Gabriele Pepe è nato a Roma il 14/11/1957 dove risiede. Email This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Roma Ha pubblicato i seguenti libri: Parking Luna, Arpanet Milano 2002; Di corpi franti e scampoli d’amore; L’ordine bisbetico del caos, 2007. È presente nell’antologia Ogni parola ha un suono che inventa mondi, Arpanet Milano 2002 e nell’antologia Fotoscritture Lietocolle, 2005; è presente nell’antologia Poesia del dissenso ii a cura di Erminia Passannanti – Joker 2006 e presente nel progetto Mini concepts arte. Guernica dopo Guernica. Filamento di tungsteno di Gabriele Pepe Roberto Vaccari edito da Arpanet, 2006
da: “Poiesis” (numero doppio 26/27 2002/2003, rubrica “Recensioni” pag.117) Edizioni Scettro del Re Due recensioni a cura di Giorgio Linguaglossa
Gabriele Pepe – Parking Luna, Arpanet 2002
Gabriele Pepe è nato a Roma nel 1957, fa parte quindi dell’ultima generazione, quella che è venuta dopo che si è spezzato il filo generazionale e culturale che legava la Tradizione al Nuovo. E questo punto è importante per capire quali siano gli elementi di novità che un poeta quarantenne porta nell’ambito dell’arco costituzionale letterario. In una lettera di autopresentazione che accompagna il libro Pepe in ordine ai motivi che lo hanno spinto, a fare poesia, scrive: “Di certo è qualcosa che nasce da un cattivo rapporto dell’interno con l’esterno, da una particolare disarmonia psicofisica che cerca nella poesia una sua propria ricomposizione etica estetica. Non ho verità da rivelare, né balsami salvifici da proporre o grandi messaggi da lasciare ai posteri. Ognuno scrive partendo da suo microcosmo personale e offre al viandante interessato un altro tra gli innumerevoli paesaggi che la vita ci mette a disposizione”. Dunque è chiaro: nessuna certezza, o meglio, v’è solo la certezza dell’interrogazione senza neanche la consapevolezza dell’identità: “Che rotte tracciare sulle mappe oscure?”;”Sono il viaggio o il viaggiatore?”. Poesia che fonda la propria impermanenza sulla sovranità del dubbio che non lascia spazio alcuno ad alcun tipo di viandanza o di ricerca. Pepe non cerca nessun Graal, la sua parola non ha, né vuole avere il nitore della poesia della generazione anche immediatamente precedente, egli non assevera più alla maniera degli “iconoclasti” dell’Opposizione permanente ormai divenuta Accademia del conformismo. Il suo fraseggio è inelegante, il lessico irto e semanticamente irregolare e cacofonico; il parlato è tipicamente “post-moderno”, nella misura in cui vi entra di tutto, dalla media koinè del linguaggio tecnologico dei depliant: “le valvole magnetiche del cielo”, a delle splendide invenzioni metaforiche inquinate sempre da reperti tipicamente post-avanguardistici (“Psicopupilla nel lusco del brusco”); iperboli urticanti: “Gola sbiellata grippato polmone”. Trattasi di “Tangibili versetti psicotici” tratti dal “semema brodo primordiale” in forma di finto “diario”: “Tutto s’inquadra lungo le torri del grande bordello”. Ovviamente, il libro non è un “diario” più che non sia un arcipelago, un luna-park (come ammicca l’autore nel titolo),un gigantesco “bordello” entro il quale sono state devitalizzate le tradizionali ragioni etiche ed estetiche che, in qualche modo, giustificavano in passato l’attività letteraria. Pepe (come tutta la poesia consapevole del nostro tempo) non ha altra scelta dinanzi a sé: o assecondare il moto di deriva delle poetiche epigoniche (prodotto inevitabile del Novecento); oppure tentare di ricostruire un senso, una direzione della ricerca, e quindi ricostruire un nuovo patto tra etica ed estetica. Di qui non si scappa, le strade sono due, e non è detto che siano intercambiabili, come taluno da qualche parte lascia intendere. Poesia tutta di nervi ed istintiva è stato detto da qualche critico, poesia venata da una primordialità di espressione volutamente cacofonica e dissonante. Tuttavia, a mio avviso,non è detto che Pepe non riesca magistralmente quando si attesta su un versante più “tradizionale”come nel mirabile incipit: “Non posso che annegare/ Nel mezzo del tuo sguardo strepitante! Oh fiume giallo del viandante! Trappola muraria/Marmorea corrente alluvionale”, dove le sinapsi di senso sono costellate da tutta una serie di mosse da cavallo di sklovskijana memoria. Pepe è un esperto dell’arte di inserire le “variazioni” e i crudelismi, eccelle nel provare tutto il pentagramma delle sue possibilità espressive, non escluse le tematiche da “interno domestico : Ondeggio barcollo/ Cerco un appoggio/Ma il frigo bastardo mi ronza codardo/ Su un palmo di mano”; tutto ciò premesso, credo che nel futuro il poeta dovrà scegliere: tra vitalismo e angoscia esistenziale, oppure la via che lo condurrà inevitabilmente ad un certo grado di stilizzazione.
L’ordine bisbetico del caos Faloppio, LietoColle, 2007 pp. 70 € 10,00
Recensione di Giorgio Linguaglossa: le eccedenze stilistiche del materiale di risulta
Un certo tipo di cultura che ha attraversato in diagonale il Novecento ha sostenuto la validità estetica ed epistemologica del «caos» inteso come una nuova e diversa modalità dell’ «ordine». Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: quell’Opposizione permanente che è diventata un’industria, per una beffa da coccodrillo, si è rivelata una vera e propria fabbrica del consenso. Dunque, «caos» come opposizione al «ritorno all’ordine», «caos» come “nuovo” modello estetico ed esperiente che si contrappone al modello recipiente e conservativo delle forme estetiche pregresse. Quella medesima cultura quindi che ha proclamato la politicizzazione e la scientificizzazione del «caos» quale vettore produttivo di una nuova e diversa legislazione del disordine, è quella medesima cultura che ha prodotto la contro-lirica da hilarotragoedia della anti-poesia di Gabriele Pepe, sin dal suo primo apparire con Parking Luna (ARPAnet, 2002) e Di corpi franti e scampoli d’amore (LietoColle, 2004), fino a quest’ultima opera: L’ordine bisbetico del caos.
È terminato così il ciclo della trilogia della poesia di Gabriele Pepe, dopo la quale il poeta romano appare orientato verso una “nuova” poesia che non considera più centrale il significante e il piano semantico rispetto al significato e il semantico rispetto all’iconico-simbolico L’ordine bisbetico del caos può essere considerato il tipico prodotto artistico di un poeta giunto alla completa maturità stilistica entro l’orizzonte di attesa della cultura cosiddetta post-modernistica che, parodisticamente, fa capo all’australopiteco Afarensis, «che diventa, in Pepe, la “madonna delle ossa”, la “genitrice oscura”, “l’esigua patriarca della specie/ di pelle e muscoli scimmieschi”» (dalla prefazione di Stefano Guglielmin).
In una certa accezione, L’ordine bisbetico del caos rappresenta il prodotto tipico di una cultura giunta alle soglie della sua estrema belligeranza, in quel crinale che divide il «vecchio» dal «nuovo», in quel vuoto d’aria che separa due atmosfere. L’instabilità, il moto desultorio e sussultorio, la friabilità semantica di questa poesia rammenta e richiama l’imponderabilità, la rarefazione, il dis-orientamento semantico e significazionista del mondo delle merci linguistiche. Poesia che si muove all’interno di una zona franca delimitata dalla crisi della cultura del post-sperimentalismo e territorio che si estende verso l’ignoto stilistico di ciò che è linguisticamente possibile all’interno della cultura del post-sperimentalismo. Da un lato, Gabriele Pepe tenta la strutturazione in un rigoroso ordito metrico delle materiche escrescenze del «caos», dall’altro tenta astutamente di sobillare l’ordine con un materiale di risulta sempre eccedente rispetto al “recipiente” metrico, con il risultato di una eccedenza del materico sul metrico, un procedere attento a due fuochi, facendo un passo avanti ed uno indietro, con il risultato di un movimento “finto”, che non conduce né avanti né indietro, né a destra né a sinistra, né in un luogo né in un non-luogo. Un movimento dunque “finto”, in una sorta di specularità degli specchi in quella sezione denominata Referto degli specchi, che costituisce il momento centrale del volume, ed anche il momento “curiale” del volume, per quel sentore di “curia” che traspare dalla orditura ipersemantizzata dei testi. Resta il fatto inconcusso che un elevato gradiente di olismo stilistico non può sottacere la “barbarie” di una cultura che ha “fatto” la democrazia di massa dei nostri giorni. In soldoni, l’olismo stilistico di opere come questa di Gabriele Pepe, è il prodotto di uno «sperimentalismo privato» e di un impulso mimetico verso l’individualismo stilistico esasperato. Tanto più esasperato quanto più «privato». E viceversa.
da. Parking luna
Edizioni Arpanet (Milano) 2002
IL PUNTO
Longitudine e latitudine mia
bussola cervello astrolabio cuore
sestante del dolore cometa e scia
onda terra Ulisse Polifemo
che rotte tracciare sulle mappe oscure?
croce del sud orsa minore estremo
sfiato di balena tosse di luce
sono il viaggio oppure il viaggiatore?
EPIDEMIA
La mia casa è infetta
parete calcinata
mattone pizzicato
fazioso e condannato.
la mia casa è chiusa. Chiusa alla magia
chiusa al destino all’ospite inatteso
al portico al vetro
a lampade nel retro.
La mia casa è demenza
roipnol eroico dell’invadenza
clonazione del reale
l’odore penetrante
sparato dalle fiale
soggetta alla carogna
seguace del rimorso
epidemia scommessa
di grazia e di conforto
BANANE LUMINOSE
È denso vorticare questa notte
notte cruda scannata sul rumore
lucida e tagliente di parole
sguainate come lame dagli abissi
del livore. Voragine e crepaccio
dove s’increspa l’ombra del dolore
precipita la ghiaia dei giudizi
È notte sul frullato di banane
dolce plasma rugiada di potassio
medicinale candido e soave
che spegne la mia sete artificiale
ambrosia della palma e della luna
sorriso della polpa e della buccia
che ogni pegno ed ogni scaramuccia
m’aiuta a sopportare. E pietraie
dove Odio raduna le sue mandrie
e serate dissolte ad aspettare
che la cura agisse sul mio male
notte oscura sovrana dei miei lupi
squillo d’acqua filtrata dai dirupi
risucchio spadaccino della vena
artiglio voluttuoso della belva
che il gioco e la candela mi nasconde
dentro i gorghi vermigli dell’amore
cui m’avvito Derviscio danzatore
Lacci neri sul braccio della notte
vibrisse prolungate sulla morte
morte dell’aria morte del mio karma
descritto tra le righe del pigiama
pellegrino che irrompe nel mio dramma
quando spillo di stella sullo schermo
di tenebra m’accascio e stingo via
(ma insolente nel ciclo circadiano
rimango rifugiato come tigre
di peluche nel parco inanimato)
Narici della notte come grotte
sul volto scheletrito della morte
morte del soffio morte dell’occaso
travaso pettorale del monsone
che vischioso s’espande nel mio fato
quando nera pupilla di ciclone
venticello mi sfiato e sbuffo via
(ma imboscato nel nido del malato
rimango accovonato come l’ago
del pagliaio perduto e mai trovato)
Spiga su spiga sangue verso sangue
la triste mietitura della carne
che lotta senza posa per restare
reclama le sue rughe centenarie
sorrisi sganasciati nel bicchiere
artrosi cataratte e asciutte vene
e se proprio deve andare pretende
per sé stessa l’intero capezzale
allora non è morte che ho sfiorato
a quest’ora sfocata della notte
ma nevose montagne dello Sherpa
che passo dopo passo ho superato
fedele scalatore del mio inganno
Gabriele Pepe
Corrente capitale
Non posso che annegare
nel mezzo del tuo guado strepitante
oh fiume giallo del viandante
trappola muraria
marmorea corrente alluvionale
dell’uomo costrittore
né posso galleggiare o fingermi frammento
scheggia rosacarne tessera
d’un mosaico di vetro sotterrato
di cui ignoro origine e trapasso
eppure a te m’accosta il formicaio
la giostra del mio palio
volumetria d’ameba sopravvissuta
ai laterizi di una Capitale Santa
che ingloba futuri pezzi di sé
e di me l’intero strazio
carico del tuo svanire bianco
oh annosa pietra sfarinata
sulla torta settimin
BESTIARIO
Periferiche macchie di sterpaglie ondulavano
rachitiche tra i polpacci minorili. Sciamavano
di chiassose devastazioni canaglie. Schioccavano
di lame e lungimiranti fionde
dal ramo biforcuto visibile a stento
sul groviglio spento dell’asfalto cinerino
nude brughiere urbane oscillavano
di un’onda floreale sulle rive peperine. Diluviavano
di sguardi maliziosi
sopra l’orizzonte criptico e frastagliato
a noi troppo alieno
troppo dispersivo nel suo slancio abusivo
inconsapevoli come eravamo
della nostra tersa e cristallina violenza
proscritta alle scaglie dei muretti, alla ruggine
tetanica dei paletti del filo tremulo
che spinato e attorcigliato sui rigori della legge
saldava i riarsi pratoni sconci
le scoscese marane secche alle razzie
intransigenti di cucciole cittadinanze precarie
che sotto un trancio indifferente di cielo scaleno
bruciavano veleno e tossine di branco
ossa e cartilagini di mandria rinselvatichita
battitori e predatori primordiali
dilatati nel grande afflato cacciatore
proiettati sui mirabili acidi nucleici
di giungla primigenia.
Imbevuti d’adrenalina di scalpitanti
succhi gastrici provenienti dal pliocene
emoglobina fossile
ominazione avvenuta per processo predatorio
sul filo tagliente dell’ossidiana
meridiana del tempo che proietta ombre
D’australopitecus, Homo Erectus, CroMagnon,
Sapiens Sapiens a caccia di prede astrali:
creature innocenti catturate per coatto sacrificio
torturate ed immolate sulle are dello spasso
sul cuoio stesso dello scempio e della vita.
Ancestrale olocausto senza memoria
privo degli onori della storia, circoscritto
nel diverbio dei sassi e delle ortiche
del tutto indifferenti alle cricche del martirio
al massacro giornaliero degli agnelli
consumato nell’inquieta suggestione
di una recita sfornita di copione:
inconsapevoli come eravamo
della nostra chiara e trasparente crudeltà
proscritta ai fogli volanti di cambiale
alla pietà dei Monti scadenzati
sempre ai margini dei boom famigerati
(A quale dio delle borgate
ha unghiato
il suo dolore la lucertola scuoiata?
A quale dio delle suburre
ha guaito il suo tormento
il cucciolo straziato?)
E dopo quel flamenco di spasmi e contorsioni
quel tango strusciato tra carne e scorza
aspersi di sangue viola
risorgevamo candidi e puri come Catari
dalle acque fresche di ghisa fontanella
bevendo a garganella col fiato
ribattente sulle tempie accalorate
intrisa di sudore l’immancabile canotta
e la maglietta fregata alla colonia.
Bagnati fin sull’orlo dei calzoncini corti
e dei calzini accartocciati nel blu dei sandaletti
coi quattro buchi aperti sui giochi prediletti
inconsapevoli come eravamo
delle nostre emozioni tragiche
delle nostre anime feroci e magiche
Canti ravvicinati del terzo tipo
I
Crescevamo a latte fluorescente
calamitati dai fitti capezzoli
triforcuti esposti all’intemperie
come gracili scogliere
che invisibili maree frangevano
fin dentro un porto luminoso e labile
avamposto di un’onda parallela
che dopo Carosello
le valvole magnetiche del cielo
fluttuando nascondeva.
Ma forse era un gioco o un miracolo
dell’ombra, una frequenza visionaria
ambigua e refrattaria ai punti
di domanda, ai gusti calcolati
dei padri ragionieri, all’orizzonte
voluttuario del sole e della luna
stupore freddo della sala oscura
che gli sguardi trascinava via
in un battito di ciglia ansiose
scheletri del lampo
che nel breve svanire bianco
l’attenta retina spandeva
d’ossario fuoco e barlume antico
come parole capocchie di cerino
che sfregate sull’umido visivo:
“Klaatu barada nikto!
Klaatu barada nikto!”
s’accendevano del nuovo rito.
II
Acetate emozioni d’argento bluastro
l’osso della memoria cesellano
sugli schermi delle palpebre chiuse
come aurore boreali scintillano.
gettato nella mischia sbobinata
rinasco maschera di luce e di velluto
cono azzurrino della quinta dimensione
che mi colora e mi proietta altrove
e inganna il tempo che anfibio
mi nuota nella testa e la terra
calpesta dei miei poveri balocchi:
trastulli vulcaniani di logica puntuta
odissea di filastrocche
cinque note dello spazio
poemi dell’androide troppo…
troppo umano generato:
“Io ne ho viste di cose che voi umani
non potreste neanche immaginare:
navi da combattimento in fiamme
al largo dei bastioni di Orione
e ho visto i raggi B balenare nel buio
vicino alle porte di Tannhausere
e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.”
e la fradicia colomba in un frullo d’ali sciolte
al cielo riportò la mia traslata morte
MASADA
Non solo condottiero ma nell’ora più funesta
In voi m’adempio fratello e sorella padre e madre
figlio e figlia sangue del sangue carne della carne
e nel sacrificio e nello stento non so come chiamarvi
se stirpe benedetta vissuta nell’attesa delle stelle
o setta ribelle di un popolo caparbio redento dalla Legge
che adesso mentre dalle rive chiuse di un mare scuro
al deserto di Giudea la morte lo circonda
sull’alta rupe dentro la fortezza lotta e resiste ancora
e allora mi spiego che forse non c’è colpa
più tremenda della nostra agli occhi del nemico
che fuori delle mura combatte per vederci massacrati
o almeno arresi ai loro ferri ai loro numi ai loro fuochi
attaccati come schiavi alla stessa lingua piegati nella fede
sotto un cielo pagano glaciale e disperato
poiché fino a quando un odor di grano sarà nel nostro naso
o una stilla d’acqua ci bagnerà la gola
sotto assedio o nella veemenza degli attacchi quotidiani
dei Fretensis legionari
Gerusalemme bruciata distrutta e calpestata
pur nell’ora più gravosa noi saremo a casa
tempio e grande tenda mattone e cellula di tutte le nazioni
tra questi bastioni che hanno visto lo sfarzo corrotto delle corti
tra le ombre decadenti dei palazzi principeschi
tra i pensieri d’acqua e gli sguardi di pane fresco
lavora il fabbro giocano i bambini
dal fango il vaso prende forma ed ogni cosa è buona
Ma da questo sole fredda si proietta l’ombra del futuro
protesa fino all’orlo scosceso delle scelte dove
dolorosa nelle corde nere e tese dell’angoscia
risuona la preghiera delle madri
che nel tempo del sale e della polvere questa cinta
muro dopo muro sottratta all’odio ma per odio fatta nostra
sotto il tamburo battente delle colpe e delle offese
dissipata al fiato unghiuto del deserto
muta e indifferente lentamente crollerà e il bifido
serpente l’opportunista topo e l’infido scorpione
padroni torneranno degli anfratti e delle tane
signori indisturbati del vuoto e delle pietre
creature schive dell’ombra e delle crepe.
per questo nell’ora più cruenta non invoco
rabbia o ferro ma disarmato
di potenza pondero saggezza e temperanza
cerco il gesto debole e codardo l’atto di clemenza che
possa questo gioco dell’orgoglio render vano
e che le sentenze parlino di pace e tolleranza
che i nomi sugli ostraka senza altre conseguenze
se li mangino la sabbia e le formiche
che il pianto infine nell’ora estrema dell’alfa e dell’omega
confonda lo stratega e rimetta al sogno
mio sognato vittoriosa la speranza invece della guerra…
ma se il sole ancora sorge e poi tramonta
sul sentiero naturale dove ognuno camminando
ben distinta lascia sempre la sua impronta
ecco allora umana gente la Masada inespugnata
massiccia roccaforte della vita e della morte
impenetrabile bastione delle nostre eredità.
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da: Di corpi franti e scampoli d'amore
Edizioni Lietocolle Faloppio (Como) 2004
dalla sezione: “Corpiloquio”
CADUCEO
Tra i rami del mio tronco s’attorciglia sinuosa sindrome del cardioflusso
dragospasmo dell’albero afferente (radice vestigiale del giardino)
che predace s’adunghia nel riflusso zampillante di endogena rovina
satanasso del delta porporino dell’intrico boscoso erubescente
serpeggiando s’insinua nell’incavo la tana che s’addentra nel vivaio
sempre aperto di cellule e placente perseguendo del giogo carnicino
la catena dello sperma e dell’ovaio ma inerme non mi sento masticato
dai morsi inverecondi dell’angina che ogni varco s’infatua della luce
sbrego e infarto sull’argine sbreccato sul vallo dell’indomito carnaio
frattura sincopata che riluce del veleno ch’evolve in medicina
che già esisto nell’anse dei serpenti contorta maschera della natura
nel doppio ambiguo di morte e vita Nitore ed Ombra Castore e Polluce
codice d’una sacra imprimitura matrice elicoidale dei viventi
dal grumo di materia all’esistenza Caducèo motore del divino
che del tempo rivela le correnti della mia carne la caverna scura
della norma il mutevole destino biomitica molecola d’essenza
VERSI DI CORPI
Nel corpo vanto
un gorgo misticeto
un urlo bianco
CORPI DI-VERSI
Un corpo crotalo che al mondo crepita
l’algoritmo caudato del suo nulla
trillo strisciante d’una morte acuta
retrattile tossina che s’inerpica
e sotto i ciottoli ripone pelvica
abbondanza di quel che sempre muta
scagliogramma di scienza biforcuta
per sistole e per diastole d’estetica
segnato sulle dune della mente
papiro sensoriale d’un dio scriba
stellato codice in astro rasente
nei cieli della carne mi trascina
come una ritorsione delle vene
dal calcagno s’abbatte sulla spira
GRASSO A TUTTO
Causa di tutto l’enfia e rovinosa
ascesa del glucosio e del colesterolo
a fomento dei grassi insaturi e superflui
a questo sopore tranquillo
della ragion smagrita e sottintesa
al Minotauro obeso e deliziato
della facoltà a lui concessa
di digerire senza patimento
Il bolo più scabroso
che insano indugia sul palato
e dolce si confonde col languore
che papille e cellulite
camuffo nel molleggio postmoderno
di questa pancia incline
all’intimo paffuto
scavato nell’addome
che del cibo dischiude la tempesta
l’ulcerosa buriana dello stomaco
dell’ittero svasato che rielabora
segnali di pieno e di vuoto
pulsione concessa all’adipe che mi lega
a questa fame cronica
fino a trangugiarmi corrotto
nelle ricette insalubri
della vaniglia e dello zabaione
L’ingordigia precorre i condimenti
e masticando mi sommuove e mi precede
per ventresche guanciali e coratelle
pannicoli di un cuore cupidigia
bagordi e vettovaglie di un mai sazio vendicare
gozzoviglio dell’orda crepapelle
che bramosie indica
all’orco dissoluto
che sniffa e sbava per le spoglie ghiotte
del lardo e della carne
per le superbe e succulente glorie
del paiolo sulle fiamme
NOVEMBRINA
Il verso novembrino della pioggia
che per lagune e ragnatele
di svaporati e immateriali suoni
infine tra gli anfratti della mente sgocciola
l’umido cicaleggio del pensiero
sfrangiato in mille rivi e cascatelle
che zuppo langue tra le faglie della scienza
E verità sconfessa
e rosso s’accalora
se viene rivelato
(Dell’ingegno) acquangelo battente
ribelle al ciclo del carbonio
al grezzo precipizio di materia
crudele susseguirsi delle forme
ricalco della melma e dell’argilla
che nel rintocco della morte scioglie
spiovuta recita dell’ultima preghiera
E libertà rigetta
e corvo poi s’invola
se viene rinnegato
dalla sezione: “Guarigioni transitorie”
DEL MIO GUASTO AMORE
1.
Eppur mi bagno
amor di nembo
stracarico di pioggia
febbre d’acqua che sulla pelle scroscia
goccia dopo goccia t’aspetto nella pozza
ardore sovvertito alla caloscia
che viscido diguazza e non si lorda
2.
Eppur ti guado
amor di fiume
scalpello di frangente
furore sciabordante che riluce
di sguardi divelti e labbra alluvionate
convertite all’utero del gorgo
travaglio d’acqua doglia di sorgente
3.
Eppur mi volto
amor di grotta
passione di caverna
che gli anfratti oscuri della roccia
e della terra, esplorando, mi trascino
come un sogno crinito di cometa
che nel buio precede l’innocenza
4.
Eppur mi sazio
amor di pane
profumo del buon desco
respiro bianco a nuvole di grano
croccante e soffice peccato che di notte
nella carne lievita e appena caldo
divorato svanisce a colazione
5.
Eppur ti leggo
amor di-lemma
parola fuori schema
lingua sciolta dell’ira e della pena
che brividi nascosti e fremiti di rosa
per linfa di favella dalla bocca
sempre aperta mi sbrodola maldestra
6.
Eppur ti cerco
amor presente
amor t’aspetto sempre
tra le bombe cadute silenziose
nel vuoto aggiunto dei crolli e dei crateri
veggente prigioniero dei misteri
t’aspetto tra le rose e le rovine
Gemello lupo fratello capriolo *
Guerriero circonfuso coscritto disertore
proiettile loquace nell’armeria ventosa
sbreccato da erosione nel plesso mi dirupo
per sindrome cretosa s’impetra il mio torace
e sfiato in frana luce asmatico declivio
abraso precipizio di croci e falcilune
per cui sicario in pectore vittima e aguzzino
non posso mio malgrado carne midollo e colpa
massacrarmi per destino nel sangue dell’iperbole
nell’osso della truppa costringermi piagato
perché sin troppo fragile è il corpo dell’ignoto
frattaglie sotto vuoto dell’aldilà voragine
che implode e si dilania configge dall’interno
scritture e sacramenti Demiurgo delle spine
dei rovi dell’inferno sull’isola Moicana
sbrandelli le pupille Matrioska dei serpenti
dei torti e le ragioni mammella della selva
allatta la mia belva ma salva i caprioli
*(scritta sull’onda emotiva dell’11 settembre)
Stupor di banditori
Segmento d’acrocori e spioventi logge
confine di quel filo-siepe che ci avvolge
ben oltre la materia acclusa all’infinito
galvanizzato scorcio stortile e sfinito
mareggio travertino a flutto di ringhiera
che sagomata pinna d’orca betoniera
sull’onda ritmica degli orizzonti quadri
si staglia profilando marmi e caseggiati
lotti di un’asta sempre aperta di coscienza
dove sottace il banditore e senza tregua
rituona un artefatto battere d’oggetti
fantasmi immemori dei cocci desideri
persi all’incanto d’una Cairo occidentale
poco tollerante al crogiolo delle razze
al circo quotidiano promo degli intenti
stupor di folla sperperata sui trapezi
trucco del coniglio che spunta dal cilindro
e spesso mi sovverte oh cuore prenestino
oh micio personaggio amor di mamma gatta
che sottosotto mi sollazza e mi riscatta
e di notte si lascia pure accarezzare
randagia a sette gobbe e coda circolare
da: “ L'ORDINE BISBETICO DEL CAOS”
Edizioni Lietocolle Faloppio (Como) 2007
Controluce
Che luce mia
s’intarsi per l’inverso
al bosco umbratile
allo stormire oscuro
di rami e foglie
sull’argine dell’alba
e l’ombra mia
si stagli per intero
sull’assolato
convegno delle forme
sul lato acceso
che eredita la notte
Genesi
Caos che nasce dalle fondamenta
vacilla sfrigola e concreto cristallizza
sintetizzando in scopi ignoti un universo
esposto e risoluto che nel guscio
dell’alte forze e delle discipline tribola
Accado nel sottrarmi o sottostare
a quel congegno lucivago dell’erranza
incanto della fisica compiuta
radice quadra della legge e del disordine
acqua della placenta accelerata
che il nulla mal s’accosta
al pieno che sprigiono
e sono tenebra che luce inchioda
all’esistenza
e sono il raggio che s’espande
e la dissipazione in sé trasporta
lucerna dello spirito
e della stella rosa
morte impietosa che si fa dimora
Katrina
Salsedine alghe vive moti ardenti
maglio di luce sull’incudine del mare
se cumuli forgiati in ruvide torsioni
annuvolata meraviglia
esasperato crisma
se l’occhio il grande fiume avventa
se a làtere quell’ombra
se a margine lo sguardo
se bocca della quiete cardine s’ingegna
a torvo sortilegio
che vortica maligno e sogni sradica
dai fasti della carne
pupilla incarognisce di palude
e coda tra le zanne
crettato alligatore
espugna la barriera
e nell’impluvio mastica la vita
sul filo amniotico dell’arroganza
che il fine rende vana la carcassa
ed argine sicuro è ossame di sbilancio
carcame puntiglioso che minaccia l’urna
al tempo dell’incanto.
Al netto delle cronache mondane
tra fuoco e fango
tra plasma e plasma
tra sponda e sponda
tra l’onda impura
e l’acqua marcia
a grumi provvisori
passando per la cruna
al mondo delta creolo
un po’ del nostro sangue
un po’ del nostro lutto
appena in tempo…
che carnevale affiora.
Ancora
Nero di stella
Gorgo di supernova, antro di luce implosa
recrudescenza oscura d’una vibrazione
che intensa la materia da materia ingloba
come un affanno, un’ansia estrema d’attrazione
utero, abisso, luce eterna che s’infoiba
onda massiva, chiodo della sottrazione
che nero e pervasivo come un vuoto carsico
crudo s’infiltra nel midollo aminoacido
Lucy
1.
Vigilia in luce etiopica
adorna mondi per commedia d’uomini
ricurvi su un proscenio informe della vita:
reincarnando tracce stazioni erette
reami a dislocare
che genitrice oscura,
madre irsuta dal cuore indecifrabile
caduta tra le melme o forse un lago
in un cielo risorta all’improvviso
di acustici diamanti
allucinati voli
bizzarri idiomi e ciglia a spennellare,
tornando adombra un grembo di sequenza
ad archiviarci in ossa e cranio calibrato
ornati per frammenti
canini i denti ed altre connivenze
2.
ovunque sia… ovunque sia la faglia
il peso della razza
figliastro di placenta
sfiguro nella teca
che passeggio coevo per Laètoli
per quel mare tranquillo di basalto
con passo primordiale
ad incrostarmi cenere
con balzo d’allunaggio
a congedarmi fossile pedestre
inverno della specie
impronta di natura ristagnante
orma di sangue congelato
bastione di biosfera
a ruggine terrena
a mordere nel vento
cinquantadue segreti di memoria
compresi i sogni ed altre ridondanze
3.
Oh Denkenèsh tu sei magnifica
di vita in ogni istante viva
di sguardo acuto che assedia l’orizzonte
sull’ardua cresta degli arbusti in passerella
sull’orlo di savana che si accalca
e non si eleva all’alba o cade nel crepuscolo
ma ogni viva essenza
conduce a suo barlume
quando ilbuio rapisce la materia
e ovunque brilla l’occhio della fiera.
Oh Denkenèsh sprofondo di sorgente
antro corallino della mente
gola stretta all’origine del tuono
lampo di voce roca d’un cielo muto
vuoto d’immagini e divine somiglianze
meravigliosa Lucy
in piedi al centro della scena
compresi i polsi ed altre militanze
4.
Caducente madonna delle ossa
perdona il mio cordone ombelicale
avvezzo a trasudare
umane screziature
antropiche fratture solchi di safena:
esose mappature della psiche.
Perdona di grazia l’invaso
limite di salvezza
il furto delle stelle
da parte della mano
perdona con riserva d’estuario
la strenua resistenza delle cose
all’occhio che distilla
al moto ondulatorio della lingua
bacino brulicante
del nocciolo corrente
compreso il logo ed altre supponenze
5.
Se inferno o paradiso era l’istante
l’organico scorrente
l’instabile confine tra le foglie
oh esigua matriàrca della specie,
di pelle e muscoli scimmieschi
tracimata sull’incrocio progredito
delle tibie dei femori smaltati
sulle quattro patelle d’ossa in oro
e argento, sul granello dell’altare
vessillo della polvere
che dentro questo vento di tumori
questo teschio roboante
obliquo sventola,
conforta di grazia l’eretto
elettrico cosciente
assiso sotto l’albero di luce
comprese le falene ed altre provvidenze
6.
Che sia groviglio fitto di radici
o ramo che biforca all’infinito
che sia linfa o latte del tuo seno
corteccia fiore o frutto maturato
fogliame di giaciglio
albero del nostro bene
ovvero l’albero del nostro male
invero resina
ambra che ingemma i tuoi pensieri arcaici
residua dottoressa del pliocene
insegna dalla cattedra selvaggia
a questi corpi tossici
a questi lombi passeggeri
a questi spazi inconsistenti
l’onere inconsolabile del transito
che ad ogni passo l’alluce si piega
dal mondo ci solleva
per ricondurci a terra
compresi i troni e nuove tracotanze
7.
Pendolo magico dell’andatura
baricentro quell’àncora che dondola
creatura eretta
tra scorza e vento
barcolla la stazione
nei corpi stride intera la colonna
e incognito destino,
che sogni liquido tra fondo e superficie,
è privo della lisca
vescica e cartilagini inattese.
Neppure un corpo di mollusco, polpo
attinia o verme. Dispersione pura
informe alla corrente:
fosfene sillabario
rumore bianco di nevischio
nomignoli del fuoco
comprese le tempeste ed altre luminarie