https://www.youtube.com/watch?v=v-YukDzlRFU
Ubaldo de Robertis è nato nel 1943 nelle Marche e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia di poesia italiana contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Mentre l’autore combatte una lunga battaglia in una corsia di ospedale, è uscito un volume, una vasta Antologia della produzione poetica di Ubaldo de Robertis con testi tratti dall’opera di esordio, Diomedee del 2008, fino alle poesie dell’ultima raccolta edita Parte del discorso (poetico), del 2014, per giungere agli inediti di questi ultimissimi anni che avevano già visto la luce nella rivista lombradelleparole.wordpress.com. Che dire? Questa Antologia ci rivela un poeta che ha iniziato a scrivere e a pubblicare già in età matura, con un bagaglio di esperienze extra letterarie, di chimico nucleare in possesso di una salda cultura scientifica, cosa da non sotto valutare quando leggiamo queste poesie. Partito da una lirica rastremata e desublimata, de Robertis giunge ben presto ad una idea di poesia dall’ampio respiro poematico, con un verso ipertrofico, avvolgente, narrativo, in grado di accogliere quanti più oggetti e discorsi possibili.
Questa poesia di Ubaldo de Robertis non sarebbe stata possibile senza la lezione dell’ermetismo («risorgive parvenze») e quella di Tomas Tranströmer («argentei pesci dai quattro occhi sporgenti») e la lezione del verso libero del secondo Novecento italiano; ma quello che è più importante è che la poesia rivela una precisa cognizione dello spazio quadridimensionale là dove è posta, come un bel vaso fiorito, disutile e misteriosa. Ed è questo il fine di una poesia: mostrare al lettore quanto essa sia disutile e misteriosa, impiegando il linguaggio comune per andare oltre di esso, per un significato che nemmeno il poeta sa quale sia…
Scrive de Robertis, nella poesia “L’Universo e gli anelli”: «parto da una teoria cosmologica precisa quella dello “spazio ad anelli”, (di cui è ideatore l’amico Carlo Rovelli), che si contrappone alla teoria dello “spazio a stringhe” forse più accreditata e diffusa. Nella poesia tratto della relazione tra frequenza suono e colore e accenno a Kandinskij che si era occupato per molto tempo della relazione tra colori e musica».
Fatto è che l’autore si muove con disinvoltura dall’universo ad anelli alla scansione ottica quadridimensionale presente nella poesia «Il dipinto e la realtà», una vera e propria dichiarazione di poetica. «La figura virtuale rimanda all’esistente», proprio questa è la realtà, si chiede il poeta quasi stupito: la bellezza di «Thérese» che, vista di spalle, «Brilla, qui, in primo piano»; perché la bellezza non mostra mai il proprio volto ma lo lascia intuire, da una visione improvvisa, di scorcio. Il secondo piano è, paradossalmente, più visibile del primo, proprio in quanto nascosto, schermato. Nella raffigurazione Thérese, «vista di spalle», occupa il secondo piano in un universo costruito a piani, ad anelli sovrapposti. È lo sguardo dell’osservatore che fa parte del «reale». Lo sguardo è soltanto una delle componenti del «reale», e neanche tra le più importanti se ci liberiamo della concezione antropocentrica dell’universo. Ma è attraverso lo sguardo e seguendo il suo tragitto che noi possiamo ricostruire il percorso dello spazio virtuale di un’opera poetica. Una volta, venti anni fa, ho scritto in una prefazione: «Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee. Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono cose in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili si trovano nel mondo per servire l’uomo. Noi possiamo vivere in un appartamento ammobiliato, oppure in un appartamento ricco di [nostre] suppellettili. La differenza è di vitale importanza». Questo è un pensiero che ho rubato ad Osip Mandel’stam, non è mio, ma l’ho fatto mio. E quindi è anche nostro.
Ecco, io quando leggo una poesia di un autore, la prima cosa che guardo è come ha posizionato le cose (le parole) all’interno del verso, a quale distanza, le corrispondenze verticali, orizzontali e quelle diagonali. Se noto della sciatteria, metto da parte il libro. Quello non è un poeta ma un letterato più o meno colto.
Una poesia è come una casa con dentro i mobili, i quadri, le mensole, le suppellettili. A volte scorgo una grande sciatteria, la sciatteria dell’ordine del discorso, quel discorso ordinato che hanno le maestrine o gli acculturati arroganti. Quella è la sciatteria peggiore. Una poesia può essere anche non riuscita, ma deve contenere i mobili al loro posto. Ecco, io direi che nella poesia di Ubaldo de Robertis i mobili sono al loro posto, In posti diversi ma sono lì per essere utilizzati da chi vi abita, cioè l’uomo.
Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Jean Frédéric Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
La costruzione ritmico sintattica di questa poesia è fatta in modo che essa stessa è una «cornice», è fatta a modo di una «cornice» che chiude il «quadro». È una particolare esemplificazione di come una poesia «chiude» uno spazio pittorico, ottico. Il testo inizia con il primo verso la funzione del quale è di attirare l’attenzione del lettore senza coinvolgerlo in una situazione personale ma cercando di stimolarlo a concentrare la sua attenzione su un fatto esterno, oggettivo: quel qualcosa che «brilla, qui, in primo piano». Un procedimento retorico che fa uso di indizi fluttuanti la cui efficienza si misura sull’apporto ingiuntivo sul soggetto della composizione: «Thèrese» è «vista di spalle». Dunque, il lettore, che sta davanti al quadro vede, ovviamente, Thèrese di spalle e può ammirare il suo lussuoso e sensuale vestimento:
«la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir»
Si noti l’estrema precisione di questi dettagli. Precisione che viene rafforzata dal verso seguente che chiama in causa un elemento non del quadro ma dell’osservatore: il suo «sguardo». Quindi, di nuovo, si ribaltano i piani tra l’oggetto e l’osservatore. Appunto, questo «sguardo» è «in direzione» di qualcosa d’altro («delle case, non degli alberi»). Adesso sappiamo che Thèrese è un soggetto del quadro che sta guardando fuori del quadro. E qui c’è un gioco di specchi, uno Spiegelspiel tra Thèrese e il quadro. A questo punto il poeta ci dà una informazione: il pittore è chiamato in causa con il suo nome: Jean Frédéric Bazille il quale «ritrae in secondo piano». Che cosa ritrae il pittore? Nient’altro che il «Dramma della quiete, della serenità».
Il quadro tracciato dal poeta però non ci induce alla serenità ma in inquietudine. C’è qualcosa che può accadere, che può infirmare il quadro della sensuale serenità tracciato dal poeta pittore. Ma l’autore non ce lo dice, la poesia termina proprio sul più bello, là dove ci interesserebbe saperne di più. Allora, possiamo congetturare che l’insorgente inquietudine è la nostra risposta, nostra di lettori osservatori del quadretto di apparente serenità che il poeta ha voluto rappresentare.
L’indizio di significato principale è dunque raffigurato da una «mancanza», qualcosa manca nella poesia, qualcosa che il poeta non ha detto, qualcosa a cui non ha alluso. Quindi, c’è una «presenza» che aleggia. Ma essa aleggia sotto forma di «Assenza» E questo è il significato della poesia.
Non siamo alla teatralizzazione delle vicende private dell’io come avviene nella poesia frequentata in Occidente nell’epoca della stagnazione spirituale e della straordinaria leggerezza dell’essere, e neanche in un sotto-genere, in quello che elegge il «tu» quale destinatario di testi-missiva. Ubaldo de Robertis opta per l’esplicita forma dialogica e parla con il lettore, un misterioso «implicito», una specie di «doppio» della propria coscienza, ovvero, con il lettore spettatore. de Robertis racconta sempre un evento preciso (un non-detto, un implicito) con il massimo risparmio di parole-cornice, ecco la ragione della incisività del verso lineare di questa poesia, che termina proprio lì dove deve terminare, ma il significato è nel verso successivo, si nasconde in una omissione, in un segmento omesso, nella elusione, nel non-detto. Il lettore viene posto davanti ad un evento-racconto, il non-detto, l’inesplicito. Non c’è un versante edificante in questa poesia, il lettore non viene disturbato da eccessi enfatici, e questo è un punto a vantaggio dell’autore che mostra una sicurezza di dizione e una icasticità del lessico di accorta fattura. È una particolare poesia di inazione, di impliciti, di non-detto questa dell’autore. Non si tratta, credo, soltanto di un metodo di composizione ma anche e soprattutto di un metodo di addestramento alla vita, esercizio militare dell’anima.
Se prendiamo la composizione base della poesia di Ubaldo de Robertis, ci accorgiamo che l’autore compone come riprendendo il filo di un discorso abbozzato in precedenza. Si può leggere la poesia del poeta pisano a ritroso, dall’ultima alla prima composizione e nulla cambierebbe del senso complessivo, perché non c’è un senso, ma una serie di sensi. Le composizioni entrano subito nel tema dialogico: c’è l’introibo ad un oggetto esistenziale, per lo più un «negoziato» con il lettore.
C’è una componente «sacrale» in questo metodo ma è un «sacro» nutrito di falso e inautenticità. «Non si dà vera vita nella falsa», ha scritto Adorno in tempi non sospetti in Dialettica dell’illuminismo (1947). Nel frattempo, il mondo è diventato integralmente falso, e l’«io» ne è una degna protesi, il «tu» è una immagine posticcia, che non si sa quando sorge e quando non sia più una proiezione dell’«io». E così via. Il segreto forse si cela nell’assenza, nell’impronta, nella traccia. E sarà compito del lettore esercitare l’indagine con l’atto della lettura. Direi che in questo genere di poesia è prioritario l’atto della investigazione. La poesia si costruisce come interpretazione del non-detto, del non-accaduto. Il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della deduzione; l’analisi è, insieme, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme, visione panoramica dell’io e del tu. Di qui l’abbondanza di sintagmi segnaletici dei luoghi.
Una procedura sottoposta alla logica della sintassi. Il metodo di scrittura di Ubaldo de Robertis consente lo scorrimento delle proposizioni, è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra le proposizioni, un percorso duale, relazionale dal quale ciò che si è definitivamente assottigliato sembra essere la «sostanza», la stoffa delle relazioni umane. La stessa abbondanza di deittici, dicevo, cioè di quelle unità pronominali e avverbiali che si possono rintracciare in questa poesia, sono una spia delle relazioni spaziali e temporali che si organizzano intorno al «soggetto», che costituisce il principale punto di riferimento, il semaforo «significazionista» e relazionale delle composizioni.
Ubaldo de Robertis
POESIE dalla Antologia Selected poems Ring of the universe Chelsea Editions, New York, 2016
(A Max Frisch)
Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.
Non in Courbet. Fierezza, monumentalità,
unisce a quella solitudine, della sua luce
penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno
e ha bisogno della luce del mondo per esistere.
Nel retroterra un uomo è diventato pietra.
Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito
e a che fine le ombre s’intrecciano sul capo anguicrinito,
quale identità lui che, forse, ha conosciuto
molti luoghi in cui fermarsi per rendersi invisibile.
Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?
Lo spazio intorno trasfigura per la rapidità
con cui sfilano tram, un continuo va e vieni.
Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.
Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,
prendere una via, ripartire all’istante:
“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?
Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita
riducendomi in solitudine.”
Amnesia di esseri e luoghi.
Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere,
arduo trarre inferenze, deduzioni.
Immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri.
Quei peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri
iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,
sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice.
Il tempo estatico dell’insurrezione delirante
ti può esplodere in faccia, auto-annientare, come l’esaltazione
di Corbet per la Comune, pagata a caro prezzo.
Nessuna espressione, ansia di abbandonare le tenebre,
persiste la storica immobilità.
E quel suono alto nell’aria? Un nuovo espediente?
Solleva il Quartetto per Archi l’alto sentire, l’Opera 132,
quanto di più solenne e impenetrabile ci sia nel Genio,
afflitto da ipoacusia. Musica, tempo di redenzione, dell’utopia.
Nessuno che sia disposto ad accoglierla.
Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven.
Suoni, segni, e note, alte in numero sempre minore,
condurranno a un raggiro.
L’ assurdità è che uno ha coscienza della propria vuotezza
e l’altro, annichilito, non ha un’identità.
Ma se nella tasca interna della sua giacca scovate un biglietto,
solo andata, per Amsterdam,
Signori, non dubitate quell’uomo sono io.
Identità
Il presente: la sola dimensione.
E ha perso il nome, l’essenza, causa sui
e per l’azione di famulus miserandi
fautori dell’espansione, corruttori d’identità.
Fletto la passività, sfato la connessione,
frantumo gli argini, l’indolenza
che assume valenza metafisica.
A lungo fu il grigio degli sguardi
ora un piccolo astro rosso lucente
lumeggia nella mente come esigenza
di un luogo limpido, nuovo, d’aria e di luce.
(contro-voce)
Senza paesaggio che lo distingua,
con troppi punti di approdo,
troppi crocevia da oltrepassare.
Una trappola claustrofobica.
La fiera globale non è poi
così male, spinge lo sviluppo,
riduce la povertà, vale l’adagio
del sempre ci sarà chi affligge
e qualcun altro che sarà oppresso,
e poi… esiste la libertà intera?
In mare o terra, scortato dal miraggio
seducente, fra l’istante di un crollo
nell’abisso e il ritorno alla vita,
lascia dall’altro lato il servaggio,
l’inedito è di fronte, l’impazienza di scoprire
la propria identità,
l’idea di sé difforme dagli altri,
e di sé attraverso il tempo. Sincronico
e diacronico, – direbbe Saussure.
Co-abitare l’isola, antica come il mito.
Perché nessuno la nomina?
Perché gli echi sono inaudibili?
In quell’arcaica natura in cui si raccolgono
le ombre, mani come rami stringono altre mani,
arbusti sempreverdi, compatti, ricadenti sulla terra
vermiglia, s’ incontrano fra spigliate fioriture
di intenso color lilla, rosse bacche fragranti.
Una sorta di Origine.
E c’è chi, affrancato, scuote le catene,
festosamente, chi sente come un’epifania
la contorsione di quel corpo accorso
dietro una promessa che l’animale-uomo
è legittimato a fare: das versprechen darf.
Certi danzano, ridono,
altri parlano un lessico ermetico, inconsueto.
E’ forse necessario un nuovo linguaggio?
Un idioma segreto?
Co-abito l’inquietudine, il dubbio
che tradisce, scruto in faccia l’incertezza,
per capirne il senso.
La mancata dialettica non lascia individuare
inediti scenari, antidoti alla coazione a ripetere,
/vero elemento demoniaco/, la dimensione
dell’agire, saggiare la vertigine della libertà
che ad ognuno dovrà rivelarsi.
Majakovskij tuonava:
/Noi la dialettica non l’imparammo da Hegel //
quando sotto i proiettili /dinnanzi a noi
fuggivano i borghesi,//
Qui, alcuni fuggono, ripiegano,
tenendo in petto, semplicemente,
il senso di vertigine, il mancato riscatto.
Arretrano. Volgono i passi,
si consegnano alla prassi.
E i crolli?
Le macerie ammassate sulla via?
Eretto intorno all’isola, o forse nella mente,
l’archivolto azzurro-cielo sorregge l’utopia
perché il mondo non sia più
come un non so che di apparente.
L’esperienza gradualmente si invera.
In evidenza l’effettiva identità, la memoria,
stili di vita relegati ai margini,
in penombra le paure, le perplessità,.
Per gioia ogni voce diventerà riconoscibile.
Nessuno incererà “de’ compagni/senza dimora/
le orecchie”, per godere la bellezza del canto
delle sirene, più deliziose che mai.
Nella congiuntura le incantatrici ritroveranno,
definitivamente, la loro dionisiaca voce.
Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
È il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Jean Frédéric Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
È nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?
L’Universo e gli anelli
Atomi di spazio, cammini chiusi, la perfezione sferica di anelli
che intessono, con altri, ariose reti di relazioni per dar vita
allo spazio tempo, con la sua curvatura inverosimile, finché
una nana bianca, stella degenere, evanescente, volle dare
la prova inconfutabile che la superficie dell’universo è curva,
conseguenza della massa dei corpi celesti contenuti,
fune che si flette sotto il peso del funambolo. Il cosmo è tutto
un fremito, un gran vibrare. La bellezza di suoni e colori,
plurime risonanze, tonali ambiguità. Aperto è il suono che
dal silenzio perviene. Il silenzio appartiene al suono. L’insieme
dei possibili suoni, neutro bigio, è una forma di silenzio. Grigio
bianco, che il candore difende, è il connubio di tutti i colori.
Colore è cadenza di luce. Dall’esigua frequenza sorge il rosso,
al viola la preminenza. L’alta ciclicità giova all’energia.
Il suono chiama, il colore, sorretto da luce ed ombre, risponde,
domina ben oltre il sistema solare, imperversa il rosso di Antares,
gigante, e di Betelgeuse, disperatamente in fase terminale.
Lo sfolgorante bianco di Sirio e di Vega, più fulgente del Sole,
in un Universo dove primeggia il nero-grigio dello spazio vuoto
fra galassia e galassia. Dai padiglioni del mondo ascoltava
Pitagora, il lungimirante, quel concerto di colori e suoni,
con i suoi numerici rapporti, archetipi della forma, onde
che fuggono lungo corde tese vibranti, come quelle di un violino.
Quale uomo ha avuto altrettanta influenza nel campo del pensiero?
Dante, il divino, sicuramente ha percepito il suono delle sfere,
riconosciuto come un atto della mente: l’armonia che temperi e discerni.
Sulle spalle dei giganti è salito Newton con il suo corteo di colori
e di luce per vedere più avanti, e raccontare il mondo, dove dal nulla
affiorano particelle, scompaiono con le loro stranezze, irraggiungibili,
nemmeno fossero raggi di astri sperduti nel loro moto. L’azzurro
profondo è un vuoto che molto ha da elargire. Si animano processi,
strutture, turbamenti per le inedite forme, la realtà concreta
si manifesta da questa scaturigine. Sfocata è la visione di appannati
mondi, lontani. L’intenzione non è di annullare la distanza,
piegarsi al disordine, alla casualità, ma riconoscerle. Nel contempo nuovi
varchi si schiudono verso l’invisibile, ai confini dei luoghi dell’assenza.
E sempre ci sorprende ogni concezione inquietante dell’Universo.
Ma che cosa guida la realtà? Domandare! Le domande ci abitano
misteriosamente. Domandare! Domandare sempre, e di nuovo.
Avrebbe voluto, Pound, che le onde fredde della sua mente
fluttuassero, che il mondo si inaridisse come una foglia morta,
e fosse spazzato via per ritrovare, sola, quella donna.
Ma qui, oltre all’intelletto, a fluttuare sono campi quantistici,
lo spazio interstellare. E’ questo dimenarsi di quanti che elegge
particelle onde quark/i veri mattoni del mondo./ Le loro danze,
i loro incontri, non avranno lo stesso fascino di Francesca, ma sono
anch’esse una mousikè, cornice di bellezza, di assoluta verità.
Poco altro inaridisce oltre alla foglia morta, se non l’uomo
dentro al labirinto dell’esistenza, la fedeltà disperata al pianeta.
Smarrite, alla fine, le proprie ceneri come polveri cosmiche
minute, grigio scure. Pure espressioni di esigenza interiore le tele
di Kandinskij incendiano i sensi oltrepassando i limiti, le singole
percezioni. Il pensiero si addentra nell’Universo stellare per leggervi
l’animazione che ci sfugge, per condividerne l’irrefrenabile pulsare.
Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
È il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Jean Frédéric Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
È nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?
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I
Gli incomodi pensieri ho spedito
lontano dalla vista che tra i sensi
fruisce del più ampio raggio
oltre lo spazio che tutto avvolge
oltre l’aria greve opprimente
per sentirmi redento libero
di meditare su ciò che mi attende
Ma anche il meno inquietante
al suo rivelarsi quello più fuggevole
e vago non fa che ripresentarsi.
Tutti. Tutti sono tornati
per farmi diventare cieco
II
E guardi il mare quieto dall'alto con occhi di gabbiano
diffidente da vicino lo vedi spumeggiare
di moti impercettibili corpi minuti si confrontano
divergono s'infrangono senza tregua ora qua ora là
in ogni orientamento in ogni dove onde luccicanti
al sole come mosse da un vento invisibile che soffia
in superficie dove nulla permane di ciò che sull'acqua cammina
niente di sé conduce l'onda marina solo l'eterno scivolare
non è un oggetto non ha argomenti la chiara identità
degli scogli delle sabbie finissime è solo un fluire di eventi
al pari del tuo corpo nudo fatto di incostanti molecole
e più l'onda s'appressa più l'animo trascende l'attimo
appena vissuto prima di sciogliersi nuovamente in mare
Chiedersi se la mente sia la rada dove ammarano
i gabbiani il porto che si lascia crudelmente insabbiare
da voci rauche grevi sentimenti in un solo pensiero
ecco perché il mondo temi oltre la boa oltre l'azzurro
profondo, il fosco remigare, l' illusorio orizzonte.
III
Tutto lo spazio reca l'assenza
Ombre sui libri
Nemmeno Shakespeare riluce
Qui
non si nomina dio
Sono estraneo io
a tutti a tutto
Fuori piove a dirotto
ed io sto diventando un’Isola
IV
(La Terra Promessa)
Muore sulle barricate il mio tempo
nudo come l’ailanto grigio cenere
ha perso sgradevoli foglie l’inverno
si veste del pallore dei muri
l'indugio del merlo sul roseto esangue
come se non avessi mai amato
il rosso struggente della rosa
come se non avessi mai pianto
quando alta si aggirava la musica
e guardinga la poesia che le distanze colma
e si fa senso per sondare l'ambiguo raccapriccio della vita
lascia che sia finita che le voci
giungano assordite che si pieghi a terra l'albero
e si perdano gli occhi ad inseguire
la processione di formiche esultanti
il tripudio dei vermi e dei bruchi
tutti in marcia verso la terra promessa
V
Ho quasi consumato
la materia di cui sono fatto
ricadrò in avanti o all'indietro
dopo aver compiuto
il massimo tragitto
fortemente curvato
sprofonderò su di me
crollerò sotto il peso
delle mie ossa
e non potrò sfuggire
nulla di me potrà uscire
da quella porta
si può solo entrare
neppure la luce
di cui erano fatti i miei occhi
USCIRA'
non ha sufficiente velocità
per sottrarsi all'attrazione esiziale
il tempo stesso rallenterà
il suo corso
fino ad arrestarsi
qualcuno di quelli che hanno ruotato
accanto a me
prossimi all'azzurra sfera
dei miei sogni
scorterà ciò che ho soltanto immaginato
ospiterà il mio presente
il mio passato
dentro la propria sfera
verso il proprio verde lontano personale futuro
VI
Come furfanti s'ammassano gli anni
ma non sarà l’inverno cupo e sciatto
a schiantarti il respiro striscia il gatto
tra i tuoi piedi nudi simula sbadiglia
se ne distacca per ritornarvi lento
non sono gli arti il luogo
che il movimento avvolge morbido lieve
Il luogo è il tempo e sempre ti sorprende
l'idea di sottrarti arginando la vita
la suggestione di esistere un attimo di più
come se l’orditura dei giorni
l’uno vicino all’altro fitti stipati
possa farti dimenticare
che sarai tu a crollare muso a terra
dentro la cenere del mondo
VII
La luce meridiana riveste di eccessivo ardore
l'astuta moltitudine dei girasoli
lo stelo dritto fino al crepuscolo
inchiodato ognuno alla sua zolla di terra
l'ora in cui appare la paura
che si raffreddi l'ardente vita
l'esistente riaffiora dai clamori di un tempo
intermittenti languori la logorante intesa
di non parlarne prima della resa
che si consuma con servili mestizie
Le povere consumate notizie di te stesso
VIII
A capo chino come un'abitudine
tra vecchi caseggiati luoghi abitati
da ombre rigide ti sfiorano nessuna
che si distingua non avverti nei vicoli la distanza
dei passi che dentro vi risuonano
ovunque ti inabissi in disparte
dopo aver condiviso il tanfo dei bistrò
che attanaglia la gola
che tu voglia soffermarti o no
gli altri avvisi del tuo passare
soltanto per soliloqui
IX
Arno A Percy Shelley
Clamori di gocce che i larghi fianchi
sfiorano per nutrirsi d’ossigeno
sul greto grigio incombono verità
come rughe del volto che si specchia
in acque chiare dove cavalli scalzi
abbeverano le fronti umide e strette chiglie
da un medesimo vento sospinte
costeggiano pigramente le rive
Ho affittato una barca per scoprire alla foce
quale mare seppure sconvolto
mi darà il vantaggio di decidere
se invertire la rotta o perdermi
dove muore il fiume nell’infinita disventura
X
Ruotare attorno ad una stella
pianeta di luce sospesa
abbandonando il punto
L’origine
Dentro l’arcobaleno si vive
di un tepore sottile
coscienza nuova che imprime
nuova vita l’amore.
Lo sento l’amore all’ombra
delle cinque lune tenui
luminosità sulla pelle nuove possibilità
Nuove intenzioni.
Movimento cambiamento.
Attorno ruotare attorno
Nella realtà nulla accade
niente in quel punto in quel giorno
fissato per il mio ritorno