Gabriele Pepe POESIE SCELTE da Parking Luna, Arpanet 2002, e L’ordine bisbetico del caos Faloppio, LietoColle, 2007, da Parking Luna, Arpanet, 2002 con due Recensioni di Giorgio Linguaglossa tratte dal quadrimestrale di letteratura Poiesis

Giorgio Linguaglossa

 

Gabriele Pepe è nato a Roma il 14/11/1957 dove risiede. Email This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Roma Ha pubblicato i seguenti libri: Parking Luna, Arpanet Milano 2002; Di corpi franti e scampoli d’amore; L’ordine bisbetico del caos2007È presente nell’antologia Ogni parola ha un suono che inventa mondiArpanet Milano 2002  nell’antologia Fotoscritture Lietocolle, 2005; è presente nell’antologia  Poesia del dissenso ii a cura di Erminia Passannanti –  Joker 2006 e presente nel progetto Mini concepts arte. Guernica dopo Guernica. Filamento di tungsteno di Gabriele Pepe Roberto Vaccari edito da Arpanet, 2006

 

da: “Poiesis” (numero doppio 26/27 2002/2003, rubrica “Recensioni” pag.117) Edizioni Scettro del Re Due recensioni a cura di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Gabriele Pepe – Parking LunaArpanet 2002

 

Gabriele Pepe è nato a Roma nel 1957, fa parte quindi dell’ultima generazione, quella che è venuta dopo che si è spezzato il filo generazionale e culturale che legava la Tradizione al Nuovo. E questo punto è importante per capire quali siano gli elementi di novità che un poeta quarantenne porta nell’ambito dell’arco costituzionale letterario. In una lettera di autopresentazione che accompagna il libro Pepe in ordine ai motivi che lo hanno spinto, a fare poesia, scrive: “Di certo è qualcosa che nasce da un cattivo rapporto dell’interno con l’esterno, da una particolare disarmonia psicofisica che cerca nella poesia una sua propria ricomposizione etica estetica. Non ho verità da rivelare, né balsami salvifici da proporre o grandi messaggi da lasciare ai posteri. Ognuno scrive partendo da suo microcosmo personale e offre al viandante interessato un altro tra gli innumerevoli paesaggi che la vita ci mette a disposizione”. Dunque è chiaro: nessuna certezza, o meglio, v’è solo la certezza dell’interrogazione senza neanche la consapevolezza dell’identità: “Che rotte tracciare sulle mappe oscure?”;”Sono il viaggio o il viaggiatore?”. Poesia che fonda la propria impermanenza sulla sovranità del dubbio che non lascia spazio alcuno ad alcun tipo di viandanza o di ricerca. Pepe non cerca nessun Graal, la sua parola non ha, né vuole avere il nitore della poesia della generazione anche immediatamente precedente, egli non assevera più alla maniera degli “iconoclasti” dell’Opposizione permanente ormai divenuta Accademia del conformismo. Il suo fraseggio è inelegante, il lessico irto e semanticamente irregolare e cacofonico; il parlato è tipicamente “post-moderno”, nella misura in cui vi entra di tutto, dalla media koinè del linguaggio tecnologico dei depliant: “le valvole magnetiche del cielo”, a delle splendide invenzioni metaforiche inquinate sempre da reperti tipicamente post-avanguardistici (“Psicopupilla nel lusco del brusco”); iperboli urticanti: “Gola sbiellata grippato polmone”. Trattasi di “Tangibili versetti psicotici” tratti dal “semema brodo primordiale” in forma di finto “diario”: “Tutto s’inquadra lungo le torri del grande bordello”. Ovviamente, il libro non è un “diario” più che non sia un arcipelago, un luna-park (come ammicca l’autore nel titolo),un gigantesco “bordello” entro il quale sono state devitalizzate le tradizionali ragioni etiche ed estetiche che, in qualche modo, giustificavano in passato l’attività letteraria. Pepe (come tutta la poesia consapevole del nostro tempo) non ha altra scelta dinanzi a sé: o assecondare il moto di deriva delle poetiche epigoniche (prodotto inevitabile del Novecento); oppure tentare di ricostruire un senso, una direzione della ricerca, e quindi ricostruire un nuovo patto tra etica ed estetica. Di qui non si scappa, le strade sono due, e non è detto che siano intercambiabili, come taluno da qualche parte lascia intendere. Poesia tutta di nervi ed istintiva è stato detto da qualche critico, poesia venata da una primordialità di espressione volutamente cacofonica e dissonante. Tuttavia, a mio avviso,non è detto che Pepe non riesca magistralmente quando si attesta su un versante più “tradizionale”come nel mirabile incipit: “Non posso che annegare/ Nel mezzo del tuo sguardo strepitante! Oh fiume giallo del viandante! Trappola muraria/Marmorea corrente alluvionale”, dove le sinapsi di senso sono costellate da tutta una serie di mosse da cavallo di sklovskijana memoria. Pepe è un esperto dell’arte di inserire le “variazioni” e i crudelismi, eccelle nel provare tutto il pentagramma delle sue possibilità espressive, non escluse le tematiche da “interno domestico :  Ondeggio barcollo/ Cerco un appoggio/Ma il frigo bastardo mi ronza codardo/ Su un palmo di mano”; tutto ciò premesso, credo che nel futuro il poeta dovrà scegliere: tra vitalismo e angoscia esistenziale, oppure la via che lo condurrà inevitabilmente ad un certo grado di stilizzazione.

 

Giorgio Linguaglossa

 

L’ordine bisbetico del caos Faloppio, LietoColle, 2007 pp. 70 € 10,00

 

 Recensione di Giorgio Linguaglossa: le eccedenze stilistiche del materiale di risulta

 

Un certo tipo di cultura che ha attraversato in diagonale il Novecento ha sostenuto la validità estetica ed epistemologica del «caos» inteso come una nuova e diversa modalità dell’ «ordine». Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: quell’Opposizione permanente che è diventata un’industria, per una beffa da coccodrillo, si è rivelata una vera e propria fabbrica del consenso.  Dunque, «caos» come opposizione al «ritorno all’ordine», «caos» come “nuovo” modello estetico ed esperiente che si contrappone al modello recipiente e conservativo delle forme estetiche pregresse. Quella medesima cultura quindi che ha proclamato la politicizzazione e la scientificizzazione del «caos» quale vettore produttivo di una nuova e diversa legislazione del disordine, è quella medesima cultura che ha prodotto la contro-lirica da hilarotragoedia della anti-poesia di Gabriele Pepe, sin dal suo primo apparire con Parking Luna (ARPAnet, 2002) e Di corpi franti e scampoli d’amore (LietoColle, 2004), fino a quest’ultima opera: L’ordine bisbetico del caos.

 

È terminato così il ciclo della trilogia della poesia di Gabriele Pepe, dopo la quale il poeta romano appare orientato verso una “nuova” poesia che non considera più centrale il significante e il piano semantico rispetto al significato e il semantico rispetto all’iconico-simbolico L’ordine bisbetico del caos può essere considerato il tipico prodotto artistico di un poeta giunto alla completa maturità stilistica entro l’orizzonte di attesa della cultura cosiddetta post-modernistica che, parodisticamente, fa capo all’australopiteco Afarensis, «che diventa, in Pepe, la “madonna delle ossa”, la “genitrice oscura”, “l’esigua patriarca della specie/ di pelle e muscoli scimmieschi”» (dalla prefazione di Stefano Guglielmin).

 

In una certa accezione, L’ordine bisbetico del caos rappresenta il prodotto tipico di una cultura giunta alle soglie della sua estrema belligeranza, in quel crinale che divide il «vecchio» dal «nuovo», in quel vuoto d’aria che separa due atmosfere. L’instabilità, il moto desultorio e sussultorio, la friabilità semantica di questa poesia rammenta e richiama l’imponderabilità, la rarefazione, il dis-orientamento semantico e significazionista del mondo delle merci linguistiche. Poesia che si muove all’interno di una zona franca delimitata dalla crisi della cultura del post-sperimentalismo e territorio che si estende verso l’ignoto stilistico di ciò che è linguisticamente possibile all’interno della cultura del post-sperimentalismo. Da un lato, Gabriele Pepe tenta la strutturazione in un rigoroso ordito metrico delle materiche escrescenze del «caos», dall’altro tenta astutamente di sobillare l’ordine con un materiale di risulta sempre eccedente rispetto al “recipiente” metrico, con il risultato di una eccedenza del materico sul metrico, un procedere attento a due fuochi, facendo un passo avanti ed uno indietro, con il risultato di un movimento “finto”, che non conduce né avanti né indietro, né a destra né a sinistra, né in un luogo né in un non-luogo. Un movimento dunque “finto”, in una sorta di specularità degli specchi in quella sezione denominata Referto degli specchi, che costituisce il momento centrale del volume, ed anche il momento “curiale” del volume, per quel sentore di “curia” che traspare dalla orditura ipersemantizzata dei testi. Resta il fatto inconcusso che un elevato gradiente di olismo stilistico non può sottacere la “barbarie” di una cultura che ha “fatto” la democrazia di massa dei nostri giorni. In soldoni, l’olismo stilistico di opere come questa di Gabriele Pepe,  è il prodotto di uno «sperimentalismo privato» e di un impulso mimetico verso l’individualismo stilistico esasperato. Tanto più esasperato quanto più «privato». E viceversa.

 

Giorgio Linguaglossa

 

da. Parking luna

Edizioni Arpanet (Milano) 2002

 

IL PUNTO

 

Longitudine e latitudine mia

bussola cervello astrolabio cuore

sestante del dolore cometa e scia

onda terra Ulisse Polifemo

 

che rotte tracciare sulle mappe oscure?

croce del sud orsa minore estremo

sfiato di balena tosse di luce

sono il viaggio oppure il viaggiatore?

 

 

EPIDEMIA

 

La mia casa è infetta

parete calcinata

mattone pizzicato

fazioso e condannato.

la mia casa è chiusa. Chiusa alla magia

chiusa al destino all’ospite inatteso

al portico al vetro

a lampade nel retro.

La mia casa è demenza

roipnol eroico dell’invadenza

clonazione del reale

l’odore penetrante

sparato dalle fiale

soggetta alla carogna

seguace del rimorso

epidemia scommessa

di grazia e di conforto

 

 

BANANE LUMINOSE

 

È denso vorticare questa notte

notte cruda scannata sul rumore

lucida e tagliente di parole

sguainate come lame dagli abissi

del livore. Voragine e crepaccio

dove s’increspa l’ombra del dolore

precipita la ghiaia dei giudizi

 

È notte sul frullato di banane

dolce plasma rugiada di potassio

medicinale candido e soave

che spegne la mia sete artificiale

ambrosia della palma e della luna

sorriso della polpa e della buccia

che ogni pegno ed ogni scaramuccia

m’aiuta a sopportare. E pietraie

dove Odio raduna le sue mandrie

e serate dissolte ad aspettare

che la cura agisse sul mio male

notte oscura sovrana dei miei lupi

squillo d’acqua filtrata dai dirupi

risucchio spadaccino della vena

artiglio voluttuoso della belva

che il gioco e la candela mi nasconde

dentro i gorghi vermigli dell’amore

cui m’avvito Derviscio danzatore

 

Lacci neri sul braccio della notte

vibrisse prolungate sulla morte

morte dell’aria morte del mio karma

descritto tra le righe del pigiama

pellegrino che irrompe nel mio dramma

quando spillo di stella sullo schermo

di tenebra m’accascio e stingo via

 

(ma insolente nel ciclo circadiano

rimango rifugiato come tigre

di peluche nel parco inanimato)

 

Narici della notte come grotte

sul volto scheletrito della morte

morte del soffio morte dell’occaso

travaso pettorale del monsone

che vischioso s’espande nel mio fato

quando nera pupilla di ciclone

venticello mi sfiato e sbuffo via

 

(ma imboscato nel nido del malato

rimango accovonato come l’ago

del pagliaio perduto e mai trovato)

 

Spiga su spiga sangue verso sangue

la triste mietitura della carne

che lotta senza posa per restare

reclama le sue rughe centenarie

sorrisi sganasciati nel bicchiere

artrosi cataratte e asciutte vene

e se proprio deve andare pretende

per sé stessa l’intero capezzale

allora non è morte che ho sfiorato

a quest’ora sfocata della notte

ma nevose montagne dello Sherpa

che passo dopo passo ho superato

fedele scalatore del mio inganno

 

Giorgio LinguaglossaGabriele Pepe

 

Corrente capitale

 

Non posso che annegare

nel mezzo del tuo guado strepitante

oh fiume giallo del viandante

trappola muraria

marmorea corrente alluvionale

dell’uomo costrittore

né posso galleggiare o fingermi frammento

scheggia rosacarne tessera

d’un mosaico di vetro sotterrato

di cui ignoro origine e trapasso

eppure a te m’accosta il formicaio

la giostra del mio palio

volumetria d’ameba sopravvissuta

ai laterizi di una Capitale Santa

che ingloba futuri pezzi di sé

e di me l’intero strazio

carico del tuo svanire bianco

oh annosa pietra sfarinata

sulla torta settimin

 

 

BESTIARIO

 

Periferiche macchie di sterpaglie ondulavano

rachitiche tra i polpacci minorili. Sciamavano

di chiassose devastazioni canaglie. Schioccavano

di lame e lungimiranti fionde

dal ramo biforcuto visibile a stento

sul groviglio spento dell’asfalto cinerino

nude brughiere urbane oscillavano

di un’onda floreale sulle rive peperine. Diluviavano

di sguardi maliziosi

sopra l’orizzonte criptico e frastagliato

a noi troppo alieno

troppo dispersivo nel suo slancio abusivo

inconsapevoli come eravamo

della nostra tersa e cristallina violenza

proscritta alle scaglie dei muretti, alla ruggine

tetanica dei paletti del filo tremulo

che spinato e attorcigliato sui rigori della legge

saldava i riarsi pratoni sconci

le scoscese marane secche alle razzie

intransigenti di cucciole cittadinanze precarie

che sotto un trancio indifferente di cielo scaleno

bruciavano veleno e tossine di branco

ossa e cartilagini di mandria rinselvatichita

battitori e predatori primordiali

dilatati nel grande afflato cacciatore

proiettati sui mirabili acidi nucleici

di giungla primigenia.

Imbevuti d’adrenalina di scalpitanti

succhi gastrici provenienti dal pliocene

emoglobina fossile

ominazione avvenuta per processo predatorio

sul filo tagliente dell’ossidiana

meridiana del tempo che proietta ombre

D’australopitecus, Homo Erectus, CroMagnon,

Sapiens Sapiens a caccia di prede astrali:

creature innocenti catturate per coatto sacrificio

torturate ed immolate sulle are dello spasso

sul cuoio stesso dello scempio e della vita.

Ancestrale olocausto senza memoria

privo degli onori della storia, circoscritto

nel diverbio dei sassi e delle ortiche

del tutto indifferenti alle cricche del martirio

al massacro giornaliero degli agnelli

consumato nell’inquieta suggestione

di una recita sfornita di copione:

inconsapevoli come eravamo

della nostra chiara e trasparente crudeltà

proscritta ai fogli volanti di cambiale

alla pietà dei Monti scadenzati

sempre ai margini dei boom famigerati

 

(A quale dio delle borgate

ha unghiato

il suo dolore la lucertola scuoiata?

A quale dio delle suburre

ha guaito il suo tormento

il cucciolo straziato?)

 

E dopo quel flamenco di spasmi e contorsioni

quel tango strusciato tra carne e scorza

aspersi di sangue viola

risorgevamo candidi e puri come Catari

dalle acque fresche di ghisa fontanella

bevendo a garganella col fiato

ribattente sulle tempie accalorate

intrisa di sudore l’immancabile canotta

e la maglietta fregata alla colonia.

Bagnati fin sull’orlo dei calzoncini corti

e dei calzini accartocciati nel blu dei sandaletti

coi quattro buchi aperti sui giochi prediletti

inconsapevoli come eravamo

delle nostre emozioni tragiche

delle nostre anime feroci e magiche

 

 

Canti ravvicinati del terzo tipo

 

I

Crescevamo a latte fluorescente

calamitati dai fitti capezzoli

triforcuti esposti all’intemperie

come gracili scogliere

che invisibili maree frangevano

fin dentro un porto luminoso e labile

avamposto di un’onda parallela

che dopo Carosello

le valvole magnetiche del cielo

fluttuando nascondeva.

 

Ma forse era un gioco o un miracolo

dell’ombra, una frequenza visionaria

ambigua e refrattaria ai punti

di domanda, ai gusti calcolati

dei padri ragionieri, all’orizzonte

voluttuario del sole e della luna

stupore freddo della sala oscura

che gli sguardi trascinava via

in un battito di ciglia ansiose

scheletri del lampo

che nel breve svanire bianco

l’attenta retina spandeva

d’ossario fuoco e barlume antico

come parole capocchie di cerino

che sfregate sull’umido visivo:

“Klaatu barada nikto!

Klaatu barada nikto!”

s’accendevano del nuovo rito.

 

II

Acetate emozioni d’argento bluastro

l’osso della memoria cesellano

sugli schermi delle palpebre chiuse

come aurore boreali scintillano.

gettato nella mischia sbobinata

rinasco maschera di luce e di velluto

cono azzurrino della quinta dimensione

che mi colora e mi proietta altrove

e inganna il tempo che anfibio

mi nuota nella testa e la terra

calpesta dei miei poveri balocchi:

trastulli vulcaniani di logica puntuta

odissea di filastrocche

cinque note dello spazio

poemi dell’androide troppo…

troppo umano generato:

“Io ne ho viste di cose che voi umani

non potreste neanche immaginare:

navi da combattimento in fiamme

al largo dei bastioni di Orione

e ho visto i raggi B balenare nel buio

vicino alle porte di Tannhausere

e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo

come lacrime nella pioggia.

È tempo di morire.”

e la fradicia colomba in un frullo d’ali sciolte

al cielo riportò la mia traslata morte

 

 

MASADA

 

Non solo condottiero ma nell’ora più funesta

In voi m’adempio fratello e sorella padre e madre

figlio e figlia sangue del sangue carne della carne

e nel sacrificio e nello stento non so come chiamarvi

se stirpe benedetta vissuta nell’attesa delle stelle

o setta ribelle di un popolo caparbio redento dalla Legge

che adesso mentre dalle rive chiuse di un mare scuro

al deserto di Giudea la morte lo circonda

sull’alta rupe dentro la fortezza lotta e resiste ancora

e allora mi spiego che forse non c’è colpa

più tremenda della nostra agli occhi del nemico

che fuori delle mura combatte per vederci massacrati

o almeno arresi ai loro ferri ai loro numi ai loro fuochi

attaccati come schiavi alla stessa lingua piegati nella fede

sotto un cielo pagano glaciale e disperato

poiché fino a quando un odor di grano sarà nel nostro naso

o una stilla d’acqua ci bagnerà la gola

sotto assedio o nella veemenza degli attacchi quotidiani

dei Fretensis legionari

Gerusalemme bruciata distrutta e calpestata

pur nell’ora più gravosa noi saremo a casa

tempio e grande tenda mattone e cellula di tutte le nazioni

tra questi bastioni che hanno visto lo sfarzo corrotto delle corti

tra le ombre decadenti dei palazzi principeschi

tra i pensieri d’acqua e gli sguardi di pane fresco

lavora il fabbro giocano i bambini

dal fango il vaso prende forma ed ogni cosa è buona

 

Ma da questo sole fredda si proietta l’ombra del futuro

protesa fino all’orlo scosceso delle scelte dove

dolorosa nelle corde nere e tese dell’angoscia

risuona la preghiera delle madri

che nel tempo del sale e della polvere questa cinta

muro dopo muro sottratta all’odio ma per odio fatta nostra

sotto il tamburo battente delle colpe e delle offese

dissipata al fiato unghiuto del deserto

muta e indifferente lentamente crollerà e il bifido

serpente l’opportunista topo e l’infido scorpione

padroni torneranno degli anfratti e delle tane

signori indisturbati del vuoto e delle pietre

creature schive dell’ombra e delle crepe.

per questo nell’ora più cruenta non invoco

rabbia o ferro ma disarmato

di potenza pondero saggezza e temperanza

cerco il gesto debole e codardo l’atto di clemenza che

possa questo gioco dell’orgoglio render vano

e che le sentenze parlino di pace e tolleranza

che i nomi sugli ostraka senza altre conseguenze

se li mangino la sabbia e le formiche

che il pianto infine nell’ora estrema dell’alfa e dell’omega

confonda lo stratega e rimetta al sogno

mio sognato vittoriosa la speranza invece della guerra…

ma se il sole ancora sorge e poi tramonta

sul sentiero naturale dove ognuno camminando

ben distinta lascia sempre la sua impronta

ecco allora umana gente la Masada inespugnata

massiccia roccaforte della vita e della morte

impenetrabile bastione delle nostre eredità.

 

 

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da: Di corpi franti e scampoli d'amore

Edizioni Lietocolle  Faloppio (Como) 2004

 

dalla sezione: “Corpiloquio”

 

 

CADUCEO

 

Tra i rami del mio tronco s’attorciglia    sinuosa sindrome del cardioflusso

dragospasmo dell’albero afferente    (radice vestigiale del giardino)

che predace s’adunghia nel riflusso     zampillante di endogena rovina

 

satanasso del delta porporino   dell’intrico boscoso erubescente

serpeggiando s’insinua nell’incavo    la tana che s’addentra nel vivaio

sempre aperto di cellule e placente   perseguendo del giogo carnicino

 

la catena dello sperma e dell’ovaio    ma inerme non mi sento masticato

dai morsi inverecondi dell’angina    che ogni varco s’infatua della luce

sbrego e infarto sull’argine sbreccato    sul vallo dell’indomito carnaio

 

frattura sincopata che riluce  del veleno   ch’evolve in medicina

che già esisto nell’anse dei serpenti    contorta maschera della natura

nel doppio ambiguo di morte e vita    Nitore ed Ombra Castore e Polluce

 

codice d’una sacra imprimitura    matrice elicoidale dei viventi

dal grumo di materia all’esistenza    Caducèo motore del divino

che del tempo rivela le correnti    della mia carne la caverna scura

 

della norma il mutevole destino    biomitica molecola d’essenza

 

 

VERSI DI CORPI

 

Nel corpo vanto

un gorgo misticeto

un urlo bianco

 

 

CORPI DI-VERSI

 

Un corpo crotalo che al mondo crepita

l’algoritmo caudato del suo nulla

trillo strisciante d’una morte acuta

retrattile tossina che s’inerpica

 

e sotto i ciottoli ripone pelvica

abbondanza di quel che sempre muta

scagliogramma di scienza biforcuta

per sistole e per diastole d’estetica

 

segnato sulle dune della mente

papiro sensoriale d’un dio scriba

stellato codice in astro rasente

 

nei cieli della carne mi trascina

come una ritorsione delle vene

dal calcagno s’abbatte sulla spira

 

 

GRASSO A TUTTO

 

Causa di tutto l’enfia e rovinosa

ascesa del glucosio e del colesterolo

a fomento dei grassi insaturi e superflui

a questo sopore tranquillo

della ragion smagrita e sottintesa

al Minotauro obeso e deliziato

della facoltà a lui concessa

di digerire senza patimento

Il bolo più scabroso

che insano indugia sul palato

e dolce si confonde col languore

che papille e cellulite

camuffo nel molleggio postmoderno

di questa pancia incline

all’intimo paffuto

scavato nell’addome

che del cibo dischiude la tempesta

l’ulcerosa buriana dello stomaco

dell’ittero svasato che rielabora

segnali di pieno e di vuoto

pulsione concessa all’adipe che mi lega

a questa fame cronica

fino a trangugiarmi corrotto

nelle ricette insalubri

della vaniglia e dello zabaione

 

L’ingordigia precorre i condimenti

e masticando mi sommuove e mi precede

per ventresche guanciali e coratelle

pannicoli di un cuore cupidigia

bagordi e vettovaglie di un mai sazio vendicare

gozzoviglio dell’orda crepapelle

che bramosie indica

all’orco dissoluto

che sniffa e sbava per le spoglie ghiotte

del lardo e della carne

per le superbe e succulente glorie

del paiolo sulle fiamme

 

 

NOVEMBRINA

 

Il verso novembrino della pioggia

che per lagune e ragnatele

di svaporati e immateriali suoni

infine tra gli anfratti della mente sgocciola

l’umido cicaleggio del pensiero

sfrangiato in mille rivi e cascatelle

che zuppo langue tra le faglie della scienza

 

E verità sconfessa

e rosso s’accalora

se viene rivelato

 

(Dell’ingegno)  acquangelo battente

ribelle al ciclo del carbonio

al grezzo precipizio di materia

crudele susseguirsi delle forme

ricalco della melma e dell’argilla

che nel rintocco della morte scioglie

spiovuta recita dell’ultima preghiera

 

E libertà rigetta

e corvo poi s’invola

se viene rinnegato

 

dalla sezione: “Guarigioni transitorie”

 

 

DEL MIO GUASTO AMORE

 

1.

Eppur mi bagno

amor di nembo

stracarico di pioggia

febbre d’acqua che sulla pelle scroscia

goccia dopo goccia t’aspetto nella pozza

ardore sovvertito alla caloscia

che viscido diguazza e non si lorda

 

2.

Eppur ti guado

amor di fiume

scalpello di frangente

furore sciabordante che riluce

di sguardi divelti e labbra alluvionate

convertite all’utero del gorgo

travaglio d’acqua doglia di sorgente

 

3.

Eppur mi volto

amor di grotta

passione di caverna

che gli anfratti oscuri della roccia

e della terra, esplorando, mi trascino

come un sogno crinito di cometa

che nel buio precede l’innocenza

 

4.

Eppur mi sazio

amor di pane

profumo del buon desco

respiro bianco a nuvole di grano

croccante e soffice peccato che di notte

nella carne lievita e appena caldo

divorato svanisce a colazione

 

5.

Eppur ti leggo

amor di-lemma

parola fuori schema

lingua sciolta dell’ira e della pena

che brividi nascosti e fremiti di rosa

per linfa di favella dalla bocca

sempre aperta mi sbrodola maldestra

 

6.

Eppur ti cerco

amor presente

amor t’aspetto sempre

tra le bombe cadute silenziose

nel vuoto aggiunto dei crolli e dei crateri

veggente prigioniero dei misteri

t’aspetto tra le rose e le rovine

 

 

Gemello lupo fratello capriolo *

 

Guerriero circonfuso  coscritto disertore

proiettile loquace  nell’armeria ventosa

sbreccato da erosione  nel plesso mi dirupo

per sindrome cretosa  s’impetra il mio torace

e sfiato in frana luce  asmatico declivio

abraso precipizio  di croci e falcilune

 

per cui sicario in pectore  vittima e aguzzino

non posso mio malgrado  carne midollo e colpa

massacrarmi per destino  nel sangue dell’iperbole

nell’osso della truppa  costringermi piagato

perché sin troppo fragile  è il corpo dell’ignoto

frattaglie sotto vuoto  dell’aldilà voragine

 

che implode e si dilania  configge dall’interno

scritture e sacramenti  Demiurgo delle spine

dei rovi dell’inferno  sull’isola Moicana

sbrandelli le pupille  Matrioska dei serpenti

dei torti e le ragioni  mammella della selva

allatta la mia belva  ma salva i caprioli

 

 

*(scritta sull’onda emotiva dell’11 settembre)

 

 

Stupor di banditori

 

Segmento d’acrocori e spioventi logge

confine di quel filo-siepe che ci avvolge

ben oltre la materia acclusa all’infinito

galvanizzato scorcio stortile e sfinito

mareggio travertino a flutto di ringhiera

che sagomata pinna d’orca betoniera

sull’onda ritmica degli orizzonti quadri

si staglia profilando marmi e caseggiati

lotti di un’asta sempre aperta di coscienza

dove sottace il banditore e senza tregua

rituona un artefatto battere d’oggetti

fantasmi immemori dei cocci desideri

persi all’incanto d’una Cairo occidentale

poco tollerante al crogiolo delle razze

al circo quotidiano promo degli intenti

stupor di folla sperperata sui trapezi

trucco del coniglio che spunta dal cilindro

e spesso mi sovverte oh cuore prenestino

oh micio personaggio amor di mamma gatta

che sottosotto mi sollazza e mi riscatta

e di notte si lascia pure accarezzare

randagia a sette gobbe e coda circolare

 

da: “ L'ORDINE BISBETICO DEL CAOS”

Edizioni Lietocolle  Faloppio (Como) 2007

 

 

Controluce

 

Che luce mia

s’intarsi per l’inverso

al bosco umbratile

 

allo stormire oscuro

di rami e foglie

sull’argine dell’alba

 

e l’ombra mia

si stagli per intero

sull’assolato

 

convegno delle forme

sul lato acceso

che eredita la notte

 

 

Genesi

 

Caos che nasce dalle fondamenta

vacilla sfrigola e concreto cristallizza

sintetizzando in scopi ignoti un universo

esposto e risoluto che nel guscio

dell’alte forze e delle discipline tribola

 

Accado nel sottrarmi o sottostare

a quel congegno lucivago dell’erranza

incanto della fisica compiuta

radice quadra della legge e del disordine

acqua della placenta accelerata

che il nulla mal s’accosta

al pieno che sprigiono

 

e sono tenebra che luce inchioda

all’esistenza

e sono il raggio che s’espande

e la dissipazione in sé trasporta

lucerna dello spirito

e della stella rosa

morte impietosa che si fa dimora

 

 

Katrina

 

Salsedine alghe vive moti ardenti

maglio di luce sull’incudine del mare

se cumuli forgiati in ruvide torsioni

annuvolata meraviglia

esasperato crisma

se l’occhio il grande fiume avventa

se a làtere quell’ombra

se a margine lo sguardo

se bocca della quiete cardine s’ingegna

a torvo sortilegio

che vortica maligno e sogni sradica

dai fasti della carne

pupilla incarognisce di palude

e coda tra le zanne

crettato alligatore

espugna la barriera

e nell’impluvio mastica la vita

sul filo amniotico dell’arroganza

che il fine rende vana la carcassa

ed argine sicuro è ossame di sbilancio

carcame puntiglioso che minaccia l’urna

al tempo dell’incanto.

 

Al netto delle cronache mondane

tra fuoco e fango

tra plasma e plasma

tra sponda e sponda

tra l’onda impura

e l’acqua marcia

a grumi provvisori

passando per la cruna

al mondo delta creolo

un po’ del nostro sangue

un po’ del nostro lutto

appena in tempo…

che carnevale affiora.

 

Ancora

 

 

Nero di stella

 

Gorgo di supernova, antro di luce implosa

recrudescenza oscura d’una vibrazione

che intensa la materia da materia ingloba

come un affanno, un’ansia estrema d’attrazione

utero, abisso, luce eterna che s’infoiba

onda massiva, chiodo della sottrazione

che nero e pervasivo come un vuoto carsico

crudo s’infiltra nel midollo aminoacido

 

 

Lucy

 

1.

Vigilia in luce etiopica

adorna mondi per commedia d’uomini

ricurvi su un proscenio informe della vita:

reincarnando tracce stazioni erette

reami a dislocare

che genitrice oscura,

madre irsuta dal cuore indecifrabile

caduta tra le melme o forse un lago

in un cielo risorta all’improvviso

di acustici diamanti

allucinati voli

bizzarri idiomi e ciglia a spennellare,

tornando adombra un grembo di sequenza

ad archiviarci in ossa e cranio calibrato

ornati per frammenti

canini i denti ed altre connivenze

 

2.

ovunque sia… ovunque sia la faglia

il peso della razza

figliastro di placenta

sfiguro nella teca

che passeggio coevo per Laètoli

per quel mare tranquillo di basalto

con passo primordiale

ad incrostarmi cenere

con balzo d’allunaggio

a congedarmi fossile pedestre

inverno della specie

impronta di natura ristagnante

orma di sangue congelato

bastione di biosfera

a ruggine terrena

a mordere nel vento

cinquantadue segreti di memoria

compresi i sogni ed altre ridondanze

 

3.

Oh Denkenèsh tu sei magnifica

di vita in ogni istante viva

di sguardo acuto che assedia l’orizzonte

sull’ardua cresta degli arbusti in passerella

sull’orlo di savana che si accalca

e non si eleva all’alba o cade nel crepuscolo

ma ogni viva essenza

conduce a suo barlume

quando ilbuio rapisce la materia

e ovunque brilla l’occhio della fiera.

Oh Denkenèsh sprofondo di sorgente

antro corallino della mente

gola stretta all’origine del tuono

lampo di voce roca d’un cielo muto

vuoto d’immagini e divine somiglianze

meravigliosa Lucy

in piedi al centro della scena

compresi i polsi ed altre militanze

 

4.

Caducente madonna delle ossa

perdona il mio cordone ombelicale

avvezzo a trasudare

umane screziature

antropiche fratture solchi di safena:

esose mappature della psiche.

Perdona di grazia l’invaso

limite di salvezza

il furto delle stelle

da parte della mano

perdona con riserva d’estuario

la strenua resistenza delle cose

all’occhio che distilla

al moto ondulatorio della lingua

bacino brulicante

del nocciolo corrente

compreso il logo ed altre supponenze

 

5.

Se inferno o paradiso era l’istante

l’organico scorrente

l’instabile confine tra le foglie

oh esigua matriàrca della specie,

di pelle e muscoli scimmieschi

tracimata sull’incrocio progredito

delle tibie dei femori smaltati

sulle quattro patelle d’ossa in oro

e argento, sul granello dell’altare

vessillo della polvere

che dentro questo vento di tumori

questo teschio roboante

obliquo sventola,

conforta di grazia l’eretto

elettrico cosciente

assiso sotto l’albero di luce

comprese le falene ed altre provvidenze

 

6.

Che sia groviglio fitto di radici

o ramo che biforca all’infinito

che sia linfa o latte del tuo seno

corteccia fiore o frutto maturato

fogliame di giaciglio

albero del nostro bene

ovvero l’albero del nostro male

invero resina

ambra che ingemma i tuoi pensieri arcaici

residua dottoressa del pliocene

insegna dalla cattedra selvaggia

a questi corpi tossici

a questi lombi passeggeri

a questi spazi inconsistenti

l’onere inconsolabile del transito

che ad ogni passo l’alluce si piega

dal mondo ci solleva

per ricondurci a terra

compresi i troni e nuove tracotanze

 

7.

Pendolo magico dell’andatura

baricentro quell’àncora che dondola

creatura eretta

tra scorza e vento

barcolla la stazione

nei corpi stride intera la colonna

e incognito destino,

che sogni liquido tra fondo e superficie,

è privo della lisca

vescica e cartilagini inattese.

Neppure un corpo di mollusco, polpo

attinia o verme. Dispersione pura

informe alla corrente:

fosfene sillabario

rumore bianco di nevischio

nomignoli del fuoco

comprese le tempeste ed altre luminarie