Hala Alyan è una poetessa palestinese-americana e psicologa clinica. I suoi lavori letterari sono apparsi in diverse riviste, quali Guernica, The Missouri Review, Prairie Schooner. Atrium, edito da Three Rooms Press, ha conseguito il Arab American Book Award. E’ uscito recentemente Four Cities, edito da Black Lawrence Press. La sua raccolta più recente, Hura, ha vinto il premio della Sezione Poesia del Crab Orchard Series 2015, e sarà pubblicato dalla Southern Illinois University Press.
INTERVISTA A HALA ALYAN
DOMANDA 1: Il tuo sito Web contiene pochi dettagli autobiografici: dice soltanto che sei una poetessa palestinese-americana, specializzata in psicologia clinica, e che a presente vivi a Manhattan. Nelle dieci poesie che hai scelto per L’Ombra delle Parole, leggiamo di uomini feriti che tornano a casa, esperienze di incendi, Gaza, Beirut, Baghdad; e poi anche L’Oklahoma, Budapest, Berlino. Talvolta i riferimenti sono espliciti, talvolta allusivi. In entrambi i casi, sfuggenti. A tratti, si ha l’impressione che chi scrive questi versi viva la propria unità corpo-mente come i pezzi smembrati di un essere umano (cosa che ci dà anche modo di intravedere la sua condizione di donna nel mondo di oggi, ma per questo rimando alla domanda 4); e che spesso è solo questa persona dis-membrata, non l’unità umana nella sua interezza, che si muove, scorre attraverso luoghi lontani l’uno dall’altro. Gli altri “pezzi” di quella unità stanno “altrove”, forse in quelle zone crepuscolari dove ciascuno di noi appartiene solo a se stesso. Sogno e realtà sono spesso difficili da tenere separati. La post-modernità ha profondamente trasformato molti di noi, rubandoci i luoghi, le stesse famiglie in cui siamo nati, rubandoci le radici sociali, culturali, linguistiche. In cambio abbiamo ricevuto in dono un mondo inquietante, entusiasmante, apparentemente interconnesso, eppure frammentato. Senti calzante questa descrizione della persona poetica che emerge dalla tua poesia?
RISPOSTA 1: Trovo questa una descrizione squisita di ciò che cerco di fare nel mio lavoro poetico, che spesso viene sopraffatto dall’atto del ricordare, dal “remembering” nel senso di ri-membrare: vuoi gli antenati, o la terra, o l’amore… molte cose; e nel corso di questo lavorio, l’attenzione si concentra sulla parte rispetto alla persona intera, come hai detto tu. È così che appaiono “le aree crepuscolari” a cui alludi, ed è lì, secondo me, che entra anche il lettore: insieme perveniamo ad una frammentata ma più ricca visione di quello che vorremmo dire.
DOMANDA 2: Le tue poesie ci lasciano capire che nel corso della tua vita hai viaggiato molto in tutto il Medio Oriente, in Europa, gli USA. Immagino che alcuni di questi viaggi li hai scelti tu, altri ti sono stati imposti dalle circostanze.
RISPOSTA 2: Certo, alcuni di questi viaggi li ho scelti io di mia iniziativa. Quando mi imbatto in una città che sento subito vicina – New Orleans, Jaffa, Siviglia – quel luogo rimane nel mio pensiero, anche se non ci tornerò più. Mi piace vedere il viaggio come l’inizio di un rapporto con lo spazio, una collaborazione: la città forse ricambierà il tuo amore, forse no. La città ti darà un senso di riposo, o non te lo darà. I luoghi che mi ricambiano con un qualche affetto o con un qualche cuore, li sento subito vicinissimi a me.
Alcuni viaggi, come dici, mi sono stati imposti dalle circostanze. Quando avevo quattro anni, Saddam invase il Kuwait, e la mia famiglia fu costretta a fuggire. Prima in Siria per un breve periodo, poi verso il Mid-West degli Stati Uniti. Nel 2006, mi trovavo a Beirut quando scoppiò la guerra fra Hezbollah e Israele, e questo ci costrinse dopo del tempo a salire a bordo di una nave per sfollati diretta a Cipro. In seguito a ciò il mio rapporto con Beirut, la città in cui avevo passato gli anni di liceo, cambiò moltissimo. Mi sono resa conto del mio sentimento di grande amore e profonda diffidenza verso questa città. Sento forte l’appartenenza al Medio Oriente – un luogo che può esserti tolto nello spazio di un battito del cuore. Eppure è lì che esprimo più la mia autenticità.
DOMANDA 3: Le poesie generalmente dicono tutto quello che devono dire, non hanno bisogno di essere spiegate. Nel tuo caso, quello di una poetessa che attraversa le lingue e i continenti, qualche spiegazione in più può aiutare il lettore a capire meglio. Prendo come esempio la mia esperienza personale. Io impiego materiali nella mia scrittura che pur essendo simili e presenti simultaneamente in diverse lingue e culture, acquistano sfumature e suggestioni diverse, inedite, quando vengono rimescolati, costretti ad attraversare le barriere che quelle culture ancora innalzano una contro l’altra. La ricchezza-diversità del nostro mondo globalizzato non è così “seamless”, interconnessa, come si pensa: le cuciture e le interruzioni, la incomunicabilità culturale ci sono, eccome. Questo è soprattutto vero nella poesia, che almeno qui in Europa punta spesso alla conservazione di moduli testati – il cosiddetto bagaglio della tradizione letteraria – e non alla innovazione e alla ricerca di nuove possibilità espressive. Insomma, la poesia bene o male ancora oppone resistenza al mondo contemporaneo, che pure ci è davanti agli occhi, che subiamo e viviamo quotidianamente. Ecco perché aspetti di cultura esistenti in una zona e in una lingua hanno difficoltà ad essere recepite, anche solo tradotte, in un’altra zona o un’altra lingua senza subire una forte distorsione dei contenuti. Questo difficile processo di “comunicare”, “veicolare” i contenuti in modo “puro”, è proprio l’argomento di molte mie poesie. Mi sembra che una dinamica simile possa applicarsi alla tua scrittura.
RISPOSTA 3: E’ una domanda difficile. Comunque sia, sì, sono molto in sintonia con te quando dici che è arduo comunicare la nostra esperienza (che per me in ogni caso è fortemente connessa alla cultura e al luogo) e allo stesso tempo salvare quella esperienza dall’atto della traduzione-comunicazione, diciamo così.
Secondo me, i lettori leggono la poesia e la contestualizzano secondo il loro proprio immaginario. Ad esempio, trovo spesso che lettori occidentali cercano l’elemento arabo nella mia poesia, mentre gli uomini vi cercano tutto quello che è femmina. Sono certa che un background cosiddetto “complicato” tende a sviare il lettore, il quale allora sente di doversi mettere alla ricerca della traccia di briciole di pane dell’esperienza del poeta: dove è vissuto, chi ha amato, e via dicendo. Quando ero più giovane, mi preoccupavo molto di come dovevo “rappresentare” le varie realtà alle quali mi sentivo legata: la Palestina, essere donna, per dirne due. Ultimamente il mio concetto della “privacy” , della sfera intima, è cambiato e così anche il senso di responsabilità nei confronti dei lettori: cerco di spiegare meno nella mia scrittura. Parto con l’assunto che molto probabilmente il lettore non sarà in grado di immedesimarsi nella mia pulsazione emotiva, e quindi scrivo con la consapevolezza (e quindi con maggiore abbandono) che i lettori introdurranno se stessi, le loro vite, i desideri e le paure, in qualsiasi testo. In questa consapevolezza trovo un enorme senso di liberazione.
DOMANDA 4: In alcune tue poesie – ad esempio “Tu, ragazza bonsai” e “Arte di Compleanno” – riusciamo a intravedere la poetessa come donna che necessariamente vive fra realtà “tradizionali” e “moderne”. D’altronde è questo il destino di milioni e milioni di donne in tutto il mondo oggi. C’è qualcosa che vuoi dirci a tal riguardo?
RISPOSTA 4: Lo faccio, io penso, inconsapevolmente: quello di trovare un modo per scorrere attraverso il tradizionale e il moderno. Nella vita quotidiana, sono talvolta vagamente cosciente del fatto che mi trovo a praticare un delicato atto di equilibrismo, particolarmente quando torno in Medio Oriente. Sia some psicologa che come scrittrice, credo fermamente nella potenza della testimonianza, sia del vissuto degli altri, sia del vissuto che è nostro. Questo, in particolare per le donne, può essere galvanizzante al massimo: la scrittura come catarsi, che ci aiuta a capire i sistemi di oppressione e di occupazione che viviamo oggi nel mondo.
COMMENTO DI CHIUSURA di Steven Grieco-Rathgeb
Mentre in tandem traducevamo le poesie di Hala Alyan, poetessa palestinese-americana, ci siamo trovati più volte a dover separare, distinguere fra i molti strati di vissuto che emergono dalla sua poesia come fitto intrico di significati e allusioni. Sorgono subito alle labbra parole come “spodestamento”, “diseredazione”, “esilio”, e questo è evidente dalle domande che le ho posto. Ma in queste cose è necessario andare con i piedi di piombo. Dopo il primo periodo d’infanzia, come apprendiamo, la poetessa è passata da un paese all’altro, e forse non ha mai sentito di appartenere interamente a nessuno di questi, seppur vivendo con virile distacco e lucida intelligenza questo trascorrere, questo scivolare senza peso attraverso i luoghi, le persone e le situazioni.
Vi è un sottile, allucinato vibrare nella sua poesia, come se il suo comune quotidiano vivere fosse insidiato da una mascherata estraneità. Nei soggetti che hanno una esperienza esistenziale di rottura, frammentazione e separazione, la irriducibile alterità delle cose spesso si presenta così, con un volto familiare, conosciuto, perfino sorridente.
Certo è che le sue poesie rivelano una vita onirica ricchissima. Anche questa è forse una difesa dalla consapevolezza che il tessuto del reale è stato più volte lacerato. Ma tale situazione, diciamo pericolosa, che può chiudersi su se stessa e diventare balbettio, si trasforma qui in una capacità di controllo del mezzo espressivo: ed ecco la stratificazione dei contenuti, ecco la volontà complessa di giungere ad un qualche seppur labile equilibrio, una qualche armonia fatta di dissonanze: ecco questa ricca, talvolta inscrutabile densità di scrittura.
In un primo momento ho chiesto a Hala Alyan di darmi qualche informazione biografica in più – cosa che prontamente lei ha fatto: poi invece ho capito che una delle cifre della sua poesia è proprio la reticenza riguardo al dato biografico, facilmente manipolato e frainteso. Il pericolo è che il lettore sminuisca queste poesie accomunandole semplicisticamente al dramma mediorientale che ogni giorno si svolge davanti ai nostri occhi mediatizzati.
Qui invece siamo in presenza di una poetessa che è sì – sicuramente – vittima di forti dislocazioni geografico-umano-temporali dovute almeno in parte alla conflagrazione della sua terra d’origine: ma che usa la propria esperienza per fini poetici che vanno oltre il dato umano, soggettivo. E qui la cosa diventa sottile, complicata. Siamo in presenza di un tentativo di forgiare l’esperienza umana in poesia pura, distaccata dal dato soggettivo. Ciò è soprattutto sorprendente data la sua età. Si dice che il vuoto poetico nel mondo di oggi faccia di poeti sessantenni e settantenni dei “giovani” in pieno sviluppo artistico: in modo simile, vediamo i giovanissimi talvolta maneggiare lo strumento espressivo con consumata maestria, un tempo più tipico del poeta maturo.
Non solo le poesie, ma anche la posizione teorica che emerge dalle ultime battute della Risposta 3, sembrano porre questa poetessa all’avanguardia poetica oggi. Mi riferisco alla sua precisa volontà di praticare una scrittura non-invasiva, una scrittura che abbia come presupposto la “libertà” del lettore. Il che sembrerebbe necessariamente implicare anche il non-controllo da parte dell’autore del suo testo. Siamo di fronte ad una questione delicata. C’è da chiedersi in quale modo l’autore riesca a dare piena libertà al suo testo: e forse la risposta può soltanto stare in questo: nel rigore del linguaggio. In fondo, ogni opera artistica si basa su un linguaggio: di conseguenza, più è coerente il linguaggio, più facilmente recepibile ne sarà la suggestione, o il “messaggio”. Oggi rigore di linguaggio e libertà espressiva sono i due pezzi perfettamente corrispondenti dello stesso symbolon: l’opera artistica.
Nelle sue composizioni musicali, Iannis Xenakis crea dissonanze forti, “creative” proprio all’interno di un linguaggio di assoluta coerenza: fino ad evocare, a suggerire, alquanto stranamente, una remotissima, stupefacente armonia.
Indispensabile requisito: che il fruitore abbia familiarità con il linguaggio usato. Senza questa, tutta l’arte moderna – dagli espressionisti, cubisti e dodecafonisti in poi – è solo rumore.
Queste poesie di Hala Alyan dunque ci chiedono di avvicinarci con passo lieve, senza eccessive contestualizzazioni che depistino invece di illuminare. Piuttosto con quell’approccio che Mani Kaul, regista indiano, usava con i suoi studenti alla Harvard University e alla Scuola d’Arte di Rotterdam: veniva loro mostrato un frammento di una immagine, un pezzo totalmente anonimo, indecifrabile ma non insensato, sul quale si chiedeva loro di concentrare l’attenzione per evincerne un senso, una suggestione: e di esplorarla nella sua nuda semplicità, al fine di usarla eventualmente per un loro proprio percorso creativo.
Forse è così che i poeti agiscono gli uni sugli altri: non per imitazione, ma con una mano che appena ti sfiora la spalla.
GIORGIO LINGUAGLOSSA: LA NON-CHIUSURA DELLA POESIA E IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO
Il problema posto da Steven Grieco-Rathgeb nella intervista e nel susseguente commento alla poesia di Hala Halyan, non è di poco conto: il problema della «apertura» dell’opera letteraria, del suo porsi in posizione di «indeterminazione», ovvero della «non-chiusura» della poesia, o del romanzo, o di un quadro etc.; il problema della dis-locazione della scrittura di una poesia (il prendere un pezzo di qua e un pezzo di là); il problema della omogeneizzazione stilistica di tutti questi elementi; il problema delle differenti tradizioni nelle quali un’opera vive (e non potrebbe essere altrimenti poiché viviamo in un mondo globale, interculturale). Tutti problemi interconnessi strettamente con il problema del «linguaggio», che io però sarei dell’avviso di non enfatizzare, abbiamo enfatizzato e anche dogmatizzato il problema del linguaggio dagli anni Sessanta ai giorni nostri perché non sia intervenuta una grande stanchezza di questi discorsi che un tempo lontano magari avevano la loro legittimità e utilità ma che oggi rischiano di essere fuorvianti. Il vero problema OGGI non è il linguaggio ma il linguaggio poetico, il suo rapporto con il «mondo» (come afferma Yves Bonnefoy nella intervista che abbiamo postato pochi giorni or sono e come io spiego chiaramente nella introduzione alla Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, 2016, pp. 353 € 18).
Dunque, quello che un tempo lontano era il problema dei problemi (il LINGUAGGIO) è oggi diventato del tutto secondario. Come può essere avvenuto questo ribaltamento di posizione? – Ma io penso molto semplicemente che un poeta già oggi si trova a dover fare i conti con i media di cui dispone, volente o nolente, si trova in un mondo plurilinguistico e multietnico, non può più ignorare che viviamo in una realtà fatta di tante stratificazioni linguistiche, iconiche, ideologiche, segniche, antropologiche. Da questo punto di vista l’importanza della tradizione letteraria di ogni paese tende tende a diminuire. Diventa importante appropriarsi di altre tradizioni letterarie (e non); diventa prioritario misurarsi con ciò che si fa a Vladivoskok o a Calcutta o nella sperduta Australia, perché no? Ecco perché io sorrido quando vedo i letterati milanesi che scrivono alla maniera dei milanesi e i romani alla maniera dei loro modellini romani. Capisco le mode letterarie, capisco l’omologazione pseudo culturale, capisco la superficialità della massa dei letterati, capisco ma non posso condividerla. Oggi scrivere alla maniera di Sereni o di Zeichen è del tutto sciocco, si fa pseudo poesia da giardino zoologico, da recinto degli indiani.
La poesia di Hala Alyan mi sembra la tipica poesia di un appartenente al limen dei mondi e delle civiltà, nel senso migliore, la sua strumentazione sonora, lessicale e semantica è, di fatto, interculturale, ricchissima, stratificata, modernamente insonora, dis-locata, priva di «chiusure» automatiche, predisposte…
Il legare insieme elementi linguistici eterogenei appartenenti a strati e generi lessicali diversi e lontani è una caratteristica di Hala Alyan, e non può essere frutto del caso questa procedura, ma un preciso elemtno di poetica; il mescolare elementi onirici e dati del quotidiano, anche :
Ho filato il legno in vetro
e l’ho suonato come un sitar. Fuori
il cielo ruggiva e una foresta è germogliata,
bruscamente, sul lettino. Sono entrata carponi
fra gli abeti, mi sono appiattita
sul tappeto. Le cicale frusciavano
dentro una pera. La tempesta è diventata
una milizia. Tintinnavano con sonagli,
volevano i miei denti. Mi sono svegliata
ed era sole e ho dimenticato.
Si tratta di indizi che ci portano dentro gli alambicchi della raffineria poetica della poetessa: l’interscambiabilità tra dati onirici e reali la natura delle metafore spurie, ovvero, appartenenti a parole non imparentate nel medesimo genere adoperate da Hala Alyan. Avviene così che gli indizi complementari e sussidiari interagiscano con gli indizi semantici fondamentali suggerendo un sovrappiù di indeterminazione semantica e acustica, il tutto raddoppiato dall’uso sapiente del verso libero… Qui siamo davvero in una poesia dall’ampio, amplissimo spettro «indiziario», la lingua è costruita come un elastico semantico che fa uso di metafore e catacresi e di simboli de-simbolizzati…
Steven Grieco-Rathgeb
11 luglio 2016 alle 13:33
E’ possibile, certamente, che il linguaggio non appaia di primaria importanza in ambienti oggi in cui appunto esiste ancora un linguaggio comune, unico, in cui i più si riconoscono. Voglio dire, un linguaggio il quale proprio perché comune a più letterati, tende a nascondersi.
Non mi sembra proprio che né Giorgio Linguaglossa né L’Ombra delle Parole appartengano a quegli ambienti. Quindi non capisco quella parte del commento di Giorgio più sopra
Sono ambienti che nella società odierna e interculturale probabilmente spariranno del tutto, perché incapaci di comunicare punto e basta.
Non vi può essere ombra di dubbio che nel nostro mondo delle lingue e delle culture interconnesse (spesso ingannevolmente), il problema del linguaggio è assolutamente e improrogabilmente centrale: appunto l’altra metà, imprescindibile, per sviluppare la possibilità di un sistema espressivo “aperto”, che varchi le frontiere, come dicevo nel mio commento alla poetessa Hala Alyan.
Per esempio: come scrivere una poesia italiana recepibile fuori dal paese e in qualche modo “fuori” della stessa lingua italiana, che pure rimanga italiana, perfettamente italiana, e sia per giunta rispettosa della tradizione letteraria di questo paese? Ecco la quadratura del cerchio, che oggi in matemica si può fare, così mi dicono). Anche in letteratura la cosa è possibile. Solo che per questo è necessario forgiare un linguaggio.
Un tempo il linguaggio, un “certo” linguaggio, era riconosciuto come appannaggio di una scuola letteraria, di una corrente, talvolta di una intera lingua letteraria – italiano, hindi, inglese, francese, arabo, non importa. Oggi ciascun artista, sia egli artista, musicista o letterato, deve trovare-lavorare il proprio rigorosissimo linguaggio per forgiare un’opera che sia libera – l’unica oggi in grado di varcare i limiti regionali – e allo stesso tempo di essere intellegibile, appunto non un balbettio, o un linguaggio ristretto ad una ristretta cerchia di fruitori.
E’ questo che mi balzò agli occhi chiarissimo alla Biennale di Venezia qualche anno fa. A parte le cianfrusaglie, le opere significative (che non erano pochissime) usavano ciascuna un proprio linguaggio, un linguaggio il cui perfezionamento era costato sangue a quell’artista, ma che aveva reso l’opera profondamente “comunicante”, in alcuni casi, sublime.
Tutta la musica contemporanea, da 70 anni a questa parte, grida questa verità a voce altissima.
E’ proprio la poesia che, rimasta indietro, ha difficoltà a riconoscere questo dato basilare.
“Rigore di linguaggio” e “sistema aperto” di un’opera: In realtà il primo è costitutivo del secondo. Due realtà reciprocamente esclusive a prima vista, a seconda vista le due metà inscindibili della stessa opera artistica.
giorgio linguaglossa
11 luglio 2016 alle 16:30
Caro Steven,
ma è dagli anni Sessanta del lontano Novecento che ho dovuto sopportare il ronzio continuo e massacrante delle teorizzazioni che anteponevano il Linguaggio a tutti gli altri problemi, con la conseguenza che abbiamo sfornato una serie di poeti che scrivevano per i professori di italianistica e di poeti che si rivolgevano ad altri poeti. I Novissimi (1961) sono stati un fenomeno tipicamente italiano, le post-avanguardie poi del Novecento e i sostenitori dei mini canoni con le loro mini riforme del linguaggio poetico credevano ciecamente che scrivendo in un certo modo avrebbero ottenuto il passaggio verso l’eternità dello Spirito. E invece sono finiti nel buco del dimenticatoio, le loro opere si sono rivelate costruzioni fonematiche e lessematiche. Tutto qui.
Per tanti anni non è stato possibile scrivere in Italia una poesia che non si ponesse più il problema del linguaggio come problema prioritario. E gli effetti devastanti di questa impostazione sono sotto i nostri occhi.
Il poeta di maggiore spicco della impostazione linguistica in Italia è stato Andrea Zanzotto. Ma è certo che i suoi libri, a parte i primi due degli anni Cinquanta, risultano oggi quasi illeggibili: un petrarchismo ribaltato e rifondato secondo le cognizioni più evolute della linguistica di Sassure. È incredibile come per tanti anni si è presa per buona la novella che i poeti scrivessero per il “significante”! – Incredibile che abbiano fatto bere alla massa dei letterati questa sciocchezza, come se un poeta quando scrive le proprie poesie pensa realmente alla bontà del significante!
Oggi ci siamo liberati finalmente da questa dittatura della stupidità e della ottusità. Oggi si sono ripristinate, in Italia, le condizioni per poter scrivere una poesia finalmente liberi dalla dittatura delle sciocchezze ripetute con il megafono.
Quello che oggi invece vedo è che vedo dei giovani (tra i trenta e i quarantacinque anni) i quali scrivono come i loro professorini vogliono che scrivano. Ma questo è un altro discorso. Assistiamo ad una sperticata lotta verso il monologismo conformistico tipico dei nostri tempi di stagnazione.
Steven Grieco-Rathgeb
11 luglio 2016 alle 21:51 Modifica
Caro Giorgio, secondo me stai perorando sulla necessità di abbattere posizioni teoriche che da tempo non hanno più corso (e qui hai perfettamente ragione), solo perché non hai capito a cosa alludo io quando uso la parola “linguaggio”.
L’uomo (ma anche gli animali) per creare qualsiasi cosa, ha bisogno di darsi un linguaggio, intendo una possibilità di trasferire l’attività mentale specifica intorno al suo obiettivo “concreto”: in un gruppo di parole, o in altre forme, che siano un discorso sulla finanza o mettersi a vangare l’orto.
Io invece ho il vago sospetto che stiamo parlando della stessa cosa, ed è la parola “linguaggio” che ti dà fastidio, per via del passato della poesia non solo italiana. E questo lo capisco benissimo. Possiamo usare un’altro termine, non sono particolarmente attaccato a uno o ad un altro.
Rimane incrollabile quello che ho detto nel paragrafo precedente: per creare un’opera ci vuole una sorta di organizzazione dell’attività mentale specifica, e questo si può anche chiamare “linguaggio”.
Come ho detto nel commento di questo pomeriggio, oggi ogni opera tende a richiedere un suo specifico linguaggio, mentre in passato questa cosa non era così chiara, per via della presenza allora di consolidate scuole artistiche, con una propria spesso ben delineata estetica.
Oggi il campo è aperto.
Nella pratica artistica necessariamente liberissima di oggi, ogni opera avrà bisogno del suo proprio linguaggio. La parola “linguaggio” già implica il senso di “struttura aperta”.
E’ di questo che sto parlando.
E, lo ripeto, secondo me stiamo parlando della stessa cosa. Cambiamo pure la parola “linguaggio”, se questo può essere d’aiuto.
Giuseppe Panetta
11 luglio 2016 alle 22:52
Credo di interpretare il pensiero di Liguaglossa riguardo al linguaggio e la sua avversione verso di esso, inteso come standardizzazione di un evento che interessa un nucleo definito e che rimanda ad una presunta rivoluzione connotativa di un certo modo di fare poesia che, come un cane che si morde la coda, si concentra più sul modo di fare poesia che non sul fare poesia oltremodo.
Sarebbe meglio parlare di lingua che non di linguaggio, in quanto il linguaggio oramai non è più connotativo, con la rivoluzione interculturale in atto. Per portare qualche esempio vicino a noi, Maria Rosaria Madonna, forse avvertita l’urgenza, inventa una lingua, lo stesso la Stecher nella sua chiarezza, come pure Sagredo che in qualche modo ripensa ogni connessione della rete sinaptica.
E c’è anche da chiedersi, come mai Hala Alyan, mediorientale di nascita, scelga l’inglese come lingua culturale e non viceversa.
ubaldo de robertis
12 luglio 2016 alle 10:08
Qualcuno dovrà promettermi che l’odierno brillante post verrà riproposto in tempi migliori, intendo dire al riparo dalla calura di questi giorni. Qui c’è tanto da meditare.
A me interessa particolarmente esaminare come la poetessa Hala Alyan sappia trovare, con naturalezza, i nomi per designare l’oggetto, per creare immagini nuove, e come sa conferire alla poesia la forza della dislocazione. Ma tanti degli aspetti della sua poesia, abilmente sottolineati da Steven Grieco-Rathgeb, relatore, traduttore, poeta che sa cercare la poesia come si cerca un luogo, sono da approfondire. Ad esempio quando Steven riconosce ad Hala Alyan la: “precisa volontà di praticare una scrittura non-invasiva, una scrittura che abbia come presupposto la “libertà” del lettore.”
Con la puntualizzazione:“ C’è da chiedersi in quale modo l’autore riesca a dare piena libertà al suo testo: e forse la risposta può soltanto stare in questo: nel rigore del linguaggio.”
Attendo la promessa.
Ubaldo de Robertis
giorgio linguaglossa
12 luglio 2016 alle 10:19
Riprendo un post di Gilberto Gavioli:
La tecnica dello scrittore in 13 tesi, di W. Benjamin
tratto da: Strada a senso unico (Einaudi, 1983)
1. Chi intende procedere alla stesura di un’opera di vasto respiro si dia buon tempo e, al termine della fatica giornaliera, si conceda tutto ciò che non ne pregiudica la continuazione.
2. Parla di quanto hai già scritto, se vuoi, ma non farne lettura finché il lavoro è in corso. Ogni soddisfazione che in tal modo ti procurerai rallenterà il tuo ritmo. Seguendo questa regola, il desiderio crescente di comunicare diverrà alla fine uno stimolo al compimento.
3. Nelle condizioni di lavoro cerca di sottrarti alla mediocrità della vita quotidiana. Una mezza quiete accompagnata da rumori banali è degradante. Invece l’accompagnamento di uno studio pianistico o di uno strepito di voci può rivelarsi non meno significativo del silenzio tangibile della notte. Se questo affina l’orecchio interiore, quello diventa il banco di prova di una dizione la cui pienezza soffoca in sé persino i rumori discordanti.
4. Evita strumenti di lavoro qualsiasi. Una pedante fedeltà a certi tipi di carta, a penne e inchiostri ti sarà utile. Non lusso, ma dovizia di codesti arnesi è indispensabile.
5. Non lasciarti sfuggire alcun pensiero, e tieni il tuo taccuino come le autorità tengono il registro dei forestieri.
6. Rendi la tua penna sdegnosa verso l’ispirazione ed essa l’attirerà a sé con la forza del magnete. Quanto più lento sarai nel decidere di mettere per iscritto un’intuizione, tanto più matura essa ti si consegnerà. Il discorso conquista il pensiero, ma la scrittura lo domina.
7. Non smettere mai di scrivere perché non ti viene più in mente nulla. E’ un imperativo dell’onore letterario interrompersi solo quando c’è da rispettare una scadenza (un pasto, un appuntamento) o quando l’opera è terminata.
8. Occupa una stasi dell’ispirazione con l’ordinata ricopiatura del già scritto. L’intuizione ne sarà risvegliata.
9. Nulla dies sine linea: sì, però qualche settimana.
10. Non considerare mai perfetta un’opera che non t’abbia tenuto una volta a tavolino dalla sera fino a giorno fatto.
11. La conclusione dell’opera non scriverla nel solito ambiente di lavoro. Non ne troveresti il coraggio.
12. Gradi della composizione: pensiero, stile, scrittura. Il senso della bella copia è che in questa fase l’attenzione va ormai soltanto alla calligrafia. Il pensiero uccide l’ispirazione, lo stile vincola il pensiero, la scrittura ripaga lo stile.
13. L’opera è la maschera mortuaria dell’idea.
Silvana Baroni
12 luglio 2016 alle 16:12
Prima di tutto, grazie a chi ha curato questo necessario incontro. Veramente alta poesia, per la quale godere, sulla quale riflettere.
Non credo qui si tratti di linguaggio ( ideologia del linguaggio, linguaggio come totem contro l’accademia del lirismo, del sentimento, di nota scuola…), ma di libertà compositiva assoluta della lingua per un uso non contro, ma a favore di una assoluta autenticità espressiva. Questa poesia è ricca di sincronismi emozionali, quasi un ipertertesto in cui confluisce memoria e onirismo, l’ovunque e il qui adesso. Nel leggere questi versi una intensa emozione mi avvince e mi convince esattamente come davanti ai quadri di Frida Kahlo.
Ancora GRAZIE!
Steven Grieco-Rathgeb
12 luglio 2016 alle 19:10
Sì, ringrazio Silvana Baroni, che sa sempre estrarre il succo senza violenza, e ringrazio Hala Alyan, che ha reso possibole questo post con la sua poesia.
Steven Grieco-Rathgeb
12 luglio 2016 alle 17:46
SULLA QUESTIONE DEL “LINGUAGGIO POETICO” di STEVEN GRIECO-RATHGEB
Riguardo al termine “linguaggio”. Innanzitutto ringrazio Giuseppe Panetta per il suo commento. E qui, per spiegarmi meglio, segue una mia “confessione”:
Il fatto è che io ho avuto molto poco a che fare con le neo- e post-avanguardie della poesia degli Anni 1960-80. Non ero né sostenitore, né fortemente contrario: come outsider, leggevo con curiosità i tentativi disperati dei poeti e dei critici di allora di imbrigliare, ideologizzare, dogmatizzare poesia e letteratura, e non partecipavo quasi per niente. Ero solo l’osservatore di una linea che mi era chiaro si sarebbe presto inaridita. Lasciando, qua e là, qualcosa di buono. Perché delle volte c’era bisogno anche di questo modo di intendere la letterature. Anche loro cercavano di togliersi di dosso il peso di tradizioni morte.
Comunque sia, come poeta io provengo quasi totalmente dalle mie letture personali, che spaziavano ovunque e non riuscivano a collegarsi, nonostante alcuni miei sforzi all’inizio, al gusto imperante di allora. Da un’altra parte, fondamentale, io provengo dalla scuola della musica, soprattutto da quella contemporanea, e dalla scuola del raga indiano, soprattutto come estetica e metodo compositivo.
Un metodo che vive pericolosamente fra visione ed estrema coerenza mentale. Ecco perché “linguaggio”.
Nella musica classica contemporanea degli Anni 1950-90 si respirava fin dall’inizio una atmosfera molto più libera rispetto alla letteratura, seppure anche lì in alcuni punti vi fosse una ideologizzazione estetica talvolta eccessiva. Per esempio Berio, Nono, che comunque rimangono musicisti di indiscusso valore.
Ma essa non ha vissuto, a quanto pare, costrizioni teoriche così forti da farla ammutolire per 50 anni, come è successo in larga parte per la poesia.
In musica i comportamenti teorici estremi, comunque partorivano uomini come Cage e Morton Feldman, che si ascoltano ancora oggi con sommo piacere. Invito all’ascolto di “Dream” di John Cage, se Giorgio gentilmente può caricare il pezzo su L’Ombra. Dura solo otto minuti, e dà un’idea di quello che la musica riusciva allora a fare, mentre la letteratura era già nella morsa falso-teorica dell’ultimo Calvino che fraintendeva la scuola psicologica di Lacan e gli altri, e di Eco che leggeva male la grande lezione di Borges, riducendo tutto ad un gioco combinatorio.
Dostoevsky, Kafka, e gli altri non fecero della letteratura un gioco combinatorio. Ne fecero uno specchio della vita.
Perché tale dogmatizzazione è avvenuta meno o in modo limitrofo nella musica contemporanea? Io penso perché i suoni sempre, anche in presenza delle posizioni ideologiche più trancianti, conservano la loro suggestione. Non significano come significano la parola, né quindi si prestano così facilmente alla distorsione. Questo ha salvato la musica. E questo il fardello della parola, il fardello della scrittura. Noi scrittori ce ne dobbiamo fare carico!
E poi, diciamo la verità ci sono stagioni felici per un’arte e meno felici per un’altra, e così è stato per la musica e per le letterature.
Per quanto riguarda Hala Alyan e il commento preciso di Giuseppe Panetta. Bisogna capire che chi nel passato e ancora in parte oggi, usa la lingua inglese ma proviene o da una ex-colonia o da territori diseredati come il Medio Orente, non lo usa così come nulla fosse, leggermente. Deve pensare il suo rapporto con quella lingua, e lo deve pensare con grande attenzione, per dare un senso al suo background.
Nel nostro scambio di mail, una delle prime cose che ho fatto è stato di consigliare a Hala Alyan la lettura del poeta indiano Arun Kolatkar, che spero di postare presto su L’Ombra. E’ questo un esempio folgorante di un Indiano che usa la lingua inglese con assoluta maestria, ma finisce per spezzarla, e subito dopo ricomporla. Il “nuovo” Inglese di Arun Kolatkar è una lingua flessibile, elegante, aperta a 360°, affrancata dal puzzo ottocentesco.
Oggi questo problema identitario con una lingua propria ma aliena è già meno sentito, gli anni sono passati, alcuni problemi si sono attenuati via via che l’Inglese è diventato sempre più imperante e globalizzato, e quindi anche lui più duttile.
Direi che oggi sono proprio i paesi e le lingue europee che devono affrontare questo problema. Secondo me, oggi, uno scrittore di un paese europeo non anglofono, dovrebbe affrontare l’inglese, impararlo alla perfezione prenderlo per le corna e domarlo, così come fece il grande Arun Kolatkar.
(Anch’io a modo mio ho qualche sentimento di rivalsa verso l’Inglese, sia chiaro, e questo perché mi identifico profondamente anche nelle altre lingue della mia infanzia e giovinezza.)
Se invece egli si appoggia unicamente alla tradizione letteraria della propria lingua pensando di evadere in questo modo il problema, vuol dire che lei/lui è un naturale conservatore, e in questi tempi la conservazione viene più o meno obliterata dal proverbiale rullo compressore del Tempo. Non dimentichiamo gli enormi drammi che viviamo oggi in tutto il mondo, non dimentichiamo le epocali e profondissime trasformazioni a tutti livelli della vita che avvengono OGGI.
Verrà di nuovo anche la conservazione, sicuramente, e sarà anche necessaria: non adesso, però, ma in un tempo futuro, avanti, che non ancora intravediamo.
Hala Alyan nella sua poesia usa un inglese, tendenzialmente americano, con assoluta originalità, con apertura e mirabile leggerezza e disinvoltura, e sempre con una eleganza come i passi di una danza: e con un riguardo (specialmente nel suo uso di locuzioni e forme grammaticali un po’ slangy), quasi con la delicatezza di chi è ospite ovunque. E’ questo che la accomuna a me. E quella delicatezza in lei è ironia nel suo senso migliore e più allettante, quando cioè l’ironia diventa distacco non-violento dal proprio oggetto.
“Distacco” che si trasforma nella mente del lettore in “senso di suggestione, ispirazione, ma soprattutto di liberazione”.
Tornando alla questione del “linguaggio”: per me questo termine è sinonimo di “assoluta coerenza del testo alla forma estetica prescelta per esso”. Ripeto, la unica, singola volta di quel singolo testo. Gli argomenti che affronto nella mia poesia provengono da una tale selva di luoghi diversi e realtà linguistico-culturali diverse, che mi trovo continuamente in lotta con me stesso, nel tentativo estremo di raggiungere una armonia, per quanto dissonante.
Ho imparato rigore e coerenza perché non potevo fare diversamente: è stato davvero duro lasciarmi liberamente penetrare da tutte le più disparate suggestioni culturali sempre però evitando, per un millimetro, di trovarmi la testa dentro un totale guazzabuglio, con il conseguente balbettio, o persino la discesa nella follia.
Per questo io do estrema importanza alla improvvisazione, al dato aleatorio che entra contraddittoriamente fra le maglie della composizione mentre questa nasce, fino a sconvolgere lo stesso suo assetto: ma in realtà quel dato random dirompente sta soltanto rivelando la vera forma, la forma sottostante, che io stesso ignoro perché per compiersi essa deve sempre più liberarsi da me, diventare autonoma dall’autore.
Ecco, questo intendo con “linguaggio”!!! Ciò che traspare sorridendo dalle macerie di un pensiero antecedente più grezzo, meno ripulito, meno purificato.
Ecco cosa mi ha insegnato il rigore del linguaggio, o come diavolo vogliamo chiamarlo.
Ma tutto questo io continuo a dirlo per un motivo, un motivo soltanto: sperando che mi ascoltino i giovani, che qualcosa, anche di esilissimo, si possa tramandare a loro, forse aiutare l’ispirazione dei giovani.
Perché ho detestato la posizione degli scrittori italiani degli anni 1970 – da Pasolini a Moravia a Eco – che dall’alto lasciavano cadere le loro perle (perché infatti spesso erano perle, non lo metto in dubbio), sempre teorizzando la morte dell’arte, ma niente di vero insegnamento hanno lasciato alle povere orfane generazioni letterarie successive. Ecco l’evidente terreno bruciato che si vede oggi, che solo il grande coraggio di un Giorgio Linguaglossa può tentare di raddrizzare.
giorgio linguaglossa
13 luglio 2016 alle 10:54
SUL «SOTTOSTANTE» DI UNA LINGUA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/07/11/dieci-poesie-della-poetessa-palestinese-americana-hala-alyan-a-cura-di-steven-grieco-rathgeb-radice-tu-cosa-microscopica-astuta-traduzioni-di-trinita-buldrini-e-steven-grieco-ra/comment-page-1/#comment-14576
Come sempre, caro Steven, hai messo il dito nella piaga, nel vero Problema dei Problemi. Questo è per me il «linguaggio», il problema dei problemi. Perché tutti gli altri problemi sono posti da esso, Esso è il primo problema, dopo, vengono tutti gli altri. Ma, come si pone questo problema noi non lo sappiamo, navighiamo tutti nell’oscurità. Non sappiamo come e dove esso si è formato e si forma, e non sappiamo dove e come va. Non sappiamo nulla. Si fa poesia basandosi sulla tradizione letteraria della propria Lingua. Anche qui tu hai messo il dito nella piaga del Problema: bisogna assolutamente abbandonare (per ritornarvi) la propria tradizione letteraria. Romperla. Spezzarla. E poi ricostruirla. Un lavoro gigantesco che richiede una enorme quantità di forza e una enorme concentrazione di forze in un punto, in un punto solo. E poi bisogna sfondare. Ed è come se, improvvisamente, sfondiamo un universo e precipitiamo in un universo parallelo.
Una lingua è come un universo. Se stai lì dentro per tutta la vita, muori di asfissia; a meno che quella Lingua non sia allo statu nascendi, Come fu fortunato Shakespeare! Con quella Lingua ancora informe poteva permettersi la più ampia libertà. Dante da questo punto di vista era certamente meno libero, operava su una lingua già organizzata e all’interno di un sistema filosofico (quello tomistico) che abbracciava tutto il «reale».
La posizione di un poeta moderno è davvero perigliosa e problematica, egli non sa nulla in proposito, o meglio, si trova davanti già belli e fatti innumerevoli Linguaggi mediatici, innumerevoli emittenti linguistiche e balbetta, balbetta in ottonari, in endecasillabi, balbetta in strofe e in verso libero, balbetta nella forma sonetto tanto cara a Salvatore Martino, balbetta in ogni altra forma che trova già bella e organizzata; balbetta perché si trova (in modo acritico) il quotidiano e il privato già belli e fatti; balbetta perché si trova il Tema dei temi: il «privato» già bello e fatto e confezionato dalle migliaia di emittenti linguistiche. E allora che cosa resta al poeta di oggi? Semplice, resta il gioco fatuo da dandy (pseudo) alla Zeichen? – Dai, siamo seri, facciamo un piccolo sforzo. Cosa resta al poeta di oggi? La poesia agrituristica di Umberto Piersanti? – Dai, siamo seri.
Tu, caro Steven, tracci delle coordinate gigantesche, ma chi ti può seguire? I giovani sono assenti rispetto a queste problematiche, non hanno il tuo retroterra culturale e la tua conoscenza di lingue. E, direi, anche la tua profondità. Speriamo bene.
Hai poi posto un altro Problema fondamentale, hai parlato del «sottostante» di una Lingua. Concetto importantissimo da non confondere con l’inconscio! Il «sottostante» che occorre assolutamente andare ad arpionare, agganciare, intrappolare per portarlo sulla pagina scritta. Ma come si può fare questo? Ecco, come può un giovane capire questa problematica? Il ready made, il contemporaneo scaraventato in mezzo alla pagina che parla d’altro; la locuzione ellittica di una voce «fuori campo»; il «fuori campo» spazio-temporale; il «tempo interno» di una composizione che collide con il «tempo esterno» del cosiddetto «reale»; il «tempo geografico»… e poi il problema dei problemi: il «Vuoto».
Immagino che a questo punto pochi mi seguiranno, ma per fare poesia occorre un bagaglio di «cose» di cui oggi vedo assoluta scarsità in Italia. Bisogna allora, con grande forza, spezzare il pensiero, fratturare il pensiero poetante, smarcarlo, dribblarlo, avere la forza e il coraggio di utilizzare il «traslato»… e l’«iperbole» e l’«ipotiposi», il «caso», il «fortuito»…
Tu, a ragione, porti la tua esperienza personale, scrivi: «Per questo io do estrema importanza alla improvvisazione, al dato aleatorio che entra contraddittoriamente fra le maglie della composizione mentre questa nasce, fino a sconvolgere lo stesso suo assetto: ma in realtà quel dato random dirompente sta soltanto rivelando la vera forma, la forma sottostante, che io stesso ignoro perché per compiersi essa deve sempre più liberarsi da me, diventare autonoma dall’autore.
Ecco, questo intendo con “linguaggio”!!! Ciò che traspare sorridendo dalle macerie di un pensiero antecedente più grezzo, meno ripulito, meno purificato.
Ecco cosa mi ha insegnato il rigore del linguaggio, o come diavolo vogliamo chiamarlo.
Ma tutto questo io continuo a dirlo per un motivo, un motivo soltanto: sperando che mi ascoltino i giovani, che qualcosa, anche di esilissimo, si possa tramandare a loro, forse aiutare l’ispirazione dei giovani».
POESIE di HALA ALYAN
Birthday Art
Not jungle, but pastel, the color
of the first bruise paled
beneath the second. Mama,
I want to be a woman of dusklit
mosques, of ginger prickly in tea,
steam netted for a lover. Sky
becomes circular, spans itself
like hair. Hair, thickets, copper
with pollen: the mouth is a
key in the shape of echo. Rouge,
coral, center the suns. He
terraces bones for invisible
gods, blackening with
shale. And then a stream,
chromophilous water. Rinsing
the form, nipples dark as
coins hidden in a silk purse.
The backcloth is spent, another
flimsy dream about a doll
factory in Beirut, sirens lighting
the empty birdcage. My dream
self tastes the Turkish coffee:
graphite. Some treetop
ornaments with paper cranes
dangling from wires until wind
rustles all that white into a
froth like steam or cresting wave.
Like something spilled.
On a bed. Where bodies dance.
Arte di compleanno
Non giungla, ma pastello, il colore
del primo livido impallidiva
sotto il secondo. Mama,
voglio essere una donna di moschee illuminate
dal crepuscolo, di zenzero che pizzica nel tè,
vapore raccolto per un amante. Il cielo
diventa un cerchio, si allunga
come capelli. Capelli, boschetto, rame
con polline: la bocca è una
chiave in forma d’eco. Rossetto,
corallo, centrano i soli. Egli
mette ossa a terrazza per invisibili
dèi, annerisce con
scisto. E poi un getto,
acqua cromofila. Sciacquando
la forma, capezzoli scuri come
monete nascoste in una borsa di seta.
Il fondale è esaurito, un altro
sogno inconsistente di una fabbrica
di bambole a Beirut, le sirene illuminano
la gabbia per uccelli vuota. Il mio sé
sognato assaggia caffè turco:
grafite. Qualche decorazione
per la punta dell’albero con gru di carta
penzolanti da fili finché il vento
non fa frusciare tutto quel bianco fino
ad essere schiuma come vapore o cresta d’onda.
Come qualcosa di versato.
Su un letto. Dove danzano i corpi.
–
You, Bonsai Girl
Blue was always
yours,
jazzing its way onto your buttons
and eyelids.
Some women dream of hurricane.
I think you are a pier,
filmed, wooden planks beneath sheets of rain.
Or some jungle canopy,
wolfing light while, below,
creatures twist in the murk. Anyways,
what remains of that hunting is inland.
Some gourd,
emptied, your September ancestors
howling on Delancey. Stale Nile water in your mouth,
dark as sunflowers. (The heart, not the petal.)
I hear you, ghost,
your voice minnowing the sag of mattress
even in America. Prophecy,
how you held your body still in his bed
like you were no woman, but object.
A tooth,
long and
yellow, pulled from a witch’s
garden and oh
sister it was real. That sky. Those streets full of men
applauding your legs.
.
Tu, ragazza bonsai
L’azzurro è sempre stato
tuo,
elettrizzava i tuoi bottoni
e le sopracciglia.
Alcune donne sognano l’uragano.
Penso tu sia un molo,
filmata, assi di legno sotto lenzuola d’acqua.
O qualche copertura di giungla,
divorando luce mentre, più giù,
esseri si torcono nelle tenebre. E comunque,
ciò che rimane di quella caccia sta all’interno.
Qualche zucca,
svuotata, i tuoi avi di settembre
urlanti su Delancey. Acqua stantia del Nilo in bocca,
scura come girasoli. (Il cuore, non il petalo.)
Ti sento, fantasma,
la tua voce piccola dove sprofonda la buca del materasso
anche in America. Profezia,
come tenevi il tuo corpo immobile nel suo letto
come tu non fossi donna, ma oggetto.
Un dente,
lungo e
giallo, estratto dal giardino
di una strega, oh
sorella, com’era vero. Quel cielo. Quelle vie piene di uomini
che applaudivano le tue gambe.
Icon
While the moon stoops in the early April sky,
I fold paper into a tragic crane. One magician
burns sand, another palms a tree. My crane
flickers her lovely neck and weeps. After the fire,
everything smelled of chartreuse, a red that
guttered in the neighbor’s dreams. A piano
turns bodies magnetic with music. I want to break
myself like egg for you, to pool in gold and lost.
Icona
Mentre la luna fa la gobba nel primo cielo d’aprile,
io piego la carta per farne una tragica gru. Un mago
brucia la sabbia, un altro crea dalla palma un albero. La mia gru
tremola il suo collo aggraziato e piange. Dopo l’incendio,
tutto aveva odore di liquore, un rosso che
si spegneva nei sogni del vicino. Un pianoforte
magnetizza i corpi con la musica. Per te voglio rompermi
come un uovo, raccogliermi in oro liquido e persa.
Narcissus
The clouds owl-eye the sky,
gaped at by moon. Yes,
I dreamt we wed. A priest
fed us rice and sugar,
the cathedral was locked.
Trees litter Brooklyn streets
with blossoms. I wake to Iraq,
to neighbors kissing.
I am a ghost ship
smothered by Neruda’s stars.
Is that what you wanted?
To hear me say I ache? I ache.
Narciso
Le nuvole fanno occhi da gufo al cielo,
osservate da una luna a bocca aperta. Sì,
ho sognato che ci sposavamo. Un prete
ci dava riso e zucchero,
la cattedrale era serrata.
Alberi spargono fiori per le vie
di Brooklyn. Mi sveglio all’Iraq,
ai vicini che si baciano.
Sono una nave fantasma
soffocata dalle stelle di Neruda.
E’ questo che volevi?
Sentirmi dire che fa male? Fa male.
Ya Bint
It was Lyra peeking through the trees
in Berlin, a smattering of needlepoint lights
above the spiked leaves. You spoke of Io, steam-
plumes grainy as past. Of the past, keep the echo,
the blankness on a crested sand dune. I never
called you beautiful, though you are, starlet
lips and curls like earth, as though Baghdad
never forgot you. In the bowels of Gaza my father
counted chicks on a road. I am always pirating
his memories. You pointed to the brightest dot,
silver upon your wrist. Before your mother died,
she would extract fish bones, one after the
other, giving you the good, clean meat. I do not
remember the name of that star or the trees or
the man who bought us gin in a dank Irish
pub. The star was clear. I still think of your lips
and those glistening bones. All that almost-malice.
Ya Bint – Ehi, ragazza
Era la Lira che sbirciava tra gli alberi
a Berlino, uno sfuocarsi di spilli di luci
sopra le foglie a punta. Hai parlato di Io, pennacchi
di vapore granulosi come passato. Del passato, conserva l’eco,
il bianco sulla cresta di una duna di sabbia. Non t’ho mai
detto che eri bella, anche se lo sei, labbra da attricetta
e riccioli come la terra, quasi Baghdad
non ti avesse mai dimenticata. Nelle viscere di Gaza mio padre
contava i pulcini su una strada. Sto sempre rapinando
i suoi ricordi. Hai indicato il punto più luminoso,
argento sopra il tuo polso. Prima di morire, tua madre
estraeva le lische dal pesce, una dopo
l’altra, per darti la buona carne pulita. Non
ricordo il nome di quella stella né gli alberi né
l’uomo che ci ha portato del gin in un oscuro pub
irlandese. La stella era limpida. Ancora penso alle tue labbra
e a quelle lische luccicanti. Tutta quella quasi-malignità.
After Thunderstorms in Oklahoma
The sky becomes sickly,
unripe mango rind dappled
with flecks of green. Air opens
and closes like trachea. This
was the sky I dreamt in Ramallah,
a false awakening in the hotel room.
I pulled at curtains against the
whistling storm. But the curtains
swarmed into wood splintering my
fingers. I spun the wood into glass
and played it like a sitar. Outside
the sky roared and a forest sprouted,
abruptly, on the tiny bed. I crept
into the spruces and lay flat
on the rug. Cicadas rustled
inside a pear. The storm became
a militia. They jangled with chimes,
coming for my teeth. I woke
and it was sun and I forgot.
Dopo le tempeste in Oklahoma
Il cielo si fa malato,
buccia di mango acerbo maculata
di chiazze di verde. L’aria si apre
e si chiude come una trachea. Questo
il cielo che ho sognato a Ramallah,
un falso risveglio nella camera d’albergo.
Ho tirato le tende contro il
fischio della tempesta. Ma le tende
sono sciamate in legno scheggiandomi
le dita. Ho filato il legno in vetro
e l’ho suonato come un sitar. Fuori
il cielo ruggiva e una foresta è germogliata,
bruscamente, sul lettino. Sono entrata carponi
fra gli abeti, mi sono appiattita
sul tappeto. Le cicale frusciavano
dentro una pera. La tempesta è diventata
una milizia. Tintinnavano con sonagli,
volevano i miei denti. Mi sono svegliata
ed era sole e ho dimenticato.
Laleh
The night of the knives
Jupiter slung low
and silver in the sky.
A second moon,
the aunts said, rolling
rice into spheres.
The fighting crackled
outside our window
with the legs of a
hurricane. The aunts cut
lemons from Tabriz
for juice. The men
returned ruined and
we scoured the blood
from their shirts and
kissed them asleep.
That was lunging—
the welting of skin and
pockmarking, the reeds
glistening in river water,
a seashell stolen from
the Gulf on the mantle,
pearly, beautiful,
reminding us of what
we could not touch.
Laleh
La notte dei coltelli
Giove appeso basso
e argento nel cielo.
Una seconda luna,
hanno detto le zie, facendo
sfere di riso.
Il combattimento crepitava
fuori dalla nostra finestra
con le gambe di un
uragano. Le zie tagliavano
limoni di Tabriz
per il succo. Gli uomini
sono tornati a pezzi
abbiamo strofinato via il sangue
dalle loro camicie e
dato il bacio per dormire.
Quello era un affondo –
il lividore della pelle e
butterarla, le canne
luccicanti nell’acqua del fiume,
una conchiglia rubata dal
Golfo sul caminetto,
perlacea, bellissima,
ricordandoci ciò che
non potevamo toccare.
.
Even Fevers Make Bodies
Jerusalem springs forth like a violence
and I
audacious sashay
her gulfing streets with twin wings on my shoulder.
Mouth,
I have skin soft enough to catch you
and the pink below the needle—
rot, rot.
Pinned beneath opium eyes I pitched
myself across
the Atlantic. Celtic music kept pace of our lungs.
Root, you microscopic, sly thing.
Even teethed by a lover my organs pulse for certain cities.
I saw a woman on a porch once. Her hair, silver as tusks,
swung
polished in the simple Vienna light.
She said comets spin on these July
evenings
because Allah loves to dance in their
lovely glow.
Anche le febbri fanno corpi
Gerusalemme balza incontro come una violenza
ed io
audace ancheggio
le sue vie sboccanti con ali gemelle sulla mia spalla.
Bocca,
ho pelle morbida a sufficienza per acchiapparti
e il rosa sotto l’ago –
marciume, marciume.
Fissata sotto occhi di oppio mi sono
catapultata di là
dall’Atlantico. Musica celtica andava al passo con i nostri polmoni.
Radice, tu, cosa microscopica, astuta.
Perfino addentati da un amante i miei organi pulsano per certe città.
Una volta ho visto una donna su una veranda. I suoi capelli, argento di zanne,
oscillavano
lucidi nella semplice luce di Vienna.
Disse le comete vorticano in queste sere
di luglio
perché Allah ama danzare nel loro
incantevole brillio.
.
Fruit
You of the moist
eyes and rough mouth.
I glitter like dew for
your gaze and write
Morocco in dust
with fingertips. Sun
finds you flung
across an orchard of
music tapping along
with bare feet in rain
and grass. I never
weep and neither
should you: The birds
know nothing of greed
or the love we
splintered together
in urban streets.
Undressing makes
confetti of the night
and I am a slowly lit
Roman candle that all
the neighborhood
children— sleepy, tipsy
with August— have
gathered to watch burn.
Frutta
Tu dagli umidi
occhi e bocca ruvida.
Io brillo come rugiada per
il tuo sguardo e scrivo
Marocco nella polvere
con le punte delle dita. Il sole
ti trova scagliato
in mezzo ad un frutteto di
musica battendo al ritmo
coi piedi nudi fra pioggia
ed erba. Non
piango mai e nemmeno
tu dovresti: gli uccelli
non conoscono l’avidità
né l’amore che
abbiamo frantumato insieme
nelle vie cittadine.
Spogliarsi trasforma
la notte in coriandoli
ed io sono la fiamma accesa pian piano
di una candela romana che tutti
i bambini
del vicinato – assonnati, brilli
d’agosto – si sono
riuniti a veder bruciare.
.
For Lent
S, I dreamt we draped fairy lights around the Coliseum,
roping the tangled wires into snakelike piers. God
whispered from a wasp nest. You ate the candy
skull. Later, it was water rising in scarlet waves,
a shark speaking your name. Firewood or lace or rifle,
I house the timid of you in my mouth, seven languages
before steeple. Our passports are soaked, and ruined.
Budapest glows and snowflakes frame the false memory:
we swam in an ocean of pollen, yellow so thick it trembled
against our bodies. You tapped the gold from my hair.
Per la Quaresima
S, ho sognato che avvolgevamo luci fatate intorno al Coliseum,
fasciando con fili aggrovigliati i moli a serpente. Dio
sussurrava da un nido di vespa. Tu hai mangiato
il cranio candito. Più tardi era acqua che saliva in onde scarlatte,
un pescecane diceva il tuo nome. Legna da ardere o merletto o fucile
accolgo la tua timidezza in bocca, sette lingue
prima di guglia. I nostri passaporti sono fradici, e rovinati.
Budapest risplende e fiocchi di neve incorniciano il falso ricordo:
nuotavamo in un oceano di polline, giallo così fitto che tremava
contro i nostri corpi. Tu hai scosso via l’oro dai miei capelli.
.
In the City of Fire
The years pass. We leave the wreckage for the birds
and live in skyscrapers now,
hang paintings of glaciers mid-thaw.
When the city meets her tombs,
we pour whiskey into tumblers and sigh. We say
this country makes you hard. Even the dead starve.
The mothers march parades through the cemetery.
Joy is for the afterlife, they say,
and drape the headstones with myrrh and lace.
The keys hang between the breasts of our daughters now.
They palm cigarettes and speak of revolution.
We tell them the prophets have been dead for ages,
the flags crumbled in the riots.
Our hands fill like volcanos at the dying cities
but we tore the atlas into psalms.
In our houses we leave every light bulb burning,
keep the music cranked up loud and fast
for the god we will never let sleep.
Nella città di fuoco
Gli anni passano. Le macerie le lasciamo agli uccelli
e ora abitiamo in grattacieli,
appendiamo quadri di ghiacciai a metà disgelo.
Quando la città incontra le sue tombe,
versiamo whisky nei bicchieri e sospiriamo. Diciamo,
questo paese ti indurisce. Perfino i morti patiscono la fame.
Le madri sfilano in processione attraverso il cimitero.
La gioia è per l’aldilà, dicono,
e coprono le lapidi con mirra e trine.
Ora le chiavi pendono tra i seni delle nostre figlie.
Nascondono le sigarette in mano e parlano di rivoluzione.
Gli diciamo che i profeti sono morti da tanto,
le bandiere sbriciolate nei tumulti.
Le nostre mani si riempiono come vulcani alle città morenti
ma abbiamo strappato l’atlante per farne salmi.
Nelle nostre case lasciamo accesa ogni lampadina,
teniamo la musica a tutto volume e veloce,
per il dio che non lasceremo mai dormire.
.
Retrieval
Rapture in tunnels, in that radiant fever
of black dahlias flinging their sex
into the heavy air, gods and their wild-eyed
saints, a sea that whips itself into a
plunging dark. From the shipwreck they pulled
pyrite, instruments that shroud their
lost music. Rapture in chalky stars slung into
the rib cages of magnolia trees, windows mottled
milky with children diving for bottles. O grief,
when the owls begin their slow, gentle croon,
may we climb onto the highest pillar and
gather ourselves for the first wind like mammals.
Recupero
Estasi nelle gallerie, in quella febbre radiosa
di dalie nere che scagliano il loro sesso
nell’aria pesante, gli dèi e i loro santi dagli occhi
folli, un mare che mulina in un buio
precipitando. Dal naufragio hanno estratto
pirite, strumenti che celano la loro
musica scordata. Estasi nelle stelle biancastre infilate
nei costati delle magnolie, finestre
chiazzate di latte con bambini che si tuffano per i biberon. O dolore,
quando dei gufi inizia il richiamo sommesso,
saliamo sulla colonna più alta
per radunarci come mammiferi al primo vento.
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. 10 sue poesie sono apparse nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016 pp. 352 € 18, a cura di Giorgio Linguaglossa. È in corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.