine
Moira
Perché ti voltasti
ero sola
Manca un passo
le soglie sono passi di sogno
tutto scivolava, sui tratti –
volevo mettere un segno
“il tratto della stanza”
era qui
che ti voltasti
Che quiete, nell’occhio
nulla si svela
nessuna cicatrice Giorno dopo giorno
mi odo parlare
parliamo, camminiamo, in giù, facciamo
e l’occhio guarda – che segno sulla fronte
dovrebbe arrivare
a macchiarsi
come si sa altrimenti dove
in quale tempo si è
e ci si perde. Tu non ti volti
più, quando dico
quando dico Tu forse non odi
io parlo come te
come una cuffia, un guscio parlante, affondato
in una voce che sempre più ti somiglia e nessuno
riconosce
Tu sei l’uscita
intorno, dovunque, tu sei la stanza
Tu ti voltasti
sarei stata un’altra se la stanza – non fosse stata
E d’ostacolo. Ti voltasti. Non sei questo
che stava là più chiaro
Dove sei andato, fra i tratti
tuoi propri, tu parli come me
così da presso non somigli a niente
tu guardi – indietro
ma se carezzo il tuo dente bianco così dolcemente
posso vedere – dentro
sempre più vicino, sono là dentro –
passo la lingua sopra i tuoi denti, esisti
tu sei Se
tu sei Forma. Tu sei –
odo parlare la mia voce
parlo come te
uno strano amore, così su per la schiena
invisibile, sulla pelle della nuca
che sale da dietro
che cammina sui miei paesi, lo capisco appena
e non vedo
affondato
immerso
scomparso
chiedo solo
possono i doni esser violenza
tu sei così
immenso – bordo
che è entrato, tagliando
tutto –
mi sento su un piatto
apparecchiata
intorno specchiata, come
senza differenza in niente
ma tradisci allora
e compi la pena
lascia che la parola entri – matura
voltati
qui tu non
esisti
voglio renderti solo

.

Giorgio Linguaglossa
Interior Blond Volvo S90

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Da I PENSIERI

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Voce

.

Mostro, mettiti intorno a me, che cos’è che dovrò
sentire. Grande e inspiegabilmente muta, una coperta di
cavalli Occhio, naso, lobo temporale, la guancia
è coperta la mia bocca,
perché sei dimenticata Un filo viene messo dentro,
un gusto di
minerali, sale Il piede sale per il passaggio stretto,
bianco e ignoto in me, il tratto giunge E l’aria è
forte, e fredda, e nera e alta Adesso bruco
l’erba del mondo
Immagine
che strano tratto paradisiaco è
o il contrario le ali della farfalla, nell’eliso
nel giallo cristallizzato sopra i prati
giacciono pesantemente gettati
pelli di scarpa dalla terra grassa
un dito del piede
uscito dal nero della carta
una scarpetta da ballo, un dito
dalla terra
e lo splendore dei cerchi nel solco
da cappotti scuri, l’umido della lana
sudario
abbracciati con le bocche sul terriccio e su di loro
piene di terra e il rosso
sulla strada di casa tra boschi, campi e gridi acuti
d’allarme degli uccelli
si giace fuori sui prati nella scura radice dei campi
del mondo

.

Io stessa in un vestito giallo

.

Disperdimi fratello, col tuo occhio che non si lascia
chiudere
che solo guarda, nulla vede, solo il chiarore e l’acqua che
riflette il sole
nel fogliame
nella verzura di luglio, sotto un albero
nel canestro blu intrecciato che ti contenne in grande
quando tutto sussurrava intorno a te
e tu eri come il miele
io stessa in un vestito giallo, scura
nell’albero, giallo sempre più scuro, più stridente,
urlante in alto
ma in silenzio, verso la cima dell’albero
trionfo, fratellino, sopra tutto
attraverso il peso della chioma
sento la testa del sole

.

Non sono la madre di nessuno

.

serpente, arrotolati
sotto il cielo stellato
io non sono la madre di nessuno
perciò rimango e vedo
che è solo il mio occhio
che si volge
da per tutto
per me stessa non sono nessuno
ma
nel deserto
io sono
chi può abbracciare tutto

.

Filomela

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Il piccolo, foglio rosa
nella mia testa si muove
miracolo
io guardo fuori, è silenzio
il buio lascia arrivare i sussurri
la mia lingua fu sepolta sotto la pietra
ma la testa non ebbe pace
anche se la lingua è stata strappata dal suo tessuto
la voce era rimasta là dentro
come la testa ha pace
blu glicine è il tessuto che mi si spande intorno
odi, come il tono
cambia è dal suono che sollevi
la mia lingua è sepolta, il mio orecchio giubila
il mio vestito è scomparso la mia testa canta

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Giorgio Linguaglossa
enrico tiozzo

Enrico Tiozzo è nato a Roma, dove si è laureato nel 1970 con una tesi sulla ricerca di Dio in Pär Lagerkvist, pubblicata lo stesso anno da Bulzoni. Da oltre trent’anni è professore ordinario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Göteborg, in Svezia. È autore di numerosi studi sulla letteratura italiana del Novecento (Bonaviri, Bertolucci, Sciascia) e sulla lirica svedese contemporanea (Espmark, Forssell, Tranströmer). A partire dagli anni Settanta ha collaborato alle pagine per la cultura prima dei quotidiani “Il Tempo” e “Il Messaggero” di Roma, e successivamente a quelle del “Dagens Nyheter” di Stoccolma. Attivo anche come traduttore, è stato premiato nel 2003 dall’Accademia di Svezia per la qualità del suo lavoro. Tra le sue opere piú recenti figura Il premio Nobel e la letteratura italiana (Catania, La Cantinella, 2002).