POESIE INEDITE di Lucia Gaddo "Asincrono scacchiere" SUL TEMA DELL'UTOPIA O DEL NON-LUOGO
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ- che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media.
Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno.
Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti,La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014. Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello.
Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e nel 2005 da La partitura, prima sezione, per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso.
Fluttuanze
Oggi è un giorno da salto con l’asta.
Se chi visse qui, che so, un secolo fa
tornasse d’incanto
dai fatti suoi
sotto il suo tetto, ora mio
che direbbe.
Quale incredulo lampo negli occhi
gli sortirebbe nel vedere ciò che ho fatto di questa sua terra.
E venisse qui a sbirciare dal futuro chi verrà
riconoscerebbe in me se stesso?
Dicono qui vivesse un bandito,
poi un maggiorente distinto del luogo,
ora son io a calcare la rivoltata zolla,
il controverso strato d’ombre
che aggiungono ombra.
Io tengo ai fiori
ai miei e a quelli di mia madre,
bulbi che si moltiplicano al buio della siepe.
La polvere dei muri si accatasta negli uffici della burocrazia.
Ma solo il trasloco delle rondini mi pesa,
e l’aver dato asilo a tanti non ripaga amori mai dimenticati.
Pienezza di solitudine distante abita qui
non perversi misogeni migrati prima
del cielo di oggi, prima di questo mio giro a vite
di questo salto con l’asta.
Se tutto ciò che non udimmo udissimo dall’eco degli spettri
quale sarebbe il nostro restare in multi parsimoniosa vita
entrare ospiti nelle stanze di questo mondo.
Lanci
Sciogliesse qui la vita
nel pomeriggio in disparte
presso il marciapiede dell’ombra
prima della pioggia
nell’uno dei due giorni possibili
quando nutre il tempo chi comprende,
allora sarebbe risolto il dubbio
e mi potrei non risvegliare.
Tramonterebbe il giorno per altre pupille
e sorgerebbe l’alba di nuovo
col suo profumo avverso di malinconia
per altra via
senz’orma andrebbero i passi
guardandosi intorno
la porta chiusa alle spalle
senza luce e ritorno
tanto che, a voltarsi,
si sarebbe perduto perfino l’orizzonte.
Ma sempre parla una voce
come vento che sostiene
fermo
come una madre
che della sua nutre la vita
prima dell’inizio e anche dopo la fine.
(19.5.14)
Semina
Ogni parola ha un’anima
se nominata esiste
sparsa in chi legge
con diverso suono su diverso gambo
come bimbo in grembo
significando esulta
e frange orli
dormienti facendoli attenti
a punti focali inconsumati.
Per ogni intelletto un’eco diversa
diatomee primigenie in anfratti nuovi
modulano voci spaiate,
come anche i cieli
tersi o gonfi di nubi
rimandano frasi discordi
o accordi che invocano sperando.
Vive parole in ombra o luce
tessere musive o sassi levigati
a tessere vaghezza
d’essere e restare.
Il mondo
è un dire che germoglia.
(17.8.14)
Il silenzio dell’anima
Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta
– mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva –
un sole pallido che aspetta
nel fermo della brezza
chiede un po’ di attesa
un velo di pazienza
ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.
Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.
(7.9.14)
Equivoci
Si reputa
e non è
si vede venire avanti la vita così
come non la si aspetta
ed è gioco di prismi e rifrazioni
pulsate dagli abbagli.
Si fosse saputo che era quella
l’ultima volta
ci si sarebbe affrettati
nonostante la pigrizia folle del dopo
che ora si para davanti ai rimpianti.
Restare indietro
è non avere risposto alla chiamata
rammarico è trovare che si è smarrita
una parte di sé.
7. 11. 14
Sottovoce
Pagine d’esistenza impilano
negli scaffali
di chi reputa di essere in vita.
A quanti fini e a quale fine tende
la fine del giorno e di questo giorno
che non sa le parole.
Certo i suoni intorno e i cicalecci
sui fili del dire e del ridire
trasportano nuove
a volte
a volte inceppano in replay
fino ad esaurire l’energia
e il cuore rimane al palo del déjà vu.
I rari assoli dei rigogoli in festa
si perdono nel frastuono
del grigio che parla a vuoto,
solo rumore, che segnala scomposto
presenze forse innocenti.
Le gipsoteche dei cimiteri
e i sepolcri involontari
risuonano nelle veglie sorde dei vivi
che non distinguono tra i riverberi
le verità libere dei morti.
(10.11.14)
Adesso
A guardia dell’abisso
sta l’indifferenza
che non vede.
A Nietzsche importava
e si smarriva a tratti nella collera
per l’irresponsabilità dell’arroganza
di chi crede di sapere.
È la febbre a matrioska di domande che divora.
Fu la stessa nequizia veleno a Simone.
Toglie il respiro l’innocenza di vittime
all’altare.
Cecità di cuore corrotto
non ascolta che per salvare la sua falsità.
Nell’irripetibilità del gesto
sta la storia
e progresso è ciò che è ben fatto adesso.
Per la luce che c’era
non dispera la sera.
(11.11.14)
Sveglia la notte
Sguardo di chi sale a bordo
quasi in paralisi da stupore
sul palmo sinistro il profumo del cielo.
Sferraglia ancora la corsa
senza obiettare ritorni
fortuna che c’è la luna
da cui guardare giù
si vedono i rami alle strade
che districano l’albero della vita.
È che la morte si annida in ognuno
la corteccia spacca di getti nuovi
tutte le stagioni
e in ogni specie dilaga inconsolabile
nulla che dica ragione d’esser qui
meraviglia che ascolta.
Imparo da quel che ero ciò che non so
la tenerezza dell’agguato di un ricordo
sveglia la notte.
(10.12.14)
Hic et nunc
si sta sulle spine.
Nel passato riposa
l’irriducibile
al futuro sono appesi il sogno e la speranza.
Non ce n’è speranza dice il suicida
non ho colpe, l’assassino
e ciò che ha fatto gli pare divino.
Esce dal quadro la cornice
si posta all’infinito
occhio che si perde alle galassie
immaginate.
Il nome che ci porta
fra i galleggi travolge
inaffondabili carene
entro le onde del tempo
che scroscia
come l’Iguazú alla fine del mondo.
Nel profondo del fuoco
il gelo
siderale
del disamore.
Dilatano le pupille per vedere
nell’imbrunire dell’ora
qualche luce, se sarà.
(12.12.14)
Resa
Ripiega la colonna al sonno della stanchezza
e germogliano dal riposo i peduncoli delle meraviglie.
Fanno capolino dal silenzio come i pensieri
si generano come fiamma che illumina e non brucia.
Dall’ulivo delle responsabilità
al frantoio d’ogni frutto maturo
giungono sul carro dell’ordinatore
creature nate per le fauci della distruzione
passano
e sanno di essere Giona nel ventre del mostro.
Presta la fede e non ridà il capitolo mai.
Capitola, invece, prima o poi
scende dal piede dell’esposizione
disperde come le voci e i sorrisi
di chi ha veduto il diorama di guerra qui.
Dall’arco dei giorni le frecce dell’invisibile
scagliano orme.
13.12.14
Senza peso
A capriole i giorni rotolano
fra luce e buio
nel pianeta dei folli
che non sanno d’esserlo
ordine c’è solo nel corto fiato
sincrono di chi gioca al ribasso
mete che restano nell’hic et nunc
ma l’arte travalica i giorni in atterraggi
scomposti a rischio di rompersi il collo.
Il fuoco innesca dall’anima
che non si adatta a nido alcuno
deborda costante nell’insoddisfazione
di essere dov’è, fuori da ogni contesto
in contrasto perenne d’armonia. Inadatto
sistema che ha scordato tutti i perché
oltremondo, persa valigia e connotati
resta vitreo punto di osservazione
algido sguardo perso
nel non capire più la ragione di tanta
ricercata solitudine, come se il tempo non avesse
peso, i minuti non fossero piombo sul ramo dell’attesa
fra un vuoto e l’altro
il vuoto non pesa.
21.12.14