Yves Bonnefoy, nato a Tours nel 1923 è morto il 1 luglio 2016 a 93 anni, professore emerito al Collège de France di Parigi, poeta, prosatore e saggista. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. In Italia ha pubblicato diverse raccolte: Movimento e immobilità di Douve, 1953; Ieri deserto regnante, 1958; Pietra scritta, 1965; Nell’insidia della soglia, 1975; Quel che fu senza luce, 1987; Qui dove ricade la freccia, 1991; Inizio e fine della neve, 1991; La vita errante, 1993; Le assi curve, 2001; La lunga catena dell’àncora, 2008.
Risposte di Yves Bonnefoy
Perché nell’insidia della soglia?
“Perché nell’insidia della soglia? Perché parecchi anni della mia vita furono occupati dal compito di ridare esistenza a una grande casa in Provenza -un monastero con un’antica chiesa, stalle, granai, ma soprattutto rovine- che in quel suo luogo straordinario sarebbe potuta essere -immaginavo- la soglia del paese in cui vivere, il portico della «vera vita». Ma in seguito le difficoltà andarono crescendo, sia quelle interiori sia quelle materiali, e finirono per rendere irrealizzabile l’impresa. Ne ricavai, tuttavia, una lezione. Se le soglie sono illusioni, «insidie», anche le insidie possono diventare occasioni per una riflessione più lucida. E quindi, a loro volta, possono diventare soglie attraverso le quali accedere alla verità nel proprio rapporto con se stessi: là dove l’essere nasce dal non avere. Il libro tenta di fare questa esperienza che è anche una mise en question della scrittura, spazio di tutte le insidie; tende verso quelle parole che rinunciano a imporre i loro sogni e che possono anzi, nella dissipazione di questi sogni, consentirci una luce nuova”.
Chi è Douve, e quale è il messaggio che porta nel suo gioire di morte?
Douve è un luogo, Douve è una donna, Douve è una condizione mentale, Douve è uno strumento nella mani del poeta, Douve è ciò che il lettore vuole che Douve sia. Chi scrive la immagina con il volto di donna, il corpo androgino e lo sguardo nero che penetra oltre la superficie….
Il silenzio che la poesia instaura prima della creazione poetica garantisce l’autenticità delle parole che sorgeranno. Giungere al silenzio come condizione di possibilità di un linguaggio nuovo che dica finalmente il mondo della vita scevro da ogni concettualizzazione e mistificazione. È un trattenere il respiro prima dell’immersione, un lungo momento personale, individuale, l’attimo in cui il soggetto prende coscienza di sé stesso come essere vivente per poi gettarsi a capofitto nel mondo della vita, senza paura, senza finzioni.
Faire advenir la présence – Far accadere la presenza
Il linguaggio ha diviso l’uomo dal mondo e l’ha privato dell’esperienza della pienezza sensibile.
La poesia cerca di riparare a questa perdita originale, non tanto per ricostruire l’unità persa, che non è altro che un’altra ‘insidia della parola’ chiusa in una forma, ma per insegnarci a “consentire” alla nostra finitezza, cioè a accettare e a assumere la precarietà del mondo, che affiora nei nostri sogni, nelle nostre immagini, nelle nostre parole, a riconoscervi, al di là dell’insidia, la fragilità e la fugacità costitutive della nostra condizione e dunque della nostra vita su questa terra. È questa precarietà assunta infine che, la voce della poesia cerca di testimoniare e che celebra, a volte sotto forma di litanie o d’incantatoria, altre volte sotto forma di un racconto poetico o “racconto in sogno”, per farci condividere questo sentimento improbabile della “Presenza”, che è esperienza immediata del mondo e semplicità “seconda”, acquisita attraverso e malgrado le parole, dopo una lenta maturazione, assimilabile a una trasmutazione alchemica.
Il soggetto della poesia
Si potrà mostrare come la parola apparentemente intima si appoggi qui su un soggetto esteriore a sé, molto lontano dalla profondità psicologica del soggetto romantico (un “Je” che non è un “moi”).Colui che scrive è una sensibilità al mondo più che un’interiorità. Il narratore delega la sua esperienza ad altre figure di mediazione, come il bambino, che è allo stesso tempo ricordo di se stesso, soggetto prima delle parole, che sente, sogna, il soggetto che desidera amare, che spera, che cerca un nome, un padre, una dimora dove fissarsi..Questo bambino è dunque anch’egli un’allegoria della poesia.
(Stefania Roncari – tellusfolio.it)
Nei suoi saggi sulla poesia ricorre spesso la parola ‘finitudinè. Cosa c’è dietro questa parola? E che rapporto ha con il nostro bisogno di immagini?
La finitudine è la cosa più semplice del mondo ma forse la più difficile da spiegare. Noi viviamo in un dato luogo, in un dato momento, circondati da persone mortali … sono questi i nostri limiti.
Nel corso della sua vita ha concentrato il suo interesse sullo studio della civilta’ italiana, dell’arte e della poesia di un paese che ha finito con il considerare la sua seconda patria, da Piero Della Francesca, al Mantenga, a Tiepolo… Ma anche Giacometti, Moranti. E tra i poeti cito Petrarca e Leopardi. Perché questo interesse per l’arte e la poesia italiana?
Forse ciò che mi hanno portato i frequenti viaggi in Italia e in Grecia è la scoperta di opere di autori che si sono posti gli stessi problemi che mi pongo io nella poesia. Abbiamo bisogno di grandi opere per migliorare il rapporto con noi stessi. E in Grecia e in Italia ho letto opere che non conoscevo e così ho avuto la fortuna di approfondire il rapporto con me stesso.
Lei ha conosciuto Andrè Breton, il padre del surrealismo. La sua poesia, ancora oggi, ha una matrice psicologica molto forte. Qual è il legame per lei tra poesia e psicanalisi?
Il surrealismo effettivamente per me ha il merito di aver rivalutato l’inconscio. La virtù di Andrè Breton è quella di aver capito che la poesia nasce proprio da lì, dall’inconscio. La psicanalisi è una scienza che si interessa dell’inconscio ed è per questo che interessa anche noi poeti … Però la psicanalisi è troppo concettuale e non è in grado di capire la profondità dell’inconscio, che è l’esperienza della nostra finitudine, come ho sempre detto. Dunque il poeta stabilisce con lo psicanalista un rapporto di sorveglianza reciproca. Lo psicanalista deve verificare che noi non sostituiamo i sogni alla realta’, al rapporto con noi stessi, mentre invece il poeta ricorda allo psicanalista che la sua ricerca dell’inconscio scaturisce dal limite e quindi non è adatta ad esprimere la verita’ più profonda delle nostra vita
… L’interrogativo che pone la poesia è la questione stessa del pensiero concettuale. Poesia e pensiero concettuale, infatti, sono intimamente legati da un rapporto reciproco di affetto e di diffidenza.
… Il pensiero concettuale è nato in Grecia, ma subito è stato deviato dalla sua vocazione ‘terrestrè, dalla speculazione platonica degli agnostici che ha cercato di costruire una realtà superiore, ideale, attraverso i mezzi intellegibili della conoscenza nella quale il mondo si dissipa. E allora, per la poesia la questione fondamentale è : ‘Si ha diritto di lasciare così il luogo terrestre?’
Evidentemente la poesia è essa stessa tentata ad un certo punto, dalla speculazione metafisica. Tutti noi abbiamo in noi stessi, il desiderio di sognare una realtà superiore a quella nella quale viviamo e ancora oggi, questo è ciò che ci attrae verso il tempio greco, verso la statuaria greca del V secolo avanti Cristo. Cioè un mondo in cui la forma sembra prendere la nostra realtà nelle sue mani per trasportarci altrove, ma è a questo punto che interviene la civiltà latina. A me sembra che l’essere al mondo che prende forma nella società romana, sia profondamente diverso. Perché nella sua esperienza iniziale, almeno, c’è questa città, Roma, intorno alla quale si combatte per prendere possesso del mondo. Il pensiero concettuale non è estraneo ai romani, ai latini, ma è a Roma che il pensiero concettuale è sollecitato a lavorare piuttosto sugli eventi terrestri così come vengono vissuti che non a tentare la fuga dal mondo verso una realtà superiore o che sembra tale, che è solamente un sogno… E qui si verifica, a mio modo di vedere, il ritorno della poesia.
Diciamo che per me la poesia è restituire alle cose, fra le quali viviamo, e agli esseri con cui viviamo, la pienezza della loro presenza a se stessi.
Mi dispiace che letteratura francese di oggi si preoccupi troppo, a mio avviso, del linguaggio, della lingua in quanto tale, cioè del suo funzionamento interno, senza invece porsi a sufficienza il problema della relazione che esiste fra la parola e il mondo, perché questo nesso è più del mero linguaggio. Mi sembra, invece, che in Italia attualmente la poesia si lasci meno imprigionare nel fascino del funzionamento interno della lingua, e questo è qualcosa che apprezzo. Credo che il vero futuro della poesia di tutta Europa passi oggi per un confronto incessante tra le diverse esperienze poetiche dei diversi luoghi. In altre parole, credo che la poesia passi per l’attività della traduzione. In una certa misura l’invenzione poetica si trasferisce alla riflessione del traduttore che diventa poeta, che prende coscienza dell’argomento e di come vivono le diverse società.”
(Luigia Sorrentino – festivaletteratura mantova 2007 – rainews24)
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Nella poesia di Yves Bonnefoy la morte di Dio cessa di essere una sventura, poiché se Dio è morto, noi non siamo più dei viventi; ma forse non è questo che importa di più alla condizione umana secondo il poeta francese. Se Dio è morto, il mondo è pur sempre ancora nostro, nella sua pluralità e promiscuità. È tale come questo « jardin dont l’ange a refermé les portes sans retour ». Giardino di cui l’angelo ha chiuso le porte, che è il vero luogo della Pierre écrite, nella quale noi nasciamo e moriamo soli, ma dal quale nessuna parola divina ci potrà mai scacciare. Paradossalmente, il mondo è ridiventato nostro, l’uomo è diventato proprietario del suo mondo, se ne è riappropriato. E ciò comporta la più grande delle trasgressioni nella storia dell’uomo sulla terra. Quanto all’Altro, avviluppato nella reticenza dei suoi bisogni e nella sua alterità insopprimibile, il poeta non può dargli la parola, noi non sappiamo nulla di lui, in quanto estraneo portatore del suo mondo pulsionale e istintuale, con i suoi fantasmi, i suoi retro pensieri; possiamo solo avvertirne la presenza insidiosa, intuirne il pericolo, l’insidia della soglia, dietro l’immagine dello specchio. Di qui la indirezionalità di questa poesia, la sua natura illusoria, il suo alludere, illudere, il suo indicare per ellissi e per nominazione indiretta, per traslato.
In questa poesia, tra le parole, c’è aria; una atmosfera rarefatta e trasparente. Le parole restano come sospese su un abisso vuoto, nuotano nel vuoto, in distanze siderali l’una dall’altra, incomunicabili e incomunicate, ciascuna chiusa nella propria irrelata singolarità, incapaci di farsi carico di un significato stabile, fondante. Le parole ormai sono diventate esse stesse instabili e impermanenti; sono delle singolarità aleatorie che abitano zone limitrofe, soglie, faglie, limen tra continenti inesplorati e inesplorabili. Per noi umani è più importante l’eco delle parole più delle parole che abitano non intorno al rumore ma dentro il rumore ( « L’écho n’est pas autour du bruit mais dans le bruit »). Quella di Bonnefoy è una poesia che proclama con acuta consapevolezza la propria costitutiva debolezza e transitorietà, priva di salvezza in quanto senza perdizione, ma fattasi forte grazie alla propria fragile aleatorietà.
Heurte,
Heurte à jamais.
Dans le leurre du seuil.
A la porte, scellée.
A la phrase, vide.
Dans le fer, n'éveillant
Que ces mots, le fer.
Dans le langage, noir.
Dans celui qui est là
Immobile, à veiller
A sa table, chargée
De signes, de lueurs.
Et qui est appelé
Trois fois, mais ne se lève.
*
Encore quand
Le bras n'est plus que cendre
Dispersée.
Plus avant que le chien
Dans la terre noire
Se jette en criant le passeur
Vers l'autre rive.
La bouche pleine de boue.
Les yeux mangés,
Pousse ta barque pour nous
Dans la matière.
Quel fond trouve ta perche, tu ne sais,
Quelle dérive.
Ni ce qu'éclaireront, saisis de noir.
Les mots du livre.
Plus avant que le chien
Qu'on recouvre mal
On t'enveloppe, passeur,
Du manteau des signes.
On te parle, on te donne
Une ou deux clefs, la vaine
Carte d'une autre terre.
Tu écoutes, les yeux déjà détournés
*
Vers l'eau obscure.
Tu écoutes, qui tombent.
Les quelques pelletées.
Plus avant que le chien
Qui est mort hier
On veut planter, passeur.
Ta phosphorescence.
Les mains des jeunes filles
Ont dégagé la terre
Sous la tige qui porte
L'or des grainées futures.
Tu pourrais distinguer encore leurs bras
Aux ombres lourdes,
Le gonflement des seins
Sous la tunique.
Rire s'enflamme là-haut
Mais tu t'éloignes.
Tu fus jeté sanglant
Dans la lumière.
Tu as ouvert les yeux, criant,
Pour nommer le jour.
Mais le jour n'est pas dit
Que déjà retombe
La draperie du sang, à grand bruit sourd,
Sur la lumière.
Rire s'enflamme là-haut.
Rougeoie dans l'épaisseur
*
Qui se désagrège.
Détourne-toi des feux
De notre rive.
Plus avant que le feu
Qui a mal pris
Est placé le témoin du feu, l'indéchiffré,
Sur un lit de feuilles.
Faces tournées vers nous.
Lecteurs de signes.
Quel vent de l'autre face, inentendu,
Les fera bruire ?
Quelles mains hésitantes
Et comme découvrant
Prendront, feuilletteront
L'ombre des pages ?
Quelles mains méditantes
Ayant comme trouvé ?
*
Oh, penche-toi, rassure,
Nuée
Du sourire qui bouge
En visage clair.
Sois pour qui a eu froid
*
Contre la rive
La fille de
Pharaon
Et ses servantes.
Celles dont l'eau, encore
Avant le jour,
Rellète renversée
L'étoffe rouge.
*
Et comme une main trie
Sur une table
Le grain presque germé
De l'ivraie obscure
Et sur l'eau du bois noir
Prenant se double
D'un reflet, où le sens
Soudain se forme,
Accueille, pour dormir
Dans ta parole,
Nos mots que le vent troue
De ses rafales.
*
« Es-tu venu pour boire de ce vin,
Je ne te permets pas de le boire.
Es-tu venu pour apprendre ce pain
Sombre, brûlé du feu d'une promesse,
Je ne te permets pas d'y porter lumière.
Es-tu venu ne serait-ce que pour
Que l'eau t'apaise, un peu d'eau tiède, bue
Au milieu de la nuit après d'autres lèvres
Entre le lit défait et la terre simple,
Je ne te permets pas de toucher au verre.
Es-tu venu pour que brille l'enfant
Au-dessus de la flamme qui le scelle
Dans l'immortalité de l'heure d'avril
Où il peut rire, et toi, où l'oiseau se pose
Dans l'heure qui l'accueille et n'a pas de nom,
Je ne te permets pas d'élever tes mains au-dessus de l'âtre où je règne clair.
Es-tu venu,
Je ne te permets pas de paraître.
Demandes-tu,
Je ne te permets pas de savoir le nom formé par tes lèvres. »
*
Plus avant que les pierres
Que l'ouvrier
Debout sur le mur arrache
Tard, dans la nuit.
Plus avant que le flanc du corbeau, qui marque
De sa rouille la brume
Et passe dans le rêve en poussant un cri
Comble de terre noire.
Plus avant que l'été
Que la pelle casse,
Plus avant que le cri
Dans un autre rêve,
Se jette en criant celui qui
Nous représente,
Ombre que fait l'espoir
Sur l'origine,
Et la seule unité, ce mouvement
Du corps — quand, tout d'un coup,
De sa masse jetée contre la perche
Il nous oublie.
*
Nous, la voix que refoule
Le vent des mors.
Nous, l'œuvre que déchire
Leur tourbillon.
Car si je viens vers toi. qui as parlé.
Gravats, ruissellements.
Échos, la salle est vide.
Est-ce « un autre », l'appel qui me répond.
Ou moi encore ?
Et sous la voûte de l'écho, multiplié
Suis-je rien d'autre
Qu'une de ses flèches, lancée
Contre les choses ?
Nous
Parmi les bruits.
Nous
L'un d'eux.
Se détachant
De la paroi qui s'éboule.
Se creusant, s'évasant.
Se vidant de soi.
S,'empourprant.
Se gonflant d'une plénitude lointaine.
*
Regarde ce torrent,
Il se jette en criant dans l'été désert
Et pourtant, immobile.
C'est l'attelage cabré
Et la lace aveugle.
Écoute.
L'écho n'est pas autour du bruit mais dans le bruit
Comme son gouffre.
Les (alaises du bruit,
Les entonnoirs où se brisent ses eaux,
La saxifrage
S'arrachent de tes yeux avec un cri
D'aigle, final.
Où heurte le poitrail de la voix de l'eau,
Tu ne peux l'entendre.
Mais laisse-toi porter, œil ébloui,
Par l'aile rauque.
Nous
Au fusant du bruit,
Nous
Portés.
Nous, oui. quand le torrent
A mains brisées
Jette, roule, reprend
L'absolu des pierres.
*
Le prédateur
Au faîte de son vol.
Criant.
Se recourbe sur soi et se déchire.
De son sein divisé par le bec obscur
Jaillit le vide.
Au faite de la parole encore le bruit,
Dans l'œuvre
La houle d'un bruit second.
Mais au faite du bruit la lumière change.
Tout le visible infirme
Se désécrit,
Braise où passe l'appel
D'autres campagnes
Et la foudre est en paix
Au-dessus des arbres,
Sein où bougent en rêve
Sommeil et mort.
Et brûle, une couleur,
La nuit du monde
Comme s'éploie dans l'eau
Noire, une étoffe peinte
*
Quand l'image divise
Soudain le flux,
Criant son grain, le feu.
Contre une perche.
Heure
Retranchée de la somme, maintenant.
Présence
Détrompée de la mort.
Ampoule
Qui s'agenouille en silence
Et brûle
Déviée, secouée
Par la nuit qui n'a pas de cime.
Je t'écoute
Vibrer dans le rien de l'œuvre
Qui peine de par le monde.
Je perçois le piétinement
D'appels
Dont le pacage est l'ampoule qui brûle
Je prends la terre à poignées
Dans cet évasement aux parois lisses
Où il n'est pas de fond
Avant le jour.
Je t'écoute, je prends
*
Dans ion panier de corde
Toute la terre.
Dehors,
C'est encore le temps de la douleur
Avant l'image.
Dans la main de dehors, fermée,
A commencé à germer
Le blé des choses du monde.
Le nautonier
Qui louche de sa perche, méditante,
A ton épaule
Et toi, déjà celui que la nuit recouvre
Quand ta perche recherche mais vainement
Le fond du fleuve,
Lequel est, lequel se perdra.
Qui peut espérer, qui promettre ?
Penché, vois poindre sur l'eau
Tout un visage
Comme prend un feu, au reflet
De ton épaule.