Mount-Maunganui-beach 2004
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.
Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Èin corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
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Roma ora di pranzo, foto di Angela Greco
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.
Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.
Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.
Roma, ora di pranzo, palazzi, foto di Angela Greco
In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.
C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]
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Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:
Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste
Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:
Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.
Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.
Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.
Breve nota introduttiva
In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.
Sakurabana, Giappone
Poesia di Steven Grieco Rathgeb
FELICE NOTTE – O BON
Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.
No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.
Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.
Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.
A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.
L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.
Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.
Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.
Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.
L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.
Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.
Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.
Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.
E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.
Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.
Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.
No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.
Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.
Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.
Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.
Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.
Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.
E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.
Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.
Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.
Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.
Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.
Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.
La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.
Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.
E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014
Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”