Bauhaus
Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse, Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.
I suoi libri di poesia: La chiave di vetro (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto(Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle (Roma, Rossi & Spera 199O); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi(Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro,Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.
I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed.Orecchio Acerbo , Roma 2007; Un cane in viaggio(Illustrato da Beppe Giacobbe) , ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.
I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia,ed.Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed.Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni don Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed.Aragno 2012.
I testi per il teatro rappresentati: Alcesti ,1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani; Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio, RadioTre il 19 ottobre 1997.
Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume Teatro. Un ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.
Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.
Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)
Ha curato : Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed.Pagine 2013.
Matthias Weischer Erfundener Mann
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
«Questo libro fu composto fra gennaio e luglio 1968 in Germania (…) Aggiunsi le due pagine finali a Napoli, quando vi tornai nei primi giorni di agosto. A Roma… fu letto in dattiloscritto da un gruppo di amici e di conoscenti, che se lo passarono a mia insaputa. Non so per quali vie pervenne a J.R. Wilcock che volle conoscermi e insistette perché lo pubblicassi solo dopo aver scritto molto altro (a sentir lui mi ero troppo esposto, per un primo libro (…) Fu edito sul finire del 1970 dall’editore Cappelli… L’editore ne rispettò caratteri e spazi, ma chiese un titolo diverso da quello che ritenevo il più esatto: Narciso in pensiero. Il titolo nuovo mi venne guardando i quadri di Magritte, ben certo che la chiave di ogni possibile conoscenza non può essere che fragile e trasparente. Seppi dopo che quel titolo apparteneva già a un famoso poliziesco di Dashiell Hammet» *
Uno degli aspetti più interessanti del libro d’esordio di Elio Pecora è l’impianto narrativo de-ideologizzato. Non c’era in esso nulla di ciò che all’epoca si era abituati a considerare poesia, il testo si presentava con un misto di prosa e poesia con un metro libero molto lungo che collimava e sconfinava con la prosa; per di più, la disposizione tipografica, con parti in maiuscolo che si alternavano ad ampi brani in metro libero in minuscolo normale e in corsivo, non aiutava certo il lettore ad orientarsi in quel tipo di scrittura che, peraltro, appariva particolarmente in sintonia con quel ritorno alla «oralità secondaria» teorizzata poco prima, nel 1967, da McLuhan. Pecora infatti accoglieva nella forma-interna del libro di esordio l’esigenza di consegnare all’uditorio dei lettori una poesia vicina alla quotidianità, alla oralità e alla biografia con un modo disinvolto e fresco di porgere il plot. Il protagonista del libro è l’autore che parla in prima persona, ma è il modo con cui parla che qui è diverso. Innanzitutto, l’io che parla lo fa senza schermi o paratie retoriche; come nel romanzo, è una voce narrante che ci racconta le vicende sue personali, il travaglio dei lavoretti e dei licenziamenti del giovanissimo protagonista, i suoi rapporti con la madre e con la madre della madre, la scoperta del padre, quasi sempre assente per motivi di lavoro, gli scorci sul suo milieu familiare e sociale, i rapporti con gli scrittori che venivano alla libreria dove lavorava il giovanissimo Elio. C’è, in rilievo, la figura di un giovane intellettuale che viene a contatto con la vita di fine anni Sessanta della capitale. Le sue vicissitudini private, anzi, privatissime, come la scoperta del sesso e delle pulsioni libidiche. Ma qui il privato diventa, come per magia, un fatto pubblico, diventa la metafora del riflusso incipiente degli anni Settanta che si preannuncia da eventi minimi e inavvertiti. La «voce» che racconta lo fa senza infingimenti, senza retorismi, con un parlato ricchissimo di perlustrazioni esistenziali e oggettuali. La scrittura di Pecora è attenta agli spigoli, ai dettagli del privato-quotidiano e del sociale come mai era successo in precedenza; quella «voce», dicevo, così dissimile da quella di un Dario Bellezza che nel 1970 dà alle stampe Invettive e licenze, salutato da Pasolini come «il miglior poeta della nuova generazione», (giudizio lusinghiero che rivelava la capacità del poeta friulano di percepire il «nuovo» della nuova generazione), forse non era ancora pienamente riconoscibile in quei primi anni Settanta, gli nuoceva quello smarrirsi del protagonista nelle pieghe della capitale, quell’andirivieni tra un lavoretto e l’altro, quella gassosità degli eventi narrati, quel senso di disorientamento e di dispersione, molto sottile e pervasivo che si rinviene in modo percussivo in tutto il libro. Fatto sta che Dario Bellezza conosce un successo immediato di pubblico e di critica, il suo libro è aggressivo nei toni e anche nella violenza linguistica, fa breccia da subito; il libro di Elio Pecora, comunque salutato con attenzione e apprezzamento dalla critica dell’epoca, dovrà attendere alcuni decenni per entrare di diritto nell’immaginario delle citazioni critiche ed essere rivisitato come avrebbe meritato. I libri di poesia, si sa, hanno un loro cammino autonomo, fanno la loro strada, camminano da soli, a volte zoppicano, vengono superati da altri più veloci di autori che godono della approvazione mediatica, ma non c’è dubbio che il libro, a rileggerlo oggi, a distanza di quarantasei anni, mostra una imprevedibile vitalità e capacità di durata, una sua immediata riconoscibilità. Ai libri di Pecora e di Dario Bellezza, nel 1974 si aggiunge quello di Patrizia Cavalli con il noto titolo Le mie poesie non cambieranno il mondo ben consigliato da Elsa Morante. Nel corso degli anni che vanno dal 1970 al 1976 escono i libri dei principali protagonisti della nuova generazione. A Milano nel 1976 escono Il disperso di Maurizio Cucchi eSomiglianze di Milo De Angelis. Altri autori si aggiungeranno subito dopo. Verrà così a configurarsi con sufficiente precisione la mappa della poesia della «nuova generazione». Eppure rimarrà un mistero l’approdo tardivo di un poeta come Elio Pecora alla grande editoria, visto che il primo libro pubblicato da Mondadori nello Specchio è del 2007, Simmetrie. Epperò è in questi anni che si muove la poesia sotterranea di Helle Busacca (1915-1996), la quale nel 1972 dà alle stampe, a sue spese, la trilogia de I quanti del suicidio, e nel 1974, I quanti del karma, in totale antitesi con la poetica della Cavalli. Ma la sua voce era dissonante con quella maggioritaria della sua collega romana che scriveva una poesia in linea con la sensibilità dell’epoca. E come non citare Salvatore Martino (1940) il cui primo libro La fondazione di Ninive (1965-1976) pubblicato nel 1976 voleva segnare un momento di continuità piuttosto che uno di rottura. Analogo discorso vale per il romano Luigi Manzi (1944) il quale esordisce con “Nuovi Argomenti” pubblicandovi alcune poesie nel 1974, e per il poeta di Campobasso, Mario Gabriele (1940), il quale pubblica in quegli anni alcuni libri significativi: Arsura(1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976).
* Avvertenza in calce al volume p. 115
dalla Nota di Roberto Deidier in calce al volume
Possiamo finalmente leggere La chiave di vetro come un prosimetro indefinito, al cui interno il passaggio di forma resta spesso inavvertito e inavvertibile. Quando il narrato cede al lirico, non sempre la prosa cede al verso. e lo stesso accade se invertiamo l’ordine e rovesciamo la prospettiva. Insomma, l’evidenza della novità congiurava contro la natura di quella novità, la occultava tra le pieghe di una scrittura mobilissima, la cui materia autobiografica si distaccava precocemente dai modi in cui la «nuova generazione», e Bellezza stesso, l’avrebbero «bruciata».
Faticheremmo non poco, infatti, a cercare in queste pagine l’«io che brucia». Non c’è alcun soggetto in fiamme, ma un ritorno pieno, e problematico, di quello che Debenedetti aveva definito «il personaggio uomo». Un’intera e ampia stagione sperimentale si affaccia nella Chiave di vetro, e con essa una geografia letteraria che comprende l’Inghilterra di Virginia Woolf e la Francia di Michel Butor, nonché la grande esperienza della Mitteleuropa. Ma sotto questo ritmo si agita soprattutto il Gombrowicz dei diari. Elio Pecora, questo il nome dell’autore, non aveva dunque mancato di guardarsi intorno e si era recato da Roma fino in Baviera. Lì, a opportuna distanza dai luoghi più suoi, si era arreso alla scrittura.
Di italiano questo libro conservava solo la lingua. Che i più accorti lo accogliessero con giudizi lusinghieri è credibile alomeno quanto la defezione di chi allora non seppe, o non volle, misurarsi con esso. La complessità dei suoi referenti si mostra oggi, a più di cinquanta anni dalla prima edizione, come una sfida accattivante sul piano dell’interpretazione, ma anche su quello della ricostruzione di un contesto. Di fatto la Mitteleuropa non aveva perduto nulla del suo fascino e del suo prestigio, per quanto il raggio dei suoi influssi risultasse indubbiamente indebolito. Perché la sua forza propulsiva tornasse pienamente ad accendersi, bisognava attendere di rileggere Walser, o che apparissero le prime traduzioni da Thomas Bernhard. quella cultura, invece, aveva profondamente inciso nella formazione letteraria di Pecora, accanto alla frequentazione dei classici. Irrorando quella matrice antica con nuovi attriti e nuove tensioni, psicologizzandola. […]
Ogni percorso di osservazione dell’io risponde oggettivamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante. Solo così sarà possibile chiarire il ruolo effettivo che la parte di lirismo e quella di narratività inscenano in questa costruzione; e si tratta di un ruolo ibrido, cangiante come le mille maschere di Dioniso. Il lirismo si fa paradossalmente oggettivo. E Narciso affonda tra le acque: Dioniso, il dio misterioso, ci attende proprio lì dove siamo certi che «Le cose stanno così».
Elio Pecora, La chiave di vetro, Cappelli Editore 1970, Ed:Empiria 2016
I
Le cose stanno così.
Sono cresciuto in mezzo a gente che, il giorno,
mentre cava il fosso per le immondizie,
si racconta di reami e di santi.
Le favole non mi contentano.
Così, una domenica siedo alla fontana.
Attacco a parlare con un tedesco, psichiatra, a Roma
scrive un romanzo.
Gli dico che ho scritto dei versi, me li ha vantati
un critico attento e ignoto; che lavoro in libreria,
ci passano le celebrità. Non mi qualifico commesso,
che spolvero mensole e taglio spago ai pacchi.
Ma lui frequenta le librerie.
Parliamo soprattutto di me.
Da « Rosati », a cena alla « Buca », negli intervalli
a teatro, all’Osteria dell’Orso.
Io mi presento nella parte giusta, controllo i gesti,
scompiglio sulla fronte i capelli marrone e,
abbandonato al divano soffice,
ascolto canzonette con evidente malinconia.
E il mio amico mi santifica « poeta », un po’
Hofmannsthal, un po’ bardo arruffianato alla luna.
E scopre in me l’ambivalenza che, prima, m’era
solo servita nelle guerre casalinghe.
— mio saltar dal letame all’urna del Santissimo.
— issar l’asta della vittoria e leccar lo sputo.
Io precipitosamente discorro, lui col suo italiano
puntellato e veramente ci conosciamo.
Pazienta ad aspettarmi la sera, mi pungola a
scrivere, mi consiglia letture, m’accenna
al Narcisismo.
Già. Io vado curiosamente per le strade,
il padrone del mondo.
Mi specchio nelle vetrine:
ogni occhiata incupirmi e bearmi.
Il passo fatto d’aria,
la testa in alto contro i cavi del filobus.
Insomma Narciso.
Io odio il compromesso e corro
sfiancandomi.
— Narciso non è bello né conosce la sua bellezza.
Si finge bello.
Perché gli altri plaudendo sentenzino: vive.
Narciso procede nel gioco;
e non sente misericordia per i suoi piedi stanchi,
per la speranza che gli si consuma d’altre parole.
Nel cavo del sogno riconosce l’intesa
che si traveste d’impegno.
Egli vive con un segreto e si piace.
Mai felice né veramente infelice,
sperduti gli occhi,
guardar tutto come da una nuvola.
Il mistero, ossia la verità mai conquistata.
Un segreto come quello di Dio.
L’ateo cerca Dio per smentirlo.
Il fedele inchioda il suo Dio in capo al letto e
l’ ossequia di sera per prendere sonno.
Narciso non vuole compromettersi.
Permanentemente adolescente ascolta tutte le voci,
è preda di tutti i dolori, delle gioie più lievi,
la paura come quotidiana attesa
la ricerca come programma esaltante
il sogno come domanda, ritorno
— la voglia di pianto è il desiderio dell’istrione.
Certo ogni ora attende un gesto, un soffio
che gli significhino il presente.
Un legno scricchiola, s’appanna il vetro ed ecco
un nuovo elemento per l’aritmetica dell’anima.
Narciso deve compromettersi.
La sua adolescenza senza spiegazioni, senza
programmi. Quando l’ideale lungamente inventato
si scontra con persone ed eventi e questi gli resistono
ed esso si piega in se stesso e un momento
si divinizza un momento si sprofonda d’ansia.
Allora ti viene incontro una totale incertezza,
una solitudine universalmente dubitante,
una nostalgia d’ignoranze superate.
Vorresti essere il bambino,
la bestiola sicura al caldo, ma corri verso la rabbia
e il disprezzo di te.
Necessità della guerra.
Una guerra senza bandiere.
Cercarsi. Superare la disperazione.
II
A Roma ero venuto l’altro Settembre.
Dopo le prime due notti, accampato in un lurido
guscio dell’Albergo del Popolo, trovai camera nel
quartiere africano. Da un’emiliana coi reni incrostati,
la pressione alta, il cuore incerto, un rilasso uterino,
e la bocca che non reggeva la dentiera.
La vecchina mi raccontò del marito morto
paralitico, delle figlie in America, della guerra che
l’aveva spiantata: lei sul carretto impietrita dall’artrosi,
gli altri nei fossi e i nazisti mitragliavano.
S’agitava per i terremotati del mese e per il
ragazzetto del terzo piano.
Raccoglieva bottiglie vuote e scatole unte di
conserva per la sua quota d’obolo all’Orfanatrofio
che il venticinque del mese disseminava gli esattori
alle porte.
Con la vecchia dividevo i dolci della domenica
e gli anemoni che m’allegravano la stanza.
La notte nel corridoio luceva un santo barbuto, lei
ronfava nello stanzino del guardaroba, con l’uscio
spalancato per non soffocare.
Da quella casa, con l’orario che mi scadeva,
partivo il mattino.
A Roma mi ci ero avventurato.
Un compaesano, deputato e giornalista, mi promise
impiego e interessamento per bocca del segretario.
Tre mesi dopo un cartoncino m’avvertiva d’una sua
conferenza marxista su fondale cristiano.
Trovai lavoro a Monte Sacro.
Con altri due telefonavamo alle amministrazioni
proponendo abbonamenti a un foglio previdenziale.
Quando capitava un ragioniere indeciso
gli spedivamo rivista e contrassegno.
In un mese telefonai a collegi, cliniche, latterie e
quanto il commercio fa e disfa in Roma.
Dicembre e Gennaio a via Veneto, in libreria.
Una galleria di marmi e lampadari, mancavano
i pattini a rotelle all’ingresso, la musica c’era —
quattro microsolchi in sessanta giorni.
La mattina tardavo un cinque minuti e il direttore,
omuncolo a molle, fulminava l’orologio stradale e
scoteva il capino. Sfacchinando due mesi,
cortesemente mi licenziarono.
Un pò godei al sole di Trinità dei Monti.
Ché m’abbindolò una società americana per un
libro d’infanzia.
Girai Roma e provincia.
Copiavo indirizzi dall’elenco telefonico, suonavo
alle porte ogni volta esitante, spesso scendevo
afflitto e sfiatato,
di rado pasticciavo l’intesa = percentuale.
Un mese ed ero depresso.
Altro lavoro in libreria.
Stavolta minuscola, un ombelico verde con
scaffali di palissandro,
due poltrone di pelle,
un’anfora di peltro con gladioli.
Mi ci sono costretto otto mesi,
ad agosto quando tutti rosolavano sulla sabbia
e a Natale quando signori panciuti compravano a
dozzine, per cardinali e ministri, i coloratissimi
volumi che accatastavamo a trincee.
Elio Pecora
III
Mia madre visse la sua giovinezza in una casa
sulle colline. Una casa con gradinate e colonne
di pietra.
Sulla porta lo stemma con leoni, molte camere
chiuse. Cortili di glicine, azzurri
d’ortensie a giugno.
Pozzi d’acqua gelida, larghi giardini, scalette
nel verde, Madonne in edicole fiorite,
ovunque un silenzio di sole e di tempo.
In quei giardini ho visto farfalle e lucertole,
l’uva annerirsi d’agosto, stillare di latice i fich.
Per quegli orti ho scoperto le stagioni e il cielo,
la luna del tramonto e le stelle alte della sera.
In me, per questi orti,
i ricordi di mia madre e della madre di mia madre.
Nel racconto,
la madre di mia madre s’alzava all’alba,
coglieva rose di rugiada
una ornarne la treccia altre per la figlia,
apriva la finestra
annunciava il mattino
e la destava con voce di rimprovero.
Nel racconto
questa madre di mia madre
aveva neri capelli sino all’ultima vecchiezza.
Si profumava di colonia, incipriava le gote,
spingeva dalla fronte un ricciolo e andava a messa
poi al mercato e tornava
con molte parole e frutta d’altri paesi
e sedie di paglia intrecciata.
La madre di mia madre fischiava.
Al plenilunio, con tenera voce
chiamava i figli morti da tanto.
La madre di mia madre,
davanti al focolare avvampato di quercia,
accoglieva vecchi preti e lavandaie di lunga
memoria. Nella brace abbrustolivano castagne,
bevevano rosso Falèrno dentro tazze di creta.
Morì un giorno d’ottobre la madre di mia madre.
Nell’alto letto giaceva esausta, ma
allegramente parlò: è bene ch’io muoia.
La vendemmia è stata scarsa e
dovrei bere poco quest’inverno.
Poi, si perse nella pena. Chiamò i figli morti,
gli stese incontro la mano.
Un giorno di pioggia,
d’ottobre.
Io vengo da una razza di contadini.
I parenti di mia madre
per secoli hanno allargate le terre,
cavalcato per dirupi, si sono in piazza scannati
con chi gli spostava i pali di confine,
hanno impeciato i tini per le vigne gonfie, una
di loro pare stesse dai Borboni — nelle soffitte
tarlavano i farsetti dei paggi.
Gli avi paterni zapparono,
furono macellai e cantinieri. Mio nonno emigrò
in Venezuela scordando moglie e figlio; tornò sordo
e vecchio.
Mio padre s’arruolò in Marina
meritandosi i gradi dorati, il rispetto dei paesani,
una casa con tende e porcellane e la moglie
nata signora.
IV
Dei primi giorni a Napoli ricordo
la pena che mi colse
in una strada, verso il mare, ascoltando dal pianino
la canzone d’una promessa e di un amore finito.
A quel sole, odorando il mare.
Anni vari.
Gli onomastici di mia madre con dolci e fiori,
le sue passioni rabbiose a pianoforte,
la scuola col giardino ampio e sfolto, certe domande,
le barche a Posillipo.
Avevamo lasciato il paese dove tutti eravamo nati
un mattino di giugno.
Si chiuse la casa senza coprire i mobili; la guida
per le scale, k tende alle finestre, le forbici al chiodo
in cucina.
Qualche mese dopo, i ladri avrebbero tutto portato
via e dopo quindici anni, dietro un tiretto,
mia madre trovò il suo velo di sposa.
Mio padre a quei tempi imprecava contro il mondo,
a mia madre crescevano i mali, tingeva
i capelli a onde,
il mio amico Vanni non rispose alle mie lettere,
io leggevo la mia enciclopedia alle pagine verdi
delle favole e a quelle gialle della storia e dei miti.
Al ritorno da una vacanza in paese trovai i miei
in una casa lontana dal mare, in vicoli vocianti
coi panni stesi fino al sole.
Da un lato premeva contro i balconi un monastero
di cadenti terrazze, dall’altro s’allineavano bassi
con pergolati sulle porte; fra le foglie d’edera
spuntavano rose di celluloide.
In quel quartiere i grammofoni urlavano senza
requie, il tanfo delle cucine esalava fino alle tegole,
nelle risse giornaliere si cimentavano grasse donne
e bambini gracili, si proclamavano i numeri per
vincite di uova e d’olio, a gennaio su un falò
di sedie rotte ardeva un pupo di stracci,
di sera una vecchia
spiava dall’alto gl’innamorati, i ragazzi squassavano
a calci le saracinesche, nel balcone d’angolo
una ragazza si vestiva di nero; avevo un binocolo
per le terrazze lontane.
In quella casa la mia interminabile adolescenza.
Un salotto stile luigisedici, vecchie mura traversate
da topi e scarafaggi, carte a fiori alle pareti,
una piccola stanza per ascoltare la radio,
uno spazio fra balcone e tenda dove starmene
a leggere.
Tutto leggevo.
Le puntate dei romanzi vendute dal giornalaio,
le storie della Peverelli, la Karenina di Tolstoi,
Sue, Hugo, Dostoevskij, i libretti dei melodrammi,
la Nanà di Zola e libri che m’imprestavano i vicini,
libri che a poche lire compravo sulle bancherèlle,
giornaletti di Gordon e dell’Uomo Mascherato,
ancóra le favole della mia enciclopedia.
La notte mio padre spegneva sul mio comodino la
lampada e raccoglieva in terra il libro.
A scuola andavo rassegnato.
Mi fingevo assorto in un disegno per meglio
ascoltare le confidenze dei compagni.
Una notte sognai la ragazza bionda che guardavo
per le scale e da allora smisi di guardarla.
Pittori e muratori facevano in casa il nuovo.
Mia madre con me fingeva le più concrete favole.
Io piangevo di rado. La malinconia mi governava
le giornate. Entrai nel dolorosissimo sbaglio.
Allora forse mi volli diverso da quel padre assente,
da quegli zii senza cuore e dalle donne languenti
solitudini. Un uomo appresta la felicità.
Uno sbaglio dolorosissimo.
Elio Pecora
***
V
Tunzenberg, Marzo
Iersera ho preso a camminare.
Le case chiare, le tendine rialzate, una donna
con bambino dietro i vetri, il lago increspato,
il vento sgominar foglie,
un cane guaisce legato, mai percorse foreste.
Sono tornato indietro.
Ho spiato il cielo strisciato di rosso, il cane ancora
ha guaito, la stessa donna dietro i vetri col figlio,
sul selciato rane schiacciate, risecchite al sole.
Ho continuato il cammino.
Le ombre slargavano. Il vento mi percuoteva freddo.
Bestiole balzavano nei cespugli. La luna
agli inizi del primo quarto.
Ho raccolto un ramo per difendermi da qualche
assalto e andavo tra abeti e quercie.
Ho preso una strada più buia, brulicante di rumori,
di legni cigolanti. Foglie m’inseguivano come ragni,
come serpi.
Mi sentivo pronto a quelle solitudini.
Col corpo fiero, il bastone nodoso, entrare più
dentro il boscame.
Dalla strada ora aperta scorgevo finestre accese,
fanali d’auto.
Ho desiderato qualcuno che mi cercasse. Qualcuno
che mi gridasse, son qui fermati. Io sono qui e
tu sei vivo. Tu hai mani e faccia. Questi alberi
inverdiscono. Questa nebbia appanna le case. Tutto
questo vento traversa.
Noi siamo fuori del sogno.
SIGISMONDO, AMBIGUO AMLETO.
NELLA PIÙ FITTA DISPERAZIONE E NEL DUBBIO
DI QUESTA DISPERAZIONE.
98 99
AFFAMATI DUBITARE DELLA FAME, DEI DENTI,
DEL CORPO DIGIUNO.
DISPERARE DELLA DISPERAZIONE.
— ci sono giorni terribili in ogni mio mese, nei quali
io sono completamente perduto.
Tutto inutile e vano.
Chi il giorno avanti m’amava e amavo, ora m’è
estraneo, i suoi occhi ipocriti, ogni suo gesto una
bugia. E veramente sono solo.
Una pietra al sole, in fredda delusione,
in sofferenza senza parole.
Una pietra al sole e alla pioggia, morta tra le cose.
Piangere, bestemmiare è una corda che ci allaccia.
Ma il silenzio che sa l’inutilità del parlare, gridare,
gemere, questo silenzio è soffertissima morte.
Io devo ignorare le distruzioni che sempre premono.
Io cerco i ricordi perché essi m’impediscono di
vivere.
Io ricordo per non più ricordare.
In questo paese io sento tutti i rumori, del cuore
e di fuori.
Un corvo nero per l’aria; si staccano dagli abeti
i fagiani; i caprioli si volgono incerti e spariscono
nella boscaglia; viole fragili sul dorso dei viottoli;
l’acqua scivola nei canali lungo le terre.
Sono arrivato la sera dell’otto Gennaio.
A Napoli Osvaldo lungamente mi salutò.
A Bolzano una musichetta si sparse per i vagoni;
monti, precipizi, campanili, distese.
L’allegria degli inizi.
Poi la folla di ritorno dai campi di sci.
A Monaco, Wolf m’attendeva con un curioso
cappello. Io intontito e deluso, come a ogni
arrivo. A Dingolfin, Lotti con l’auto.
Per via cercai d’essere allegro.
Quando fummo nella camera assegnatami, in una
dipendenza del Castello, cavai dalle valigie i doni
e ci dirigemmo alla loro casa.
Il cancello di legno. La mia disattenta emozione.
I bambini presero i regali, noi cenammo, poi Wolf
m’accompagnò alla mia stanza e fui solo.
Cinque quadri alle pareti, tende verdi alla finestra,
una grossa poltrona, un divano récamier,
la stufa a legna, due lumi.
M’accinsi al sonno.
Al mattino mi svegliò la voce di Wolf.
Disposi libri nello scaffale e sullo scrittoio di noce.
Uscimmo al sole bianchissimo.
A Tundig, nel cimitero fra le case, spiavo dentro
le finestre gli armadi e le cucine,
io fermo tra le lapidi,
su quei morti allegri di neve.
Tornavo in quella stanza, tra quelle mura senza
parole.
— io odiavo quei lumi, quel tappeto sardo, i
bicchieri sullo stipo.
Faticavo ad accendere la stufa.
Il dieci gennaio annotavo … « io veramente voglio
scrivere tutto. Il tempo di fuori e quello dell’anima
… io so, debbo farmi vuoto per farmi nuovo,
per sentir musica, vedere un quadro,
odorare un fiore, scaldarmi,
dormire, io lo voglio, nonostante queste notti,
questi sonni interrotti da paurosi pensieri…
desiderare la morte,
fuggire. dove?… »
Oscillavo tra un dolore grande, una paura folle di
persone e di cose e la voglia di tutto superare, di
aver pazienza.
Di vincere, rifiutando la felicità.
Chi m’ha raccontata la favola della felicità?
Quando m’ha raccontata la terrificante bugia?
È lui, è lei, sono loro i colpevoli della mia
sofferenza.
Il pomeriggio andavamo per i boschi.
Paesaggi di Bruegel, orizzonti sterminati.
Avevo detto a Wolf le mie paure. Uguali, le stesse,
ripetizioni, mi rispose.
Di sera io tornavo alla loro porta, trasalendo
al crepitio della neve sotto le scarpe. Restavo
a guardare lo studio e la biblioteca illuminati.
Poi correvo a dormire
sonni inquieti. Ogni volta, nella mia camera
calda, m’impauriva la sosta.
Tutti dentro mi parlavano quelli del mio passato.
Io chiuso, il freddo fuori, tutto inutile e lontano.
Stavolta non potevo fuggire ……..