Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); la plaquette Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Numerose poesie e scritti vari sono ospitati su riviste, antologie, blog e siti dedicati alla poesia. Dilettandomi di pittura, ho partecipato a collettive d’arte. Alcune poesie sono state musicate dal M Giovanni Castro ed interpretate dal soprano Monia Massetti.
Appunto di Giuseppina Di Leo
Caro Giorgio,
un procedimento in divenire, così realizzo mentalmente parlando di queste mie poesie. Le poesie brevi risalgono agli anni 2009-2011, altre sono recenti. Ma tutte ruotano intorno al tema della memoria, quasi che la parola scritta possa consentire la ripresa di un dialogo interrotto.
Caproni, a proposito di Res amissa, diceva che «la poesia muove spesso da un fatto quotidiano e perfino banale», come era stato, nel suo caso, la perdita di una lettera di un «carissimo amico». Può darsi allora che la poesia sia possibile solo in presenza di un assente? Che potrebbe essere il luogo, il volto o il tempo. A volte succede che il pensiero stesso si atomizza e ci si dimentica la ragione stessa che aveva dato luogo ad una materia come la scrittura. Quando questo avviene, il fine da perseguire cambia direzione in corso d’opera, in modo che di quel fine non ne resta traccia. O meglio, il pensiero iniziale si perde lungo il tragitto in altri percorsi, i quali si moltiplicheranno ancora generando così una serie svariata di nuovi intrecci. L’idea del viaggio, altro tema a me caro, è parte del processo di trasformazione.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone –metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».
Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo»: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione» (R.B. Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis).
La poesia di Giuseppina Di Leo si pone nel solco dell’orizzonte posizionale della perdita della memoria, fenomeno del tutto nuovo e contemporaneo che noi stiamo da tempo indagando. Essa si presenta subito come una tessera scollegata dal tutto, come frammento di un tutto andato disperso e dimenticato. Leggiamo un verso incipitario:
I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,
Si dà per scontato che c’è una situazione eventica isolata e scissa, priva di causa e di nesso logico. Qualcosa che è stata perturbata da qualcosa d’altro, dalla intervenuta rimozione della memoria. E il discorso poetico diventa franto, deturpato, franoso.
Io direi che la frammentarietà della forma è un tutt’uno con la frammentarietà della memoria. Le parole in quanto figlie legittime di Mnemosyne, vengono attecchite dall’oblio della Memoria, e chi parla di Spirito del mondo o di Spirito della storia dovrebbe essere interdetto dagli uffici pubblici. Il modo nel quale oggi si dà Mnemosyne è un modo frammentato, graffiato, le parole diventano isotopi che, durante la traslazione dalla memoria alla pagina scritta, perdono qualcosa, si impoveriscono, diventano cronotopi di antiche parole. Le parole sono enti speculari alla frammentarietà ontologica del nostro modo di vivere.
La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.
Il verso si è finalmente liberato di se stesso, ed è diventato qualcos’altro che fatichiamo a riconoscere. Ecco perché è così difficile, oggi, distinguere la poesia dalla prosa. È per via della libertà, quella libertà che i poeti si sono conquistata, che hanno pagato a duro prezzo durante il Novecento e che ancora stanno pagando. Quella antica libertà oggi si è tramutata nella peggiore delle reclusioni: la reclusione del verso liberato, cosiddetto «libero», in realtà zoppo e frammentato. Fatto sta che quel verso, rectius, quel frammento di verso, quel relitto malmostoso, ci parla molto meglio di quanto potrebbe fare un verso sinuoso e rotondo, un verso compiuto, ammesso che esista e sia possibile, oggi, scrivere un verso rotondo e compiuto! Nel verso informale e franto di Giuseppina Di Leo c’è una inevitabile frammentazione, quella frammentazione che è quasi un singhiozzo metrico, una aritmia del battito metrale che, come una oloturia, si nutre della «cancellazione» della memoria e dei vuoti dell’esistenza, quasi che fosse un avvoltoio che becca le carni dei cadaveri dell’esistenza. Nel mondo frammentato e tellurico di oggi, il poeta non può adire ad altro se non al frammento, alla interruzione, alla cancellazione, alla amnesia, alla ametria, alla diplopia, alla distopia quali elementi costitutivi della «solidità» ontologica della «nuova» ontologia estetica. Ma probabilmente è errato parlare di ontologia estetica, la poesia è evento, come ci ha insegnato Carlo Diano, un accadimento assolutamente singolare che ha significato solo per me e per nessun altro. Quanto più fragile è l’ossatura di questa eventologia estetica, tanto più vigorosa e forte sarà la vita della poesia. Paradossale. Così, la fragile barchetta di carta della poesia di Giuseppina Di Leo potrà forse varcare il mare del futuro. È incredibile, ma penso che si vada più spediti verso l’ignoto del futuro con la fragile barchetta di carta di Giuseppina Di Leo che non con i piroscafi dei poeti che fanno altisonanti dichiarazioni di fede poietica. Non era Rilke che nei Quaderni di Malte Laure Brigge raccomandava di rimuovere il ricordo perché «neppure i ricordi sono esperienze»?. E allora cosa sono le esperienze? Cosa sono gli eventi della poesia? Di cosa tratta la poesia? Giuseppina di Leo non può dare nessuna risposta, perché non la sa, può soltanto individuare l’evento: i ricordi sono scomparsi per loro conto per lasciare spazio all’evento della poesia. Incredibile, no?
da Incerte (inediti)
I ragazzi sono di là. Prendo a leggere Elicura,
l’oralitor, «in ossequio all’importanza che hanno
la recitazione e l’oralità nella cultura poetica
del suo popolo».
Elicura mi sta accompagnando.
*
Lungo un altro percorso
nello stesso paesaggio scoperto
eguale importanza
hanno parola e silenzio.
Lo spazio obbligato necessario
da sondare.
Permettere alla memoria di ritornare.
*
Resto a guardare
per riflettere. E portare indosso
domande senza risposta. Anni passati
a riproduzione casuale in bianco e nero.
Se un sentire c’è dentro è un sentimento.
Senza finzioni per l’oggi.
Faccio un passo indietro. Mentre intorno
tutto gira come vento.
(2009 / 2016)
*
Bislacca, come una tenebra
partorita d’inverno, un’ombra
sfugge la mano. Ogni sole riluce
su fogli spazientiti di sonno.
Occhi di vento marciscono in bottiglia;
domande precipitano da torri tarocche.
D’inverno si annida il fiume del ricordo.
In giostra brulica in fondo la strada.
Volteggia scemando il carteggio d’amore.
(2010)
*
Quest’aria preserale di fine gennaio
è un gioco di dadi. La veste viene scommessa
tra le quattro mura domestiche del nulla.
Se mi addormento, un nome nuovo
paurosamente cercherò d’imparare.
(2010)
*
Fino a quando avvertirò lo stacco?
Manca l’illusione di vita.
(2009)
*
Ma in realtà la scelta più saggia da farsi
sarebbe quella di vivere se stessi
in solitudine. Sto riprendendomi il mio tempo,
concetto dimenticato che torna amico.
Il mio tempo. In solitudine. Essere soli
vuol dire dimenticare, tornare
al punto del proprio limite
essere in sé, tornare con sé. Oltre
sono con me dentro la parte
più appartata, sconosciuta: sono dentro-
in-me. Riesco a sentirmi persino
felice.
Che il vecchio venga spazzato via:
volti nomi articoli famosità fumose poeti.
Spazzati via come foglie, bruciati come ossessi.
Dio, come sono felice! Riesco a sentirmi
più intima di ago nella carne.
Viva.
E nessun dolore: nessun dolore, nessuno.
Niente. Nessuno.
(2009)
*
Provo il piacere della mia femminilità,
calda nel sangue la voglia pulsa.
Vino dolce da bersi a sorsi
piccoli piccoli, da gustare a morsi.
Liberato, il desiderio padrona l’ossessione.
L’anima scivola dolcemente dal dolore.
*
Nell’invadenza delle ore d’ombra
senza suono, unita al silenzio della sera,
nessuna alba finge. Interiore,
silenziosa davanti alla notte. Lieve
il passo. Il mondo ritorna
un pensiero convesso. Il senso di colpa
smerlato nel trabiccolo.
Lucida follia. Cuprea voglia.
(2011)
La nudità dell’aria apre spiragli
blu cobalto in sfondo nero fumo.
Un senso di tristezza stempera
insieme a ciò che l’ha portato ad essere
interminabili attese diventate tristi.
Anch’esse. Fiore da preservarsi
nel suo seme.
(2011)
*
La luce del sole liquida pagine nel bianco.
Prendere le restie forze è ciò che bisogna fare.
Dalle mani ai piedi. Sollevarle.
(2011)
*
Certe volte il tempo sfora su se stesso
quasi avesse altro da confidare:
il momento di un altro, un momento
differente dal medesimo. Il tempo
estraneo a quello unico.
A quello stesso mio.
*
[I caratteri in stampatello]
I caratteri in stampatello hanno tutti in comune
un bisogno d’ordine: i cassetti curati,
la giornata scandita dalle lancette dell’orologio
(di cui non possono fare senza), un rimedio
al disordine interiore. Rifiutano
di piegarsi al coinvolgimento emotivo dei corsivi
al punto di pensare di poter essere fagocitati
come da un nulla eterno e perdere così il controllo
delle proprie aste (caste, o castre?) emozioni.
Un’esistenza quadrata più che circolare.
Alcuni
si esprimono in pompa magna in cima ai luoghi d’onore.
Altri
verseggiano accompagnando il cavallo dei condottieri.
Altri ancora,
in basso – giammai da plebei! –
decretano gli avvisi civili e militari dettati dai potenti
in bella vista e, stampati con ogni regola,
su mura di città e su altri monumenti.
I caratteri in stampatello hanno in comune
l’incapacità di amare e con sdegno rifiutano
il semplice legamento alla lettera che precede
o a quella che, vicina, pretenderebbero di accompagnare.
Difatti, li ritroviamo stanchi, su candide lapidi infine adagiati.
Inutile fare esempi, non varrebbe la pena riesumarli,
se non per un saluto sbrigativo; o, al più, per un corsivo
Amen.
(2011 – 2016)
L’idea
A me piace molto
trovare posto per altri libri.
Ne vado alla ricerca
incessantemente: sposto di qua
faccio un po’ d’ordine di là
intanto che sfilo tra pile
muschio, campanule e qualche
tordo addormentato. Li sistemo
anch’essi su di un’altura
dove il fagiano becchetta
qualche foglia di scarola.
Volendo immaginare
il senso di questo cercare mio
lo vedrei alla maniera del restare
di certi anacoreti.
E intanto accosto
l’intransigenza della parola
stessa
al parallelo tra
volere
potere.
Sì, viaggiare significa forse restare.
Un restare pigiati insieme
a tanti altri di cui non importa:
se sapremo, mai ne ricorderemo i nomi.
E giù, più in basso andando,
ne verrebbe un altro controsenso
il dadaismo della contrizione
nella descrizione del dolore.
E mancare persino di speranza.
Restare, esser fogli da tenere in grembo.
Una voce, due voci, un quartetto
esser fogli, senz’altro chiedere.
Temere la mano che – ohi! – ruppe il mio naso
in cambio di un occaso (oibò!)
o la parlantina veloce di chi non ha tempo.
Con la leggerezza dei sassi.
Restare. Fogli, appesi ad un ramo.
E andare lontano
dove restare fogli
per sempre. Vorrei. – Alé!
(2015)
*
Quello della memoria è un sogno dimenticato.
Sulle ali dorme
finché, sveglio, velocemente vola.
Il prima, un attimo dopo, non c’è mai stato.
Nulla ricorda. Fino al punto in cui
dove avesse sostato non gli importa.
Sveglio. La ragione ne tenta i passaggi
nei quali a lei sola sembra possibile tornare.
Questioni di attimi.
Un vortice appena.
Ancora.
(2016)
L’indivisibilità del silenzio.
Il silenzio è un monolite
situato in un paesaggio
in cui si è persa la parola.
Anche i silenzi richiedono ascolto.
(2014)
*
La frammentarietà della forma
per dire la non-possibilità di «leggere
il reale, di parlare al reale». Vige
la «forma informe» del verso libero
per poter parlare
a una realtà che non può più essere
rappresentata, ma solo citata.
La poesia non rappresenta più nulla.
Della realtà coglie i frammenti. La poesia.
Del nulla dice tutto quello che sa.
05/06 nov. 2015 – Leggendo la nota di Giorgio Linguaglossa sul post della poetessa irachena Dunya Mikhail (in pari data)
Si risolvono male le questioni di cuore
quando sopraggiunge la notte.
Un giorno diverso, così vedremo il mondo,
abbacinati, senza poter guardare. Il mondo
si farà una percezione dei sensi
o più semplicemente non esisterà più.
Sarà un po’ come dormire o correre
impauriti. Se dormiremo
ci prenderà il sonno profondo del tempo.
E sarà un tempo senza ritorno
per noi che appena fanciulli,
specchiati sul filo d’acqua lucente,
sentiremo il cielo tra le ciglia.
Vaga senza una meta il pensiero
in questo giorno triste. Eppure
io non credo alla morte del sole,
né penso la luna possa lasciarlo
scomparire mai, né io vorrei finire
il filo corsivo del dubbio.
La notte più nera
è nella paura di perdersi, per questo
penso non vero nel suo assoluto,
il nero della notte.
Di una notte è la linea ondeggiante.
Il filo corsivo del silenzioso sapere.
*
Andavo da mia madre dopo il lavoro
Andavo da mia madre dopo il lavoro,
le spalmavo una crema omeopatica contro il tempo,
manuale di serenità del pomeriggio scalda sedia.
Sul tardi, tornava di soppiatto un ritmo scolpato
in serra protetta di terra d’odio; tre simbolici ‘sì’
erano tre simboli doppi ciascuno di sé:
lo specchio da infrangere dopo la caduta,
guadato in un sorriso a strazio.
Un fastidio sentivo allora, la presenza di bocche voraci
di rimando pizzicavano la mia carne, come
sorgenti moti in simbiosi. Il suo sguardo sereno
diventava improvvisamente severo, più spesso
triste e malinconico, quasi che nell’aria
si condensassero parole di chissà quali
individui: nella loro inutile presenza pur
mortificavano la sua persona per ricordarle
i tristi eventi che avevano segnato la sua giovinezza.
(A violenza subita, non ritorna il sereno.) Ma poi
passava, e tutto si traduceva in una battuta o in un fare.
Ciò che vedevo era il risultato di una serie infinita
di apporti, la trama di una fitta ragnatela
di rapporti che erano causa ed effetto di uno stato.
Era tuttavia un guardare e non capire il cosa o
il perché di ciò che nei suoi occhi vedevo.
L’analfabetismo di mia madre, il suo non poter
essere altro della brava massaia per sempre, questo sì
era ciò che vedevo e il tarlo che la tormentava
era chiaro in quel suo quotidiano ripetere:
– Ah, se sapessi leggere, scriverei un romanzo!