Solomon Volkov “Dialoghi con Josif Brodskij” (Lietocolle, 2016 pp. 422 € 20) estratto delle affermazioni di Brodskij con una sua poesia “Odisseo a Telemaco”, traduzione di Giovanni Buttafava

Giorgio Linguaglossa

È vero: come scrive Serena Vitale, il genere dell’intervista costituisce, dopo la poesia e la saggistica, «la terza forma letteraria in cui Brodskij si espresse». Di qui l’idea di raccogliere tutte le interviste che il poeta russo (premio Nobel 1987) concesse a Solomon Volkov, il suo vero maieuta. Dialoghi maieutici dunque, conversazioni a metà tra il pubblico e il privato, tra il serio e il semiserio e il faceto, con quel pizzico di civettuosità e di umano che fanno di questi dialoghi una forma di letteratura viva e vitale. Ritengo che si impara più dalla lettura di questi dialoghi che non da una intera sessione universitaria sulla poesia moderna. «In questi Dialoghi, raccolti da Solomon Volkov nell’arco di quindici anni, Iosif Brodskij racconta la sua infanzia in una Leningrado devastata dalla guerra, l’avventurosa vita di poeta clandestino. Capitoli speciali di ricordi, sono dedicati ai poeti mentori di Brodskij: Auden, Achmatova, Frost e Cvetaeva e alle loro influenza sulla formazione del giovane poeta, che nel 1987 è insignito del Premio Nobel. Pubblicato in America nel 1998, tradotto successivamente in molte lingue, dopo un “pellegrinaggio” di 17 anni il libro per la prima volta appare in Italia a cura di LietoColle» (dalla nota di diffusione di LietoColle).

(Giorgio Linguaglossa)

 

Giorgio LinguaglossaJosif Brodskij a Venezia

INTERVISTA

Brodskij: …Quante sciocchezze ho scritto! Se in Russia avessi avuto la possibilità di pubblicare tutto quello che mi passava per la testa sarebbe stato un completo disastro. Quindi, in qualche modo, devo essere grato per tutti gli ostacoli frapposti dalla censura in patria. Meno male che esisteva la censura!

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Brodskij: Ho iniziato a scrivere poesie per una semplice ragione: ti dà un’accelerazione straordinaria. Quando si scrive una poesia, vengono in mente cose che in fondo non sarebbero dovute emergere. Ecco perché ci si deve impegnare nella letteratura. L’ideale sarebbe che lo facessero tutti. È una necessità della specie, biologica, il dovere di un individuo verso se stesso, verso il suo DNA… in ogni caso, bisognerebbe parlare non tanto del dovere del poeta verso la società, quanto del dovere della società verso il poeta o lo scrittore. Ovvero, la società dovrebbe semplicemente ascoltare il poeta e cercare di imitarlo; non proprio seguirlo, ma imitarlo. Ad esempio, non ripetere ciò che è stato già detto una volta… Nei bei tempi andati era proprio così: la letteratura forniva alla società delle norme, dei modelli linguistici, e la società di adottava. Ma oggi, non si sa come, scopriamo che la letteratura si deve sottomettere alle norme imposte dalla società

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Brodskij: Posso paragonare l’influenza di Auden a quella di Achmatova; lei, infatti, e soprattutto i suoi principi etici mi avevano influenzato più o meno allo stesso modo; e non poteva essere altrimenti, dato che a quei tempi ero un ragazzetto completamente ignorante. Con Achmatova, anche se non avevi mai sentito parlare di cristianesimo potevi fartene un’idea. Era questa la sua influenza, prima di tutto umana. Capivi che non avevi a che fare con un homo sapiens, o perlomeno non solo con un sapiens, ma con un homo dei, no? le dovrei fare tre nomi: Anna Andreevna, Auden e Robert Lowell.

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Di Auden nel 1937 ho letto tutto quello che si poteva trovare in giro. Ci si poteva procurare, ad esempio, l’antologia della nuova poesia inglese, pubblicata nel 1937… Per quello che ne so, tutti i traduttori di questa antologia sono stati fucilati o imprigionati. Ne sono sopravvissuti pochissimi… È stata appunto questa antologia la fonte principale dei miei giudizi su Auden. la qualità delle traduzioni era orrenda, naturalmente, ma allora l’inglese io non lo sapevo, e così mi limitavo appena a ricostruire e analizzare qualche frase. Pertanto, le mie impressioni su Auden non potevano che essere approssimative, come le traduzioni del resto; un po’ mi ci raccapezzavo, ma non del tutto. ma più andavo avanti e più imparavo. A partire dal 1964 circa, mi sono messo a leggere Auden con regolarità, quando riuscivo a trovarlo, decifrandolo riga per riga, e verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato a capirci qualcosa. e finalmente ho capito – e come potevo non capire- non tanto la sua poetica quanto la sua metrica. Cioè, la sua poetica è nella metrica, è in quello che in russo si chiama dol’nik, nel verso tonico, un verso disciplinato, molto ben organizzato, con all’interno la sua magnifica cesura da esametro. E quel tocco ironico. Non so neanche da dove venisse. Questo elemento ironico non è nemmeno un merito particolare di Auden, ma piuttosto della lingua inglese. E poi quella tecnica della reticenza tipicamente inglese. Insomma, Auden mi piaceva sempre di più. Alcune delle mie poesie le ho scritte sotto la sua influenza (nessuno potrà mai capirlo, grazie a Dio); Fine della Belle Époque, Canzone dell’innocenza e anche dell’esperienza, poi Lettera al generale (perlomeno fino a un certo punto), ed altre poesie. Tutte con lo stesso ritmo un po’ rilassato. A quei tempi mi piacevano soprattutto due poeti: Auden e Louis MacNeice, e anche adesso mi sono estremamente cari; semplicemente, leggerli è una cosa interessantissima… Soprattutto amavo una poesia di Auden, la sua Lettera a Lord Byron, avevo lavorato duro per tradurla, ed era diventata il mio antidoto contro qualsiasi forma di demagogia. Quando ero al limite e stavo per crollare, leggevo questa poesia. Il lettore russo potrebbe apprezzare Auden perché, in apparenza, è tradizionale. Cioè, Auden utilizza la struttura formale della stanza con tutti i suoi annessi e connessi, ma è come se della strofa non se ne accorgesse nemmeno. Dopo di lui, credo che nessuno abbia scritto delle sestine così belle. Cyril Connoly, suo contemporaneo, critico e scrittore meraviglioso, una volta ha detto che Auden è stato l’ultimo poeta della generazione degli anni trenta le cui poesie si potevano ricordare a memoria. Auden è unico, e per me rappresenta uno dei fenomeni più significativi della poesia mondiale. Mi concedo una dichiarazione sconvolgente: ad eccezione di Cvetaeva, Auden mi è più caro di tutti gli altri poeti.

Giorgio Linguaglossa

Brodskij: [parlando di vari poeti russi del primo Novecento]…un colosso come Chodasevic se li mette tutti sotto i piedi… Ma se parliamo del fatto che, alla fine del secolo, tutto nella scena culturale andrà al suo posto, beh, allora dico che nessuno dovrebbe preoccuparsi, perché è il tempo stesso che sistemerà le cose, con o senza la cortina di ferro. È la legge di conservazione dell’energia: l’energia rilasciata nel mondo non scompare senza lasciare traccia, indipendentemente dall’isolamento politico o culturale. E se per caso questa energia ha anche una certa qualità, allora non c’è assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Sbagliano i poeti che si abbandonano al Weltschmertz [dolore cosmico] perché non vengono pubblicati, dovrebbero solo preoccuparsi della qualità di quello che stanno facendo. Perché se c’è qualità, prima o poi le cose si sistemeranno da sole… Quindi nessuno verrà dimenticato, ognuno avrà il suo posto. I geni sconosciuti non esistono, è solo una mitologia ereditata dal XIX secolo…

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Brodskij: Devo dire che, nonostante tutto, trovo Evtušenko più simpatico di Voznešenskij. Dal mio punto di vista, che non è certo inattaccabile, il russo di Evtuch è senz’altro migliore. Beh, in fondo che cos’è Evtuch? È una fabbrica che produce solo se stesso, e non ne fa un segreto. In questo è assolutamente onesto, a differenza di Voznešenskij, che si presenta come poète maudit

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Brodskij: Nella mente di Pietro il Grande c’erano due direzioni: il Nord e l’Ovest. Nient’altro. L’Oriente non lo interessava. Non gli interessava neppure il Sud (forse solo come categoria geografica). Era un uomo che ha trascorso una buona metà della sua vita a dialogare con l’Occidente e con il Settentrione, viaggiando, combattendo. Ecco in quali direzioni andava, e probabilmente, nella sua testa, esse erano la strada per l’assoluto, proprio perché era prima di tutto un sovrano, un essere politico, e non una sorta di demiurgo o un erede della romanità…

Giorgio Linguaglossa

Brodskij: Alcuni pensano che se una città ha avuto un inizio deve pure avere una fine, e che, a differenza di Roma o Parigi, San Pietroburgo, è, come dicono alle corse, una città “decisa a tavolino”. Cioè, le altre capitali si sono sviluppate in modo naturale e spontaneo, mentre la costruzione di San Pietroburgo è stata predefinita in anticipo. Questa definizione di San Pietroburgo come città “decisa a tavolino” mi sembra una parafrasi moderna delle parole di Dostoevskij: Pietroburgo è il luogo “più astratto e premeditato” del mondo… Naturalmente è innegabile che a un certo punto essa sia scivolata nel provincialismo…

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Brodskij: La Russia di oggi è un paese diverso, è totalmente un altro mondo. E trovarsi lì da turista è assolutamente pazzesco. Poi, di solito, ovunque tu vada, sei sempre mosso da una necessità interiore od esteriore. E io, francamente, nei confronti della Russia non ho più né l’una né l’altra. In realtà viaggiare, non è andare in un posto, è andarsene da qualcosa… Per me la vita è un continuo allontanarmi da qualcosa… A questo proposito l’Achmatova diceva una frase, che io amo molto. era pressappoco così: “L’assenza è il rimedio migliore contro l’oblio, mentre il modo migliore per dimenticare per sempre è vedere ogni giorno”.

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Brodskij: I miei primi libri li ha curati Lev Losev e non avrebbero dovuto essere due, ma uno solo. L’editore però ha deciso di pubblicarne due, per guadagnare più soldi: Fine della Belle Époque (le poesie dal 1964 al 1971) e Parte del discorso (1972-1976). Bene, su questo potevo anche essere d’accordo, perché il 1972 era diventato una sorta di confine, o almeno, il simbolo di una frontiera, quella dell’unione Sovietica, no? In ogni caso non era un confine psicologico. È vero, in quell’anno mi sono trasferito da un impero all’altro; tuttavia, non vedo confini psicologici nelle mie poesie di quel periodo, anche se penso che con la poesia Il Tamigi a Chelsea, scritta nel ’74, inizi una poetica diversa, una serie di versi differenti dai precedenti… Ma anche qui, ci si accorge di una poetica diversa solo quando i versi si trovano vicino a quelli che li hanno preceduti, a quelli che, in un certo senso, hanno preparato questo cambiamento, che ne hanno segnato il declino o, come si dice, l’esalazione dell’ultimo respiro. Solo così ci si accorge che è un’altra cosa. Quindi, non capisco con che criterio si debba dividere il tutto in capitoli e libri differenti e perché sia necessario operare questa divisione. Lasciamo pure che tutto segua il suo corso, come la vita, più o meno.

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Brodskij: Io non mi pongo al di sopra del lettore, così come, ovviamente, non mi pongo al di sotto… non mi sono mai considerato un autore, parola d’onore! Anche se forse queste parole, ora che le ho pronunciate, potrebbero essere prese per civetteria. In realtà per tutta la vita – questa è la cosa importante – mi sono sempre considerato prima di tutto come una sorta di unità metafisica, no? Mi sono sempre interessato soprattutto a ciò che avviene alla persona, all’individuo sul piano metafisico. Le poesie, di fatto, sono un prodotto secondario, nonostante si pensi sempre il contrario […] Quand’è che il poeta redige un libro? Quando può permettersi di farlo? Quando non scrive poesie. Ma quando non riesci a scrivere, vai fuori di testa, diventi una belva, e te la prendi soprattutto con te stesso. Quando non riesci a scrivere pensi che la vita sia finita.

Giorgio Linguaglossa

Brodskij: [Nuove stanze per Augusta], si tratta di una raccolta di poesie scritte nell’arco di vent’anni e rivolte ad un unico destinatario. In una certa misura, è la cosa più importante della mia vita. Mentre ci lavoravo avevo deciso che nessun’altro, nemmeno il più capace, avrebbe dovuto metterci le mani, e che sarebbe stato meglio se me ne fossi occupato io, tanto più che se non l’avessi fatto io, chissà che disastro avrebbero combinato gli altri! Poi, durante una conversazione con Lev Losev, ho avuto come un’illuminazione: ho riguardato tutti quei versi e all’improvviso mi sono reso conto che, magicamente, formavano una storia. E mi sembra che alla fine Nuove stanze per Augusta possa essere letta come un’opera a se stante. Purtroppo non ho scritto la Divina Commedia, e, a quanto pare, non la scriverò mai. Ma il risultato è stato un libro di poesia con l’intreccio tipico delle opere in prosa.

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Brodskij: Viviamo in una società che impazzisce per l’idea della cultura come prodotto, e perciò chiede continuamente libri, libri e ancora libri. Questo giochetto ha condotto la cultura a un punto morto: la verità è che quando scrivi non hai la minima idea di chi leggerà i tuoi scritti, di chi sarà in grado di capirci qualcosa. Capiranno? O non capiranno? Ed è così che dev’essere!

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Brodskij: Per come adesso va la mia vita non credo proprio che scriverò grandi opere, e che il lettore le leggerà […] Non so, magari, se Dio vuole, in futuro scriverò qualcosa di simile a Per il tempo presente di Auden. Come sa, non dipende da me, si scrive seguendo lo sviluppo della propria prosodia, e non perché si ha qualcosa da dire. Lei non ignora che il linguaggio impone una sua dittatura: ed è così che le parole cominciano a intonarsi l’una all’altra, a suonare… Non lo so, forse anche la mia prosodia si trasformerà in qualcosa di epico… D’altra parte, Montale, tanto per fare un esempio, non ha scritto niente di epico, così come Eliot, anche se lui forse non è uno da prendere come modello; anche Yates non ci ha lasciato nessun poeta epico.

Giorgio Linguaglossajosif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

 

 Iosif Brodskij

 

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

 

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.
Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.
Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Scrive Brodskij nella intervista: «Auden ha detto che Johann Sebastian Bach si trovava in una posizione molto vantaggiosa: quando voleva glorificare il Signore, semplicemente componeva una cantata o le “passioni”. mentre oggi, se si vuole fare lo stesso, si deve ricorrere al discorso indiretto. A mio parere ha trovato una formula meravigliosa […]

L’Achmatova ha scritto delle poesie che sono proprio delle preghiere. Ma tutta la creatività è essenzialmente una preghiera. Tutta la creatività è diretta all’orecchio dell’Onnipotente; è questa, infatti, l’essenza dell’arte. Su questo non ci sono dubbi. La poesia, anche se non è una preghiera, è messa in moto dallo stesso meccanismo. Ma, di solito, una persona per bene, consacrata alle belle lettere, tiene sempre presente un comandamento: non nominare il nome di Dio invano…».

 

Ecco, in queste frasi di Brodskij, e in altre similari che si trovano in queste interviste, abbiamo una eco del tradizionale concetto di sacralità dell’arte poetica. Per il poeta russo, poesia e preghiera sorgono da un medesimo meccanismo, da una stessa aspirazione. La conseguenza ultima di questa impostazione è una poesia a pendio elegiaco. Come la preghiera anche la poesia della Achmatova e di Brodskij si esprime su un piano parallelo alla preghiera. E l’affermazione di Auden secondo cui un artista di oggi non si può esprimere che con il modo indiretto, ci fornisce una prova della incontestabile modernità della poesia di Auden e dell’influsso che il poeta americano ha avuto sul poeta russo. Brodskij è, probabilmente, il più alto esemplare di un tipo di poeta fondamentalmente elegiaco che ha dovuto fare forza su di sé per obbligarsi a diventare un poeta “indiretto”, cioè che si esprimesse con un linguaggio indiretto”, sostanzialmente ellittico. Proprio questo elemento rende la poesia moderna impossibile a farsi con un linguaggio epico, perché il linguaggio epico non prevede l’espressione indiretta, nella sua sfera tutto il suo linguaggio è diretto, la indirezione è bandita per sempre. In tale accezione un poeta come Gezim Hajdari è un poeta epico in quanto nella sua poesia si trova soltanto un linguaggio “diretto”.

Il discorso poetico indiretto è intransitivo, quello diretto è transitivo.

Questa linea di demarcazione attraversa come un canyon la poesia moderna, quella intendo erede delle avanguardie, dalla poesia pre-moderna. Oggi non è più possibile fare una poesia “diretta”, transitiva, che vada dalle parole alle cose; ma soltanto una poesia “indiretta”, “intransitiva” , dove le parole non sono più orientate verso le cose se non in maniera indiretta, ellittica, scentrata, de-fondamentalizzata.

 

Un altro punto importantissimo di queste lezioni di Brodskij è quello dove il poeta russo afferma che la poetica di un poeta coincide con la sua metrica. Tanto più oggi in quanto il metro è libero. Concetto pericolosissimo perché se ne potrebbe dedurre che, essendo il metro libero, anche la poetica dovrebbe essere un atto di libertà. Semplice, no? ma così purtroppo le cose non sono, sarebbe troppo semplice, sarebbe un giochetto fare poesia moderna. E invece proprio qui sta la grande difficoltà del fare poesia moderna, in quanto il poeta di oggi non trova bell’e fatta una forma come la poteva trovare Bach nelle cantate, ma deve costruirsela con grande spargimento di sangue e fatica…

 

Altre considerazioni di Brodskij riferite a Frost: «Frost è un poeta più profondo di Eliot. In fin dei conti, con Eliot, ci si sbriga in fretta. Quando Eliot dice: “vedrai l’orrore in un pugno di cenere”, beh, ti senti ancora a tuo agio. mentre Frost turba il lettore. Apparentemente Frost è semplice, evita artifici. Non imbottisce le sue poesie con il kit di espedienti standard dello studente del secondo anno: non fa riferimenti allo yoga, e nemmeno alla mitologia antica. Non cita e ri-cita Dante di continuo. Eliot è esteriormente oscuro, sembra risparmiare al lettore la necessità di pensare. Frost sembra più accessibile, e ciò costringe il lettore a fare degli sforzi, e alla fine ne provoca il malcontento. Poiché la principale occupazione dell’uomo è quella di allontanarsi, di nascondersi dalla verità del mondo in cui vive».

Io mi permetto di dissentire dalla tesi esposta da Antonio Sagredo, pur non essendo uno slavista, sono dell’opinione che la fortuna di Brodskij è il suo essere andato in esilio negli U.S. Se fosse rimasto in Russia probabilmente la sua musa non si sarebbe lavata i panni nelle acque di un’altra tradizione, quella occidentale di Auden Frost, Eliot, Yeats etc. L’esilio ha consentito a Brodskij di rinnovarsi mantenendo le radici nel tetrametro giambico della tradizione russa. e questo si è rivelato un felicissimo connubio.

E poi a qualificare Brodskij un grande poeta basterebbe che avesse scritto la poesia “Odisseo a Telemaco”. Questa sì, una grande poesia che può scrivere soltanto chi si è bagnato le vesti nei grandi fiumi dell’Ellade e di Roma, nel Tevere e nel Volga.

 

Lasciatemi dire che la poesia italiana in questo senso si rivela alquanto provinciale (e qui condivido il pensiero di Antonio Sagredo), con buona pace di chi mi accusava di essere slavofilo e esterofilo. Per mia fortuna io sono Cittadino di Costantinopoli e di Roma, le due capitali dell’antico impero romano. e in tale accezione io mi sento un cittadino dell’Impero di Occidente, un impero senza tempo, dove il tempo è diventato spazio. E viceversa.. Mi è completamente estranea la cultura del cattolicesimo, per fortuna i miei genitori erano pagani anch’essi senza saperlo. Per fortuna mio padre era calzolaio e mi ha insegnato a pensare. Ed ecco che sono diventato un calzolaio della poesia.

 

Come calzolaio della poesia sono figlio di due imperi tramontati. Ho sempre pensato con queste categorie. E sono state utilissime perché mi hanno aiutato ad estraniarmi dalla tradizione poetica italiana: dalla triade Montale.Ungaretti e Quasimodo fino ai nipotini di Sereni e ai nipotini di Sanguineti, per non parlare dei nipotini dei Magrelli e dei Buffoni. Ho sempre pensato che i miei padri spirituali si trovano fuori della tradizione poetica italiana. E questo mi ha aiutato moltissimo . La mia Musa ha radici immaginarie molto lontane..

 

20 marzo 2016 alle 14:30 

 

Caro Antonio Sagredo, ecco una mia poesia, “Odisseo a Telemaco”, scritta adesso, anzi, pocanzi.

 

caro Telemaco,

non so se finirà mai la guerra di Troia,

ormai sono tanti anni che stiamo qui a bivaccare

sotto le mura della città di Poseidone

a fare niente, ad oziare.

La guerra, caro Telemaco, è un pretesto,

una sordida menzogna inventata dagli achei

e dagli dèi 

per qualcos’altro di innominabile che forse soltanto

Cassandra e gli dèi sanno.

Ma forse anche loro lo hanno dimenticato.

Alla fine, caro Telemaco, dimentichi anche tu

il perché della guerra,

come è iniziata, come si è svolta.

La memoria non trattiene il tempo. 

Gli uomini inseguono il tempo e lo ingannano. 

Così, ho dimenticato anch’io perché 

siamo qui, su questa spiaggia

della Troade e perché scrivo questa lettera

se mai ti giungerà, da un padre da cui tu sei libero,

e che non dovrai rinnegare.

Sei libero, Telemaco, di non ricordarmi,

di dimenticare questo padre che 

non sa fare altro

che oziare qui con la sua Briseide, 

su questa spiaggia

inventata 

dagli dèi.

 

Gino Rago

20 marzo 2016 alle 19:07 

 

A proposito, poi, di Odisseo e Telemaco di Brodskij, (cui tu, caro Giorgio, seppure in modo estemporaneo ti colleghi con i tuoi versi, cogliendo però pienamente la quintessenza dello spirito brodskiano diffuso in questa lirica), mi rattristo nel constatare che i versi “La guerra di Troia è finita./ Chi ha vinto non ricordo” non siano stati accolti né colti per quel che realmente sono nell’economia generale della lirica: espedienti che preparano i versi successivi: “Probabilmente i greci: tanti morti/ fuori di casa sanno spargere/ solamente i greci…” i quali racchiudono la lettura della vicenda di Troia non dal punto di vista omerico, ma da quello di Euripide, critico appassionato contro la politica imperialistica e sanguinaria degli Achei verso i popoli vinti, specialmente dopo il sacco di Melo.

Insomma, a Brodskij, per la sua sterminata cultura, non sono sfuggite le riscritture delle vicende d’Ilio nelle quali ancora si riflettono gli snodi traumatici del ‘900, da Franz Werfel a Sartre…

Gino Rago

 

giorgio linguaglossa

20 marzo 2016 alle 19:44 

 

caro Gino Rago,

io colgo in questa straordinaria poesia di Brodskij lo spirito e la consapevolezza di un esule dalla grande patria, un quasi disertore, uno di coloro che si sono ritirati, che non hanno preso parte alla guerra, alla prima grande guerra imperialistica della storia dell’Occidente. E’ una riflessione di altissima profondità e attualità, con quell’accenno al figlio Telemaco liberato dal complesso di Edipo e dalla paura di Edipo. Edipo in quanto responsabile di tutte le guerre. Il padre. Il totem. L’Odisseo di Brodskij ha imparato tanto dalla guerra: che lui è soltanto un figlio di quella cultura che lo ha formato e prodotto. Che siamo tutti figli di quella cultura, nel bene e nel male, che non c’è via di scampo, che non puoi uscire dalla cultura che tu respiri e dalla lingua che parli. L’Odisseo di Brodskij è giunto in prossimità del nichilismo, e del relativismo, anzi, ha attraversato il nichilismo, come soltanto una guerra, un grande bagno di sangue ti può concedere di esperire.

Io leggerei questa poesia-chiave nel segno della nostra cultura di oggi, giunti al Tramonto dell’Occidente, ci volgiamo all’indietro a considerare i nostri progenitori: In primis Odisseo, il nostro progenitore, l’astuto inventore del terribile tranello che porrà fine alla guerra: quel cavallo di Troia, congegno simile alla bomba atomica, per quell’epoca. Brodskij legge, in questa formidabile poesia, la storia a ritroso dal punto di vista di un uomo giunto alla soglia del Tramonto dell’Occidente, un uomo che si rivolge al figlio, che nel frattempo sarà cresciuto e sarà diventato un altro uomo. Questo Odisseo problematico di Brodskij è una poesia-totem, una poesia delle poesie. Una poesia che chiude il ciclo di una civiltà. E chi non lo capisce, mi chiedo che cosa potrà capire mai di questa poesia, così desolatamente profonda e sconfinata. Brodskij non accusa Odisseo, anzi, lo assolve. Come Odisseo libera il giovane Telemaco dalla paura del padre-totem. Così sarà libero, libero di essere uomo di un altro tipo e potrà fondare un nuovo mondo, una nuova umanità.

Una poesia profondissima e amara. Amara per quelle verità che reca con sé.

Io, nel mio tentativo di rifare una poesia di Odisseo a Telemaco, mi sono messo sulla stessa onda d’urto del pensiero brodskijano, dal punto di vista di un uomo (Odisseo) che ha capito che forse ha sbagliato tutto, e che trova il coraggio di scriverlo al figlio, Telemaco, che intanto è cresciuto ed è diventato uomo su una isoletta nello sperduto mare.