Valentino Zeichen (1938-2016).UN BILANCIO Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa Alcune frasi famose di Zeichen; Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio con DUE POESIE INEDITE del 2014

Giorgio Linguaglossa

 

Valentino Zeichen è nato a Fiume (Croazia) ed è morto ieri, 5 luglio, a Roma nella casa di cura dove stava facendo riabilitazione. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Area di Rigore (Coop Scrittori 1974), Ricreazione (Società di Poesia, Guanda 1979), Pagine di Gloria (Guanda 1979), il romanzo Tana per tutti(Lucarini 1983), Museo interiore (Guanda 1987), Gibilterra (Mondadori 1991),Metafisica tascabile (Mondadori 1997), Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio(Fazi 2000), Poesie 1963-2003 (Oscar Mondadori 2003), Neomarziale(Mondadori 2006).

 

Giorgio Linguaglossa

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Ieri, 5 luglio 2016 si è spento Valentino Zeichen verso le ore 15, dopo essere stato colpito nei giorni scorsi  da una ischemia dalla quale non si è più ripreso. È l’occasione per ricordare un poeta, se non romano, di adozione romana, che data dal 1950 quando il poeta di Fiume si stabilì nella capitale. Perché Roma ha questo di positivo: accoglie tutti coloro che la eleggono quale propria patria, a prescindere dal colore della pelle e dalla lingua che parli, a prescindere da latitudine e da longitudine. Ho riaperto quindi il volume delle poesie di ZeichenPoesie 1963-2003 (Milano, Mondadori 2004 pp. 376 E 8,40) per cercare il filo rosso che segna il tratto distintivo di questo poeta nella storia della poesia italiana.

 

Dopo la guerra Zeichen fu costretto ad abbandonare la città natale insieme ad altri profughi istriani e trovò rifugio a Roma. In un certo senso, si può affermare che il profugo istriano trovò nella capitale il milieu culturale e sociale adatto alla sua fisionomia intellettuale. Non è un caso l’incontro con Elio Pagliarani, avvenuto nel lontano 1967, che rivela una strana affinità tra il poeta lombardo e il poeta romano. La nota biografica che precede il volume recita: «nello stesso anno Enzo Golino inviò alcune poesie a Mario Boselli, redattore di “Nuova corrente”, che le pubblicò nel n. 46-47, del 1969. La rivista ospitò altri versi di Zeichen nel n. 57 del 1972. Poi, con la nascita dell’editrice Cooperativa Scrittori, Zeichen ebbe l’opportunità di pubblicare la sua prima raccolta, Area di rigore, che uscì nel 1974, grazie all’interessamento di Elio Pagliarani (che ne scrisse l’introduzione), Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi e Luigi Malerba». Dunque, è fuori discussione che la fortuna critica della poesia di Zeichen abbia trovato il suo terreno di coltura nell’ambiente di quegli intellettuali legati tutti a filo diretto con larivoluzione consapevole messa in atto dalla neoavanguardia.

 

L’antisoggettivismo della poesia di Zeichen intendeva strizzare l’occhio, da un lato ai reduci della neoavanguardia, dall’altro proseguiva l’intento di teatralizzazione della storia e del privato che la sua opera d’esordio aveva rivelato. L’operazione collimava perfettamente con la strategia distruttiva della centralità epistemologica del soggetto iniziata dalla neoavanguardia, e troverà definitiva accettazione con la seconda raccolta, Ricreazione (Società di Poesia, Guanda) del 1979, dove viene portato ad esiti ulteriori il decentramento del soggetto e viene impiegato in via definitiva il commento ironico quale categoria retorica ed ermeneutica della sua poetica. Da un lato, Zeichen adotta lo sdoppiamento e l’autoriflessione quali categorie ermeneutiche centrali della propria scrittura; dall’altro, viene eliminata ogni ontologia come posizione originaria del pensiero e assunzione del dato-sotrato appartenente all’oggetto, sostituita da una ontologia del soggetto che osserva in modo ironico il reale.

Giorgio Linguaglossa

 

Il soggetto decentrato e de-territorializzato dell’io zeicheniano opera l’applicazione alla poesia italiana della teoria economica dei giochi. Il risultato di questa impostazione lo si vedrà compiutamente in Metafisica tascabile del 1997, dove tutte le grandi problematiche della civiltà occidentale vengono miniaturizzate in motti di spirito e fraseggi ironici e istrionici, una sorta di scrittura del gioco che è il precipitato della «scomparsa» del soggetto e della dis-locazione dell’oggetto. Se la storia è ridotta ad una grande superficie, ad un grande flipper dove avvengono battaglie e disastri, la scrittura, conseguentemente al dato di partenza del decentramento dell’io, si trova allo stato virtuale, ad inseguire la pista di pattinaggio del mondo virtuale eventuale con uno stile candidamente di «superficie», dove vengono attivate le risorse della teoria del gioco ironico-istrionico. È una novità di tono e di lessico. È una novità dell’io de-ideologizzato e de-soggettivizzato È una novità anche quella impostazione a-ideologica; la poesia diventa gioco delle «occasioni» montaliane derubricate ad incontri mondani.

 

Giulio Ferroni nella Introduzione annota che «in questa assenza di un vero scopo Valentino ricama la sua impalpabile poesia». Ineccepibile, Giorgio Linguaglossama per motivi esattamente opposti a quelli assunti dal critico romano non esito a definire la poesia di Valentino Zeichen come l’espressione più matura e conseguente di una visione del mondo carente di pensiero critico. Non a caso in più luoghi Berardinelli parlerà della generazione dei poeti che fanno capo a Zeichen (Patrizia Cavalli, Giuseppe Conte etc.) come «uomini di fede», che fanno della poesia una professione fideistica. Il fatto è che dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini e dei Sanguineti ha preso piede una nuova intellettualità poetica rinchiusa nel mondo del privato e nel gioco ironico-istrionico. Zeichen e Patrizia Cavalli sono solo i due poeti maggiormente rappresentativi di questa nouvelle vague. Zeichen opera una de-ideologizzazione della poesia, una antiretorica, adotta uno stile cabarettistico infarcito di motti di spirito, da deraciné, dove compare una Roma, appunto, da cartellone, cartellonistica, cinica, scettica, subdola, cialtrona, nella quale si aggira un personaggio, un dongiovanni postmoderno in preda alla furia erotica dei suoi abbordaggi femminili, dove le donne sembrano uscite dalla cineteca di Cinecittà o dai programmi televisivi di Mediaset, o dai magazzini della Upim e gli eventi storici sono ridotti ad una collezione di gags da avanspettacolo o ad «occasione» ironico-scettica. È la raffigurazione della nuova società dello spettacolo e della ideologia del benessere.

 

Nel bene e nel male, l’opera di Zeichen è rappresentativa del passaggio della società italiana dall’epoca del disincanto e del relativo benessere di massa a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi vent’anni.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Ci sarà pure una ragione se critici istituzionali come Alfonso Berardinelli, Giulio Ferroni e Stefano Giovanardi hanno avallato la poesia di Valentino Zeichen. Io penso che la cultura critica da cui provengono i critici citati ad un certo punto non abbia più avuto le chiavi per entrare dentro i testi di poesia. Si è così verificato un, come dire, collasso della attività critica, sostituita dagli uffici stampa degli editori. Insomma, era accaduto che i critici istituzionali erano stati messi in archivio a preparare le schedine di accompagnamento dei libri editi, ad essi non veniva più richiesta nessuna lettura critica della produzione letteraria. Tra l’altro, la cultura critica di Berardinelli e Giulio Ferroni, per motivi anche generazionali, era anche anagraficamente attigua alla cultura di provenienza della generazione del poeta di Fiume; la loro cultura critica si è rivelata orfana di categorie critiche, non ha più saputo o voluto o potuto costruire un discorso critico sulla poesia moderna. O, forse, non era più possibile costruire una cultura critica. Per un verso, l’abbandono da parte di Berardinelli, il critico più dotato, della poesia contemporanea è un dato di fatto dichiarato dallo stesso studioso romano molti anni fa quando lasciò l’insegnamento universitario per un incarico presso una casa editrice. Per Giulio Ferroni il discorso è nominalmente diverso ma la sostanza non cambia: il critico romano si è chiamato fuori della mischia militante fin da quando, al principio degli anni Novanta, ha sostenuto la nota tesi del carattere postumo dell’arte contemporanea e, in particolare, della letteratura. Bollando implicitamente di postumità tutta la produzione letteraria degli ultimi decenni.

 

Non è una contraddizione quindi il fatto che entrambi i critici romani si siano dichiarati esegeti della poesia di Valentino Zeichen da essi considerato come un poeta significativo ed emblematico. L’abbandono della critica militante affonda piuttosto le radici nella nuova situazione di politica culturale nell’ambito più vasto della comunicazione nell’universo della globalizzazione mediatica. In altre parole, la critica della poesia contemporanea, nelle nuove condizioni della società globale, non ha più le prerogative e le credenziali di cui godeva la «vecchia» critica militante nell’ambito della «vecchia» società letteraria. Nelle nuove condizioni della società mediatizzata, la critica militante di poesia è un fatto del paleolitico superiore. Ora, ripeto, il fatto che entrambi i critici romani abbiano sostenuto l’emblematicità della poesia di Valentino Zeichen, trova la sua ragion d’essere, appunto, in questo quadro macro culturale della società italiana.

 

Io penso che la poesia di Zeichen può essere veramente considerata significativa ed emblematica dell’età della transizione dalla Italia della affluent society degli anni Ottanta a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi venti anni ma per i motivi esattamente opposti a quelli da enucleati dai critici citati. A mio avviso, la poesia del poeta di Fiume può essere considerata l’esemplificazione più appropriata e pertinente di quel fenomeno estetico (e non) che va sotto il nome di proto minimalismo. Il discorso può essere riassunto, per sommi capi, in questi termini: è dagli anni Ottanta che si preferisce parlare di scrittura poetica più che di «poesia», di post-romanzo e di post-poesia. Appunto, la post-poesia è quel manufatto linguistico che intende porsi «fuori» dalla poesia. I critici dianzi citati parlano della poesia di Giancarlo Majorino e di Valentino Zeichen come di una metanarratologia, una narratologizzazione del poetatum, di un «superamento» della poesia attraverso la retorizzazione dell’antiretorica. Una sorta di teatralizzazione del testo, di personalizzazione e di ironizzazione del mondo.

 

Direi che con la loro consulenza, Berardinelli, Ferroni, e Giovanardi legittimano, indirettamente, un vecchio paradigma.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Facciamo un passo indietro, Sandro Montalto acutamente chiosa il saggio di Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura: «Bertoldo sostiene la necessita di un narrare che fonda insieme esperienza e consapevolezza, sensazione e interpretazione del mondo. Occorre ritrovare la capacità propria del racconto di ra(ri)-contare (“contare nuovamente”) i fatti: ‘raccontare è molto più che narrare, significa storicizzare delle vicende, ossia interpretare i fatti che le compongono in quanto appartenenti a un processo storico»*.

Accettando la provocazione di Roberto Bertoldo, diremo una ovvietà, un pensiero elementare ma efficace: che la nuova letteratura della nuova generazione dovrà esser capace di ri-fondare il mondo e ri-leggere il reale. Zeichen elegge il luogo della poesia quale laboratorio della desublimazione, della diseroicizzazione e della ironizzazione. A furia di diseroicizzare, desublimare e ironizzare, Zeichen è finito nella post-poesia cabaret, siamo approdati allo stadio terminale di una cultura epigonica. Non è un caso che lo stile non-stile di Majorino e Zeichen abbia ormai raggiunto il punto di fuga della propria completa autonomia, un non stile che corrisponde alla nuova formulazione della post-poesia come una sorta di Gestalt linguistica che consente la produzione di una poematologia.

 

Ovviamente, nella nota della bibliografia del volume mondadoriano delle poesie di Zeichen non compaiono l’articolo critico di Giorgio Linguaglossa contenuto inAppunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, (Roma 2003), e la recensione a firma di Domenico Alvino apparsa sul n. 16 del quadrimestrale di Letteratura “Poiesis” nel 1998. Nel nuovo abito intellettuale di oggi gli articoli scomodi vengono espunti e cancellati.

 

Giorgio Linguaglossa

Alcune frasi famose di Zeichen:

1.“non ho nulla. vivo in una capanna”


2. ”dai vari salotti sono stato schierato a tavola come un trofeo: “abbiamo con noi anche il poeta”. e io sono stato al gioco. arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte”


3. “senza tessera del partito non mangiavi. e parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. non c’era concorrenza, solo spartizione. io sono apolitico. non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista”


4. “b. sarebbe stato un grande statista, ma perse l’occasione di passare allo storia”

5. Alberto Sordi. un campione. un genio. un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’italia meglio di chiunque altro, anche da regista”


Giorgio Linguaglossa

Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio

Valentino Zeichen sembra un adolescente che si è lasciato pettinare dalla mamma con l’acqua di colonia e invece ha quasi settant’anni, sessantotto. Non gli va via col tempo quell’aria di “guarda cosa mi tocca sopportare”, la ribellione imminente che spinge sotto pelle ma che forse – dicono gli occhi – da qualche parte di nascosto si è consumata già. Un adolescente di ritorno, un diciottenne con cinquant’anni di esperienza. È sommamente educato e strafottente. Elegante ma sgualcito. Paga il conto e viaggia in autobus. Ride sincero a volte si imbarazza e quando è contento si vede che è contento davvero.

Vive in una baracca abusiva ormai a Roma leggendaria e dice “io sono uno spirito che rispetta la legge perché la teme”, lo dice convinto. Si professa povero, probabilmente lo è. “Sono un cortigiano – dice anche – vado dove mi danno da mangiare e da vivere, lavoro su commissione”. Degli editori, dei mecenati, delle ricche signore che amano la sua conversazione e (meno) di una sofisticata committenza che ordina poesie come fossero ritratti da appendere in salotto: “La piccola borghesia fa fotografare i figli, l’alta borghesia si fa ritrarre a olio. L’aristocrazia del sapere commissiona poesie dedicate. Io le scrivo. Alcune mi vengono bene, altre no, comunque loro non se ne accorgono”. Diversi anni fa, quasi venti, Moravia consigliava un suo libro di poesie (Museo interiore) dicendo “vi si può riconoscere un’eco Marziale della Roma moderna”. L’ultima sua raccolta, Mondadori, s’intitola Neomarziale. Poetica delle cose quotidiane, poesia della vita vera e perizia suprema del verso. Grande ironia. “Nessun altro poeta avrebbe avuto il coraggio di intitolare un libro così. Io sì, credo dipenda dal mio sense of humour”.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

La invitano ancora molto a cena?

Parecchio. Sono sobrio e autosufficiente. So lavare e cucinare. Non impegno. Sono un buon conversatore, per questo mi invitano.

 

Com’è un buon conversatore?

Uno che ascolta, che guarda. Uno che nota il disagio e la noia dell’interlocutore. Allora cambia argomento. Taglia.

 

Seduce, anche?

Non più. Sono un pensionato della vita ormai. Un vecchio cortigiano. No, non è questa l’età in cui si raccolgono i frutti. A volte i frutti marciscono sugli alberi.

 

Non l’annoia il mondo colto e un poco snob, non la stanca?

No. Frequento tutti, anche i salotti letterari. Non ho pregiudizi. La gente mi interessa, mi piace. Poi mi serve. Studio quello che vedo e ne scrivo. L’ispirazione mi viene sempre a tavola.

 

È un artificio, no? Un pretesto.

Molto, sì. Alimenta lo humour.

 

Le piace vivere in quest’epoca? Potendo sceglierebbe un passato o un futuro?

Vivere in un’epoca di pace è una grande occasione, una fortuna collettiva. Pensi a quelli che hanno avuto 18 anni nel 1915, per dire. Il passato si può leggere all’infinito, è stupendo. Il futuro è più comodo perché non si sa. Bunuel diceva: vorrei riemergere un’ora al giorno dalla morte per poter leggere il giornale. Anche io lo vorrei.

 

Il giornale. Solo per sapere cosa è successo?

Le pare poco? Io sono un poeta civile. Mi interessa che tutti pieghino i cartoni quando li gettano nei cassetti, non lo fanno mai li riempiono di aria. Sono preoccupato per il sottosuolo: l’inconscio della terra.

 

Vota?

Qualche volta. Non sono mai stato un rivoluzionario, un ribelle semmai. La ribellione è un fatto individuale. Più della politica mi interessa la geopolitica. Ci sono più cose pratiche che ideologiche da risolvere. Vicino a me c’è un albergo con una buca davanti al garage. Io andrei a comprare l’asfalto per riempirla, sono un uomo del Nord. L’albergatore non lo fa. L’uomo si misura così: c’è quello che riempie buche e quello che non lo fa.

 

Una poesia nel suo libro è intitolata “Manicure della poesia”. Un’altra comincia dicendo “Nel tagliarmi le unghie dei piedi/il pensiero corre per analogia/alla forma della poesia”. La poetica dell’igiene personale, si direbbe.

La poetica è un fatto igienico, in effetti. È velocità, sintesi, cura. Somiglia alla chimica farmaceutica. Deve essere rapida ed efficace come un’aspirina. Manicure della poesia ci ho messo dieci anni a scriverla. Cercavo il passo del verso, volevo che fosse perfetto. Il peggio in poesia sono gli aggettivi: la prolissità, la descrittività. Ogni aggettivo è un fulmine, invece.

 

Ci sono scrittori e poeti che sfornano libri sulle loro crisi di vocazione. Anche registi. Vanno molto.

È un fenomeno di massa. L’assistenzialismo alla creatività. L’autoanalisi è diventata un costume sociale. L’autore fa autoterapia, il pubblico lo assiste: nei due sensi. Assiste e lo cura.

 

Va al cinema?

Moltissimo. Il mio regista preferito è Cuccino, un talento assoluto. Un genio.

 

Lo conosce?

No, si ama sempre quello che non si conosce. Vedo i suoi film. Sono un suo fan assoluto. Su Ricordati di me ho scritto una poesia per San Valentino.

 

Altri?

Moretti mi piaceva prima, l’Autarchico, Bianca: quel moralismo lì. Lo preferivo alla politica. Almodòvar mi stanca, non ha la genialità di Bunuel, Tarantino è il migliore: il dialogo delle Iene è la quintessenza dell’insensatezza. L’insensatezza della realtà è fantastica: me ne alimento.

 

Cosa legge? Altri poeti?

Conte. Cucchi. Magrelli. Il più grande del secolo resta Montale. Pasolini non mi interessa, Le donne, poi, vedo che vanno molto di moda. Valduga, Cavalli, Frabotta. C’è la par condicio, no?

 

Acido. Non le giudica all’altezza?

Forse temo la concorrenza. Sarà invidia del successo.

 

Non dica questo. Del mercato della poesia su commissione lei è monopolista assoluto.

È un mercato povero. Non c’è abbastanza richiesta. Sono disoccupato.

 

Se dovesse salvare un solo libro?

Shakespeare, tutto.

 

Si sente sottovalutato?

 No, sarebbe un lusso. Non mi sento in sintonia con nessuno però.

 

Quali sono le doti di un poeta? 

Immaginazione, fantasia. Senso dell’umorismo, senso della forma, ribellione.

 

Però poi lavora per chi paga

È ovvio. Ne ho bisogno, come farei. Anche Majakoski d’altra parte. Anche Pindaro.

 

Cosa farà nei prossimi mesi? Anche domani, ad esempio

Non ho idea. Potrei cercare svogliatamente qualcuno che rappresenti l’Apocalisse nell’arte, un lavoro che ho scritto per il teatro. Tratta l’insensatezza dell’arte contemporanea. Giustamente non lo mette in scena nessuno, li capisco.

 

Arte figurativa?

Sì, quella. La scultura, la pittura oggi non hanno nessun codice di ancoraggio. Nessun senso, qualunque cosa vale. Siamo tutti alla mercé d’una arte moralmente irresponsabile: viviamo negli eventi e non sappiamo che senso abbiano.

 

Magari le viene l’ispirazione per un testo nuovo

Può essere. Anzi guardi: un testo nuovo ce l’ho già, inedito. Si chiama La refezione. Pala di cibo.

 

Cibo proprio cibo?

Sì, cose da mangiare, sono cinque persone che discutono di pietanze. Fondamentale. Sono anche un bravo cuoco sa? Scialoja diceva non so se sono meglio come pittore o come poeta. Anch’io: non so se mi vengono meglio le polpette o le poesie.

 

Le polpette come?

Fritte, innanzitutto, Manzo, non vitellone. Pane sciapo spugnato nel latte, prezzemolo, aglio battuto fino, niente noce moscata, sono contrario alle spezie. Parmigiano. Piccole però, trenta con un chilo, se no non cuociono dentro. Ci vuole del tempo ma poi durano anche tre giorni.

 

Le poesie durano di più

Dipende quali, comunque sì. Anche per le poesie vale la regola delle polpette: per farle bene ci vuole tempo, e poi se son venute bene durano.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Due poesie inedite del 2014, da http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it

 

 

SI DICE CHE LA POESIA

 

Si dice che la poesia
manchi di vero slancio,
che non sappia più volare
poiché non più sorretta
dai grandi angeli alati.
Che farci? È un mondo
di poeti atei che volano
preferibilmente in aereo

 


LO SPREAD DEL TALENTO

 

Le anime belle ostili al patto fra Ricerca e industria
invocavano la Ricerca pura, purché universitaria,
e questa parola troppo diffusa si è persa, dispersa.
Sul trono le subentrò la nuova parola: la Crescita!
E il dogma della superproduzione invenduta, decadde.
Gli strateghi del male ci rivestono di tessuti
preferibilmente sintetici e anche tossici,
ci gonfiano d’obesità con cibi spazzatura.
E noi che scemi non siamo, più non consumiamo.
E a letto senza cena delle beffe andiamo.