Giorgio Linguaglossa
LA QUESTIONE DELL’«AUTENTICITÀ» nella poesia di Alfredo de Palchi: Estetica dell’equilibrio (Inedito)
Mi è stato chiesto da più parti che cosa intenda per «poesie sull’autenticità». Posta l’«autenticità», l’«inautentico» non è la negazione della «autenticità» ma entra in essa come sua determinazione indefettibile. Ne deriva che «autentico» e «inautentico» non sono l’uno la negazione dell’altro ma costituiscono il loro complemento perfetto. Penso che della «autenticità» non si possa dare una definizione, è un concetto che sfugge da tutte le parti, il meno rischiarato dal pensiero filosofico. Cionondimeno, il problema dell’autenticità esiste, è concreto, tangibile, lo avvertiamo in ogni momento della nostra giornata, esso esiste ed insiste, anche e soprattutto nella nostra vita quotidiana, e la poesia non può sottrarsi a questo confronto, ne va della sua essenza, della sua credibilità. Si può fare poesia sull’autenticità anche parlando di uno sgabello rotto o di un orologio fermo o delle proprie mani o del saluto di bambini in un furgone in corsa come ha fatto Kikuo Takano. Anzi, forse, è il solo modo per affrontare questo terribile argomento: parlare d’altro, prenderlo alla larga, girargli intorno. Oppure, come ha fatto Alfredo de Palchi, scrivere sulla fine del mondo, come in questo poemetto di cui presentiamo la sezione «Genesi della mia morte».
Alfredo de Palchi è nato a Verona nel lontano 1926 e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italoamericano, a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il poeta più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua grande solitudine stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento. Il suo primo libro Sessioni con l’analista esce in Italia nel 1967 con Mondadori grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni, poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è un destino tutto singolare ma non difficile da decifrare e comprendere. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio La buia danza di scorpione (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri della cella durante la detenzione politica del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica dalla poesia italiana del suo tempo; estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica; negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza italiana, per di più de Palchi era visto con estremo sospetto per via della sua scelta politica in favore del regime fascista.
La poesia di de Palchi era chiaramente delineata fin dall’inizio: una individualità esasperata, un tragitto destinale che diventa tragitto della parola poetica. Il maledettismo di de Palchi non era nulla di letterario, non era costruito sui libri ma era stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento per la sua opera. Da una parte dunque la poesia depalchiana era colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non era comprensibile in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini politici e di schieramento politico. Con l’avvento del neorealismo officinesco e della coeva neoavanguardia la poesia di de Palchi venne messa in sordina come minore e “laterale” e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della sua poesia era stato già deciso e segnato. Finito in fuorigioco, chiuso dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravviverà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava (e risulta) incomprensibile alle istituzioni poetiche nazionali, era una poesia sostanzialmente troppo dissimile da quella letterariamente edulcorata e spregiudicata della Tradizione tardo novecentesca, innanzitutto quella particolare «identità», quella convergenza parallela tra vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di apparentamento della sua poesia con la poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie europee che la rendevano “oggettivamente” indigesta e illeggibile da parte del gusto medio corrente della civiltà letteraria nazionale. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia migliore di quella del Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci, o delle filastrocche di Paolo Volponi che allora andavano di moda, voglio dire che la sua poesia era sostanzialmente estranea e refrattaria anche al decorativo gusto manieristico degli epigoni di Sandro Penna e dei neomanieristi orfici. Il risultato fu una oggettiva e naturale “chiusura” del gusto corrente alla poesia depalchiana.
Oggi i tempi sono maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo» (per citare una dizione di Brodskij), da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Settanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano ma, per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” di Pasolini perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo sperimentale. Questo almeno nelle intenzioni di Pasolini. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile», e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo, con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dagli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione estetica e storica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.
Secondo Adorno «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1 Il «frammento» e la «traccia», abitano di preferenza la paratassi, essi regnano sovrani nella poesia Alfredo de Palchi. I frammenti aforistici di questi inediti diEstetica dell’equilibrio indicano che si è [un tempo] verificato un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce, in questi graffi, in queste frecce. Il linguaggio è ridotto a lacerti pseudo aforistici, a strappi, a frammenti conflittuali che non chiedono alcuna pacificazione ma semmai di essere trasferiti sulla pagina così come affiorano alla coscienza del poeta. Al fondo del principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è quest’ultima opera inedita di de Palchi, possiamo intravvedere, tramite una lente psicanalitica come una lente di ingrandimento, una sorta di traduzione da un testo originario [la Cosa] che è stato rimosso, da una «Cosa» che è scomparsa.
La scrittura poetica di de Palchi ha questa caratteristica, di voler tentare a tutti i costi di impossessarsi dalla Cosa, entrarci dentro, fare i conti con la Cosa che giace al fondo oscuro del linguaggio dell’inconscio, di fare una poesia «fuori dal significato» e «fuori dal significante». E noi ci chiediamo: Das Ding (la Cosa). Che cos’è la «Cosa»?
Per Lacan la «Cosa» non è «qualcosa»,2 una cosa in sé ineffabile o un noumeno, ma è un risultato dell’azione del linguaggio sul reale. Il linguaggio, agendo sul reale, lo traduce, lo negativizza, ma così facendo produce per differenza anche un «resto» della propria azione: la «Cosa», resto reale che non si lascia più assorbire nel significante.
Tra il linguaggio e la «Cosa» si dà dunque quel legame strutturale di implicazione reciproca che Lacan indica nell’altra proposizione fondamentale: «c’è identità tra il modellamento del significante e l’introduzione nella realtà di un’apertura beante, di un buco»,3 perché sono le due facce di un medesimo evento, che accadono insieme l’una per differenza dall’altra. È anche in rapporto al linguaggio che si può parlare di un’estimità della «Cosa»: la «Cosa» è un’esteriorità radicale al linguaggio perché come tale è indicibile e irrapresentabile, è «fuori significato», ma insieme è intima al linguaggio perché è un risultato del linguaggio e, una volta accaduto, il vuoto della «Cosa» si installa nella catena significante impedendone la totalizzazione.
Per Lacan la «Cosa» è radicalmente «fuori significato» e quindi fondamentalmente «velata», estranea e irriducibile a ogni significato con cui possiamo tentare di esprimerla; l’installarsi di questo piano al di là del significato intacca il soggetto stesso nella sua esperienza; la «Cosa» è «già per sempre perduta»: una volta entrati nel linguaggio, l’oggetto del primo mitico godimento è «già sempre perduto»; l’esperienza inizia con la perdita e la cancellazione dell’origine e, se l’oggetto del godimento è per sua natura un oggetto ritrovato, «che sia stato perduto è la conseguenza – ma a posteriori – esso viene ritrovato, senza che vi sia per noi altro modo di sapere che è stato perduto se non attraverso questi ritrovamenti».
In quanto fuori significato e già sempre perduta, la «Cosa» non è mai rappresentata in se stessa ma sempre in modo sostitutivo da «Altra cosa»6: proprio per questo essa «sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualcos’altro – o, più esattamente, per il fatto di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro».5
Come abbiamo visto, la «Cosa» nella poesia di de Palchi è la traccia del negativo, la traccia di un «vuoto», di una zona oscura di tutto ciò che è stato fissato libidicamente ed emotivamente nel periodo della carcerazione preventiva sofferta, è una costellazione di significanti che sfuggono a qualsiasi tentativo di metterli in ordine logico-causale, a qualsiasi razionalizzazione o ricostruzione secondaria degli eventi. In una certa misura, la teorizzazione di Lacan ci può aiutare a capire l’origine della scrittura depalchiana e la sua peculiarissima caratterizzazione espressiva, la sua instabilità semantica e la sua rigidità iconologica.
Come sappiamo, Heidegger viene utilizzato da Lacan in una direzione profondamente diversa. In Heidegger questa analisi si inserisce nel quadro di una descrizione fenomenologico-ontologica che cerca di pensare l’accadere del mondo nel rapporto con la singola cosa e nell’incrocio tra mortali e divini, terra e cielo, quindi pur sempre nel quadro di un pensiero che cerca il senso dell’abitare «poetico» dell’uomo nel mondo come una certa costellazione di significati. Lacan utilizza invece il tema del vuoto per installare nel cuore dell’esperienza un rapporto irriducibile alla pulsione e al godimento, una relazione con qualcosa che è radicalmente «fuori significato» e, potremmo dire, «fuori significante».
Questo «vuoto» della «Cosa», già nel Seminario VII e poi in seguito con l’elaborazione del concetto di «oggetto a», diventa un vuoto causativo del desiderio: che la «Cosa» sia «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung».6 Significa che essa non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma l’oggetto causa del desiderio, il vuoto che alle spalle del soggetto ne causa il desiderio mettendolo in movimento. L’esperienza del soggetto gravita attorno a questo vuoto inafferrabile che lo muove. Tra il soggetto e il godimento della «Cosa» si installa «il cerchio incantato».7 del linguaggio: la tensione verso il godimento assumerà così la forma della trasgressione di una barriera e quello del Seminario VII, come osserva Miller, è il paradigma del godimento impossibile.9 Il vuoto mette in movimento il desiderio del soggetto verso la «Cosa» come oggetto del godimento pieno e assoluto, il cui raggiungimento tuttavia comporterebbe la distruzione dell’esperienza del soggetto, perché questa si sostiene precisamente sulla distanza tra i due poli: «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola»10.
È la concezione stessa del soggetto che si modifica significativamente rispetto alla tradizione psicoanalitica e all’esserci heideggeriano: l’accadere di questo «fuori significato» che è la «Cosa» intacca il soggetto e si incide nella sua carne, perché condiziona tutta la sua esperienza. Il soggetto paga il proprio ingresso nell’ordine simbolico con la perdita del godimento pieno e con la propria istituzione come soggetto radicalmente eccentrico in quanto desiderante. L’«al di là del significato» agisce dunque nell’istituirsi del soggetto come tale. Il soggetto si istituisce scindendosi tra l’ambito significante-linguistico e quel resto «fuori significato» che è la «Cosa» e tutta la sua esperienza consiste nell’oscillazione di questo rapporto, che è quel che ne scandisce il ritmo e ne scrive il dramma. In un certo senso, il soggetto stesso è la «Cosa», non è più il Ci dell’essere, ma ex-iste la «Cosa» e il suo «vuoto».
Questo legame costitutivo tra «soggetto» e «Cosa» porta con sé anche l’importanza dei temi del «supplemento» e del «resto» per ripensare lo statuto del soggetto. Se il soggetto accade in quel movimento differenziale tra linguaggio e reale, se la «Cosa» è già sempre perduta e rappresentata da altra cosa, l’esperienza si istituisce a partire dalla cancellazione dell’origine e consiste nella serie dei ritrovamenti di oggetti sostitutivi che suppliscono a un’origine che non ha mai avuto luogo come tale. L’esperienza del soggetto si svolge dunque in quella che Derrida descrive come «la strana struttura del supplemento: una possibilità produce a ritardo ciò cui è detta aggiungersi» 11.
C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.
La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1. . . come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»
de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi.
1 T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 514
2 Roberto Terzi, Il soggetto e l’al di là del significato: tra Heidegger e LacanNóema, 4-1 (2013)
- 140.
3 Ivi, p. 144.
4 Ivi, p. 141. Cfr. anche pp. 67-68.
5 Ivi, p. 141.
6 Ivi, p. 154.
7 Ivi, p. 67.
8 Ivi, p. 160.
9 Cfr. J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, in Id., I paradigmi del godimento,
10 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 81.
11 Id., La direzione della cura, cit., p. 625. Lacan richiama la «libbra di carne» anche al termine de Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, cit., p. 373.
Alfredo de Palchi
da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO
Genesi della mia morte
1-16 novembre 2015
1
È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .
pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .
2
antropoide nemico dell’antropoide determino che sei il prototipo della femmina sensitiva e intuitiva più del figuro maschile Tod a nord. . . massiccio barbaro più temibile di te femmina alle centurie di Germanicus. . . la danza del Tod risplende massiccia nelle vampe che leccano via ingiustizia e ceneri dai forni. . . di tutti incolpevole arrivi all’istante deleterio dentro cui a ciascuna esistenza abbassi le palpebre. . .
3
il due novembre giorno delle ombre in piedi accanto al loro tumulo ostili al Giardino dell’Eden che hanno distrutto lasciando il mito senza ricordo. . . giorno che si tramuta in stranezza irreale quando moltitudini di defunti viventi spasseggiano vivaci nel cimitero. . . leggono lapidi d’ignoti e depositano crisantemi alla lapide d’un familiare. . . un precario sussurrare ssssss invade le tombe. . . da farabutto ogni scomparso diventa probo ma farabutto rimane per l’antropoide vivente che non smette di essere farabutto e assassino di animali docili del mitologico Giardino dell’Eden. . . il giorno dei fiori marciti non inganna il tuo giungere alla equa falcidia. . .
4
alla mia concezione concepisco la tua presenza e in quell’istante di turpiloquio genitoriale un’intesa superna inizia tra noi. . . per mesi in delirio da un male che mi infesta nelle giovani braccia della madre che non mi può allattare. . . a tre anni mi riporti alla vita sul triciclo in fondo alla scala dove mi spinge l’infantile invidia del compagno di giochi. . . mi riporti alla vita una seconda volta quando lo stesso piccolo antropoide mi spinge a stringere nella mano un filo elettrico. . . il corpo scuote fino all’arrivo del nonno che mi sente urlare. . . sei la protettrice e salvatrice dalla mia incoscienza alla coscienza. . . l’aspro tuo sentore d’incenso mi sottrae dagli odori dei defunti vivi che ti odiano senza capire quello che io capisco di te con riconoscenza. . . defunti vivi e perenni ti odiano perché mi felicito della tua beneficenza. . .
5
cosciente mi avvicino mentalmente a te Signora dell’altrove e ti fai riconoscere a soffi d’aria che mi rasentano delicatamente in segno di protezione. . . mi proteggi dalla SS nazista a Peschiera in novembre 1943 quando misura la mia testa di sedicenne divertito senza sospettare un significato culturalmente criminale . . . la differenza di un millimetro può farmi distinguere ebreo. . . ebreo dalla sedicente scienza del frenologo austriaco Franz Joseph Gall.
6
autunno 1944 a Villabartolomea soldati tedeschi e brigatisti neri ritornano dal rastrellamento di sbandati nel fondo delle valli basso Veronese. . . la mia bionda compagna Ginetta mi avverte di non andare al traghetto sull’Adige. . . tramite la compagna tu mi fai evitare una raffica di pallottole proveniente dal traghetto e finita a bucare due brigatisti all’attracco. . . alla compagna ventenne mai chiedo di chiarire il mio sospetto. . . ci vogliamo bene e tu che mi proteggi sai se il bene talvolta è più forte del male. . .
7
27 aprile 1945. . . quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti. . . io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti. . . in fretta giungono dei soldati americani che impongono fine alla scena schiaffeggiando i quattro musi infazzolettati di rosso bifolco al collo. . . nelle carceri mandamentali mi schiazzano la schiena a cinghiate di cuoio. . . steso sul pavimento di legno mi scarponano mi bruciano le ascelle con fogli de L’Arena. . . e mi forzano a ingoiare una scodella di acqua sapone e peli di barba. . . tu salvatrice che senti i miei urli di aiuto mi liberi dal loro male uno alla volta entro due mesi. . . chi in motocicletta si schiaccia sotto un camion. . . due che annegano nell’Adige. . . e Nerone Cella nome e cognome anagrafico condannato per rapina a mano armata e violenza carnale. . . e sei anni più tardi liberi me dal mio autunnale maleficio nella Senna. . .
8
l’antropoide che non intuisce grazia e bellezza della tua carità generosa per tua concessione entra nell’oltre senza o con dolori atroci. . . per mali non generati dalla tua irreale verità che lenisce o fornisce altri mali pure generati dal divino volere che l’antropoide crede impresario del tutto. . . io che intuisco le tue manifestazioni di grazia o punitive seguo scientemente l’interminabile scia di strascinanti nel tempio di sacerdoti che in coro eterno vociano a porta inferi. . . un continuo aspro fumo d’incenso svolazza attorno il catafalco universale sopra cui splende la spietata tua presenza del lutto. . .
9
con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .
10
alla mia indifferenza occorre che ogni male canceroso e virale termini dolorosamente la razza antropoide. . . non basta la guerra si getti le carogne dentro fosse e corroderle con la calcina e nei musei cimiteriali. . . non basta il terrorismo si
consideri giustizia o crimine. . . non basta il tuo imparziale giudizio o nuovo evento. . . non basta qualsiasi religione sia cancro incurabile. . . non basta il globo terracque sia stracarico di antropoide massa. . . che la tua equa indifferenza la sforzi all’asfissia. . .
11
Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . . superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .
12
con totale volere disprezzo l’errore di natura la mia razza brutale inferiore schifosa sudiciume da cui provengo e a cui schianto l’anatema. . . che il torturatore in nome della scienza vivisezioni i propri figli. . . che l’operaio del massacro quotidiano nel mattatoio abbia stessa sorte. . . che il cacciatore cada nella trappola sia colpito dalla freccia e dal proiettile. . . che il cucciolo antropoide cresca odiando il padre che lo istruisce a diventare mostro seviziatore e assassino di animali puri abbia la medesima gioia di urlare in pena. . . che ciascun antropoide sia usato abusato seviziato torturato e sbudellato. . . che la mia infima razza si abolisca dalla grande fauna sul pianeta in caduta libera. . . che l’eliminazione della mia razza sia la realizzazione del mitico Giardino dell’Eden. . .
13
con il loro sudiciume miliardi di futili antropoidi sovrappesano sul pianeta che sbalza nel vuoto infinito. . . società e culture di insaziabili divorano tutto di tutto. . . dalla radice ai vegetali alle granaglie dal verme allo scarafaggio dalla talpa allo scoiattolo dal nido di topo al nido di rondine dall‘animale domestico a quello ormai estinto. . . periodi estremi di carestia segnalano generosità della terra che si alleggerisce della quantità enorme di sterco da degradarsi con la mucillaggine cadaverica.
14
non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace. . .
15
Madre natura, non è madre, è casualità potente dal microbo alla radice d‘ogno tipo di vegetazione e di animale. . . incluso
l‘animale che presume di essersi dissocato dalla fauna. . . si è autorizzato a ingrandirsi chiamandosi epocalmente una varietà di homo, ipocritizzando la sua vita microbiologica apice della natura. . . natura è indifferente, micidiale, è di una bellezza inquietante, ed è il male assoluto. . . homo, apice del male, è natura distruttiva e commette pulizie terrestri quante ne combina natura. . . si allegirisce di Homo, diventa morte che non ha immagine. .
16
periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . . e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.
8
l’antropoide che non intuisce grazia e bellezza della tua carità generosa per tua concessione entra nell’oltre senza o con dolori atroci. . . per mali non generati dalla tua irreale verità che lenisce o fornisce altri mali pure generati dal divino volere che l’antropoide crede impresario del tutto. . . io che intuisco le tue manifestazioni di grazia o punitive seguo scientemente l’interminabile scia di strascinanti nel tempio di sacerdoti che in coro eterno vociano a porta inferi. . . un continuo aspro fumo d’incenso svolazza attorno il catafalco universale sopra cui splende la spietata tua presenza del lutto. . .
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con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .
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alla mia indifferenza occorre che ogni male canceroso e virale termini dolorosamente la razza antropoide. . . non basta la guerra si getti le carogne dentro fosse e corroderle con la calcina e nei musei cimiteriali. . . non basta il terrorismo si
consideri giustizia o crimine. . . non basta il tuo imparziale giudizio o nuovo evento. . . non basta qualsiasi religione sia cancro incurabile. . . non basta il globo terracque sia stracarico di antropoide massa. . . che la tua equa indifferenza la sforzi all’asfissia. . .
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Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . . superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .
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con totale volere disprezzo l’errore di natura la mia razza brutale inferiore schifosa sudiciume da cui provengo e a cui schianto l’anatema. . . che il torturatore in nome della scienza vivisezioni i propri figli. . . che l’operaio del massacro quotidiano nel mattatoio abbia stessa sorte. . . che il cacciatore cada nella trappola sia colpito dalla freccia e dal proiettile. . . che il cucciolo antropoide cresca odiando il padre che lo istruisce a diventare mostro seviziatore e assassino di animali puri abbia la medesima gioia di urlare in pena. . . che ciascun antropoide sia usato abusato seviziato torturato e sbudellato. . . che la mia infima razza si abolisca dalla grande fauna sul pianeta in caduta libera. . . che l’eliminazione della mia razza sia la realizzazione del mitico Giardino dell’Eden. . .
13
con il loro sudiciume miliardi di futili antropoidi sovrappesano sul pianeta che sbalza nel vuoto infinito. . . società e culture di insaziabili divorano tutto di tutto. . . dalla radice ai vegetali alle granaglie dal verme allo scarafaggio dalla talpa allo scoiattolo dal nido di topo al nido di rondine dall‘animale domestico a quello ormai estinto. . . periodi estremi di carestia segnalano generosità della terra che si alleggerisce della quantità enorme di sterco da degradarsi con la mucillaggine cadaverica. . .
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non ho un pensiero di te morte. . . sei tu che mi pensi con realistica nostalgia di nutrice in diamanti foschi che mi leggi un breviario lunghissimo di note lessicalmente stonate secondo il solfeggio di ombre e di luci. . . tu mi pensi con amore di madre coraggio per un figlio antico che troppo lentamente cresce tra rigori di vili che insulto perché non restino in pace. . .
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Madre natura, non è madre, è casualità potente dal microbo alla radice d‘ogno tipo di vegetazione e di animale. . . incluso
l‘animale che presume di essersi dissocato dalla fauna. . . si è autorizzato a ingrandirsi chiamandosi epocalmente una varietà di homo, ipocritizzando la sua vita microbiologica apice della natura. . . natura è indifferente, micidiale, è di una bellezza inquietante, ed è il male assoluto. . . homo, apice del male, è natura distruttiva e commette pulizie terrestri quante ne combina natura. . . si allegirisce di Homo, diventa morte che non ha immagine. . .
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periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . . e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.