MORTON FELDMAN(1926-1987) Brani scelti – Neither su testo di Samuel Beckett a cura di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Morton Feldman(1926-1987), compositore statunitense, studiò inizialmente pianoforte con Vera Maurina-Press (allieva di Ferrruccio Busoni, alla quale dedicherà nel 1970  il brano Madame Press Died Last Week at Ninety), mentre più tardi (dal 1941) si dedicò allo studio della composizione, prima con Wallingford Riegger e successivamente (dal 1944) con Stefan Wolpe (a quest’ultimo Feldman dedicherà una delle sue più note composizioni, For Stefan Wolpe). Il rapporto con i suoi insegnanti non fu semplice, infatti si trovò spesso a polemizzare con loro (polemiche che però nel caso di Stefan Wolpe furono quanto mai costruttive, tanto che Feldman in anni più tardi ne parlerà spesso come di un’esperienza fondamentale per la sua crescita artistica).

 

Nel 1950 Feldman si recò a sentire un concerto della New York Philarmonic (in programma la Sinfonia di Anton Webern), e fu in questa circostanza che per la prima volta conobbe Joh Cage, un incontro che condizionò fortemente sia la sua vita (al punto da trasferirsi ed andare ad abitare nello stesso edificio in cui viveva Cage) che la sua concezione compositiva.

 

Oltre a Cage, Feldman ebbe molti incontri importanti con varie figure rappresentative della scena artistica di New York, tra i quali furono particolarmente significativi quelli con i compositori Earle Brown, Christian Wolff, con i poeti e letterati, Alfredo de Palchi, Frank O’Hara e Samuel Beckett, con i pittori Philip Guston, Franz Kline, Willen de Kooning, Jackson Pollock, Robert Rauschenberg e Mark Rothko.

Morton Feldman è morto nella sua casa di Buffalo nel 1987 per un cancro al pancreas, pochi mesi dopo essersi sposato con la compositrice Barbara Monk.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Neither è uno spettacolo di opera lirica per orchestra da camera e voce soprano, scritta da Samuel Beckett e musicata da Feldman nel 1977-

 

Feldman scrisse l’opera nel 1976  e l’anno successivo chiese a Beckett di scriverne il libretto invitandolo a concentrarvici la «quintessenza» della sua poetica. Beckett consegnò quindi a Feldman 5 righe di testo, un vero e proprio distillato del suo pensiero circa il tema universale dello stare al mondo in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

 

In origine è stata pubblicata dal “Journal of Beckett Studies”, numero 4, della primavera 1979. In italiano, nella traduzione di Gabriele Frasca dal titolo Né l’uno né l’altro è uscita nelle raccolte di prose di Einaudi In nessun modo ancora (2008)e Racconti e prose brevi (2010).

 

Anche se l’andare a capo può farlo sembrare una poesia, Beckett non volle inserirlo nella raccolta complete di poesie e lo considerava un racconto.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Ha ancora senso parlare del Tempo quando questo viene (filosoficamente) percepito dall’individuo massificato in rapporto alla velocità di esecuzione del personal computer? Forse sì, se pensiamo che i neo mistici da bar si affidano a improvvisati sciamani per fugare quell’angoscia a cui non sanno dare un nome e che addebitano alla vita stressante, con i suoi tempi serratissimi e neo futuristi.
Il Tempo, cioè quell’intervallo che separa la nascita di un individuo dalla data della sua morte.
L’intervallo in musica costituisce la vita dei suoni, ne forgia la materia e, proprio come per gli uomini, nasce e muore nel Tempo. Sì, ha ancora senso parlare del Tempo.

 

II

 

Morton Feldman (1926 – 1987), raccontano le sue biografie, anche on line, mutò radicalmente la sua concezione della musica dopo aver incontrato e frequentato John Cage. Inoltre, con l’andare del tempo, le sue composizioni cominciarono a dilatarsi, a durare sempre di più mentre il materiale musicale si riduceva in proporzione inversa. Probabilmente Feldman era giunto progressivamente a concepire il Tempo come ingrediente strutturale della sua musica.

 

Piano and string quartet è stato ultimato nel 1985. L’esecuzione di riferimento è quella del Kronos Quartet con la pianista Aki Takahashi e dura 79 minuti e 38 secondi.
Un tempo spropositato. 


Il quintetto consta di un solo movimento e si basa, all’apparenza, sulla ripetizione ossessiva di una frase musicale esposta dagli archi sui misteriosi arpeggi del pianoforte.
La musica ha il potere di alterare il battito cardiaco in chi esegue e in chi ascolta. Non sempre ce ne accorgiamo. Ma gli effetti di questa composizione di Feldman sulla nostra ansia (d’ascolto) è fortissimo. Questo brano, così come le altre simili e tarde composizioni di questo autore, invitano l’ascoltatore a fermarsi, nel senso letterale della parola. Fermarsi mentre tutto il resto va avanti nel cosiddetto tempo reale. La sfida di un ascolto estenuante terrorizza chi incautamente si avvicina a quest’opera. Eppure il quintetto dura come un film non troppo lungo senza interruzioni pubblicitarie. Ma il film, pur essendo un’opera di fantasia, simula il tempo reale e si appoggia sulla narrazione. Qui paradossalmente, come Wagner disse nel Parsifal, il Tempo si fa Spazio.
Il regno assoluto del Tempo della Musica chiede udienza a chi accetta di ascoltare alterando la normale percezione delle cose e della musica stessa, o riportando questa musica (ma è vero per qualsiasi altro testo sonoro) nell’alveo che gli compete. In poco più di un’ora.
Allora le variazioni, i sottili sfasamenti, i timbri cangianti e tutti gli altri elementi che appartengono al quintetto come alle sinfonie di Beethoven appaiono nella loro pienezza e si scopre ricchissimo il materiale, mutevolissima la dinamica.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

III


Feldman disse: 


“I never feel that my music is sparse or minimalist; the way fat people never really think they’re fat. I certainly don’t consider myself minimalist at all.”
“I want to give my compliments to Australia. Ever since your government paid a few million dollars for a Jackson Pollack painting, I figure that it must be a marvellous country.

 

IV

 

Se Morton Feldman non è il musicista più ascoltato dei nostri giorni, Mark Rothko è uno dei pittori (morti) più pagati dell’attuale mercato dell’arte. Eppure la sua arte è difficile quanto quella di Feldman.
L’ovvia ragione è che l’infelice Rothko (1903 – 1970) ha prodotto oggetti estetici che si possono acquistare e portare a casa per la gioia e l’investimento di tychoons e evasori fiscali del mondo che conta.
Prima che la depressione lo portasse all’inevitabile suicidio, Rothko produsse nel 1967 una serie di quattordici grandi tele per una chiesa di Houston. La chiesa, progettata e costruita da Philip Johnson ha preso da allora il nome di Rothko Chapel.

 

Questa cappella non è dedicata ad un culto specifico ma a tutte le religioni e alla contemplazione in senso assoluto. Nessuno viene escluso e la Cappella è di fatto il luogo del sacro e della spiritualità in senso non discriminatorio.


Feldman completa nel 1971 la composizione di una musica per soprano, contralto, viola, percussione e celesta dedicata a quell’ambiente e, ancora una volta, si realizza un paradosso quasi wagneriano perché la perfetta fusione delle arti (architettura, pittura, parola, musica) fa pensare a quell’opera d’arte totale caratteristica dell’estetica wagneriana.

Considerando che Feldman era ebreo, probabilmente questo accostamento non gli sarebbe piaciuto.
Ma in un mondo ideale, scevro da ogni sospetto di razzismo, il paragone regge.
Dal punto di vista strettamente musicale, però, le parole del compositore sono chiarificatrici di un estetica assolutamente altra: “Poiché sono ebreo, non mi riconosco nella civiltà musicale dell’Occidente. In altre parole, quando Bach utilizza una quarta diminuita, io non riesco a dire che quell’accordo simboleggia Dio… Qual’è la nostra morale in musica? La musica tedesca del XIX secolo, no? Ne sono convinto come sono convinto che voglio essere il primo grande compositore ebreo.” (Morton Feldman Essays).

 

V

 

“Quando ero a Houston per l’inaugurazione della Rothko Chapel, i miei amici John e Dominique de Menil mi chiesero di comporre una musica in onore di Rothko da eseguirsi l’anno dopo nella cappella.
In larga misura, la scelta degli strumenti (in termini di risorse impiegate, bilanciamento e timbro) fu influenzata dallo spazio della cappella e dai dipinti. Il linguaggio di Rothko arriva fino al bordo delle sue tele ed io volevo ottenere lo stesso effetto con la mia musica, che avrebbe dovuto permeare l’intera stanza ottagonale e non essere ascoltata in un punto definito. Il risultato è molto simile ad una registrazione, tutto è molto più vicino che in una sala da concerto.
Il ritmo delle pitture così come Rothko le aveva organizzate creava una continuità ininterrotta. Ma se era possibile in pittura reiterare colori e scale cromatiche mantenendo desto l’interesse, pensavo che la musica richiedesse la fusione di sezioni altamente contrastate. Ho previsto una processione non dissimile da quelle dei fregi nei templi greci.
Queste le sezioni: 1. Una lunghissima introduzione declamatoria; 2. una sezione più fissa e astratta per coro e campane; 3. un interludio motivico per soprano, viola e timpani; 4. un finale lirico per viola e vibrafono, successivamente completato dal coro con effetto collage.
Ci sono pochi riferimenti personali in questa musica. La melodia del soprano, ad esempio, fu scritta a New York nel giorno del funerale di Stravinsky. La melodia proto ebraica affidata alla viola nel finale l’ho scritta a quindici anni. Alcuni intervalli utilizzati rimandano alla sinagoga. Altri riferimenti li ho dimenticati.”

 (Morton Feldman Essays).

 

Giorgio Linguaglossa

 

Come un rosario di suoni sgranati, come un mulino tibetano regolato da una pazienza celeste: così, nelle parole di Mario Bortolotto, apparve la musica quieta e smisurata di Morton Feldman all’orizzonte della Neue Musik. Ma se la novità radicale rappresentata dall’irruzione di Feldman sulla scena newyorkese fu in quel modo di comporre diverso da ogni altro (compreso quello del suo maestro Cage), ciò che sorprende per contrasto nei suoi scritti è la scintillante vivacità di una penna la cui verve polemica e incurante ironia ancora oggi lasciano il segno. Nessuna tenerezza per Darmstadt. Questi pensieri verticali sono come frecce avvelenate che si incuneano fra i resti di alcune inscalfibili certezze, corrodendole dall’interno. Una meditazione sulle essenze musicali, e sul tempo – «è la scansione del tempo, non il Tempo in sé, che è stata spacciata per l’essenza della musica» scrive Feldman. E ancora: «A me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo» –, ma anche sui fili misteriosi che legano da sempre Arte e Società: 

«la società, per come la vedo io, è una specie di mastodontico apparato digerente, che tritura qualunque cosa gli entri nella bocca. Questo smisurato appetito può ingollare un Botticelli in un sol boccone, con una voracità da terrorizzare tutti tranne il guardiano di uno zoo. Perché l’arte è così masochista, così desiderosa di essere punita? Perché è così ansiosa di finire dentro quelle gigantesche fauci?». 

Sfogliare queste pagine sarà allora un po’ come affacciarsi al Cedar – il bar dell’Ottava Strada dove, in compagnia di personaggi come Pollock, Rauschenberg o de Kooning, Feldman trascorreva notti intere in discussioni accanite – e fermarsi ad ascoltare una voce che una volta sentita difficilmente si potrà dimenticare.

 

e Wahrol avesse messo piede al Cedar Tavern dove bazzicavano quei tipacci che erano gli espressionisti astratti, avrebbe ordinato un bicchiere di latte e si sarebbe beccato un sacco di botte per questo. Il passaggio per le pennellate rabbiose dinamiche e muscolari, intese come espressione di un tumulto interiore, ai molli maneggiamenti della iuta serigrafata, intesa come decorazione per le pareti, indicava che la lenta evoluzione dell’arte era finita a gambe all’aria. L’arte non era più una cosa da uomini duri». (Steve Martin, Oggetti di bellezza, Isbn).

 

Uno di quegli uomini che affollava l’economico bar (una birra 15 cent) di Universisy Place tra l’Ottava e la Nona nel Greenvich Village nel 1950, era Morton Feldman (1926-1987), ebreo di origini russe nato a Brooklyn. Non era un pittore ma un compositore. Sul Cedar Tavern un giorno confessò: «Posso dire senza esagerare che passammo ogni sera lì per cinque anni». Il plurale è riferito a Jackson Pollock, John Cage, Philip Guston, Robert Rauschenberg, Willem de Kooning, Mark Rothko: tutti sodali di Feldman, «furono la mia università» (fatta più di osmosi che di accademia), e avventori del Cedar fino a notte fonda, mentre di giorno ci bevevano gli operai.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Molti di loro finiranno nella rete del collezionista e mercante d’arte Leo Castelli (e della bellissima moglie rumena Ileana Sonnabend) che li rivendette a peso d’oro. Tutti usufruiranno almeno una volta delle sei settimane che secondo Felman potevano essere cruciali a New York: «Lo straordinario degli anni Cinquanta è stato il fatto che per un breve attimo (che so, sei settimane) non c’era nessuno che capiva l’arte – perciò sono potute succedere tutte quelle cose. Perché per un attimo, gli artisti sono stati lasciati in pace. Sei settimane bastano per cominciare, ma oggi in questa città non c’è nessun posto in cui puoi andarti a nascondere per sei settimane. Ecco, questo voleva dire essere un artista. A New York, a Parigi, ovunque».

 

Morton Feldman assomiglia allo scrittore Mario Puzo: un metro e ottanta per centotrenta chili, capelli lisci e unti, pettinati indietro, mani magre, le spesse lenti degli occhiali di tartaruga, il faccione alla Jeff Goldblum, la sigaretta appesa alle labbra un poco sporgenti, i forti appetiti: donne, cibo, mondanità, vitalismo. Anche i suoi scritti autobiografici raccolti da Adelphi e da B.H. Friedman (Pensieri verticali, pp. 305, euro 30) sono ingombranti, tanto che per afferrare l’oceano dei suoi “pensieri verticali” bisogna con pazienza e arbitrio buttare un secchio qua e là, tirarlo su e vederci dentro. Se non fosse per l’elegante standard grafico adelphiano, la raccolta di scritti meriterebbe un aspetto consunto, magari persino rilegato in pelle come le vecchie bibbie dei predicatori, o come una moleskine gonfiata a dismisura da fitti appunti.

 

«Ricordo una festa allo studio di De Kooning con l’avviso di sfratto esecutivo entro tre giorni sulla porta. Non aveva i ventidue dollari necessari per continuare l’attività. Persone così non erano disposte a cambiare una riga per compiacere le gallerie, Barney Newman resistette per venticinque anni, poi la gente cominciò a guardare le sue tele». La New York del Cedar per Feldman è quella dove con sedici dollari, «tutto quello che avevo in tasca», si poteva comprare un quadro di Rauschenberg appena conosciuto nello studio di Cage. Un rimpianto che ha fatto suo anche Lou Reed che in una vecchia intervista confessò di avere una sola nostalgia, «quella di NY di tanti decenni fa, dove si viveva ancora con pochi dollari».

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

La voce di Feldman è fatta di vastità, densità, e dedizione totale all’arte. «Penso che ci siano tre cose che lavorano con me: le mie orecchie, la mia mente e le mie dita. Una delle ragioni per cui lavoro al pianoforte è che mi rallenta e posso sentire molto meglio l’elemento tempo, la realtà acustica. Io sono dentro la realtà acustica: per me non esiste qualcosa come realtà compositiva».Per il compositore Wolfgang Rihm «tutto in Feldman è sempre arte, arte dura come un osso, grande e incommensurabile». Secondo Cyril Connolly «imprigionato in ogni grassone c’è un uomo esile che chiede disperatamente di essere liberato» e Feldman non fa eccezione. I Pensieri verticali sono scritti faziosi, per nulla diplomatici, sembrano colloquiali ma tutto ha una struttura: conversazioni, giudizi, confessioni, cronache, ritratti, polemiche («le bestie nere da Schoenberg a Boulez»), omaggi, battute, tristezze («I nemici non possono ferirci ma gli amici che ci amano per i motivi sbagliati, sì»). Convivono insieme ammirazione e disprezzo, e grandi fedeltà.

 

La prima è quella verso il poeta e pittore Frank O’Hara, suo coetaneo e compagno di Cedar: «Era il nostro Stendhal, nessuno ci si è avvicinato. È il suo nome completo che comunica il senso completo di questo poeta. Diciamo sempre Gertrude Stein, E.M. Foster perché ci occorre quell’ampiezza in più per distinguere coloro che hanno rappresentato un’epoca da quelli che si sono spinti al di sopra». Quando Don Draper torna a casa rapito dai versi di Meditations in an Emergency (1957) di O’Hara, Morty sta aspettando l’amico poeta al Cedar (sappiamo che la serie di Weiner pur svolgendosi negli anni Sessanta è un compendio del decennio precedente). Ecco allora, rispetto agli inappuntabili Mad Men, il controcanto notturno dei geniali squattrinati del Village: «Dio santo che c’entra l’artista con il fare? È come dire vivere. Se è questo che vogliamo, basta alzarsi dal letto la mattina».

 

Al Cedar dei frenetici, alcolici, eccentrici espressionisti astratti (molti dei quali ebrei) Feldman ci era arrivato grazie a una fuga. Nel 1950 a soli 24 anni insieme alla moglie minorenne, si recò alla Carnegie Hall per sentire Mitropoulos che dirigeva la NY Philarmonic nella Sinfonia per orchestra da camera op. 21 di Webern: «Nessuna musica ha avuto, prima o dopo quella sera, l’impatto di quel lavoro di Webern. Il pubblico schiamazzava, rideva fischiava, molto abbandonarono la sala». Tra quelli anche John Cage che lo sconosciuto Morty raggiunse nella hall, riconoscendolo grazie a una foto su una paginata di un tabloid. Erano gli unici due entusiasti per Webern. Da quel momento Feldman fu adottato e divenne un enfant terrible della scena artistica: «John, che non aveva mai un centesimo in tasca, dava delle feste assolutamente sontuose. Si aveva la sensazione, nel Village a quei tempi, di condividere nell’arte qualcosa che al resto del mondo era sconosciuto. Era come stare in un avamposto isolato, un sentimento che ricordo ancora con piacere. Ma quello che è difficile da capire degli anni Cinquanta è che gli artisti non volevano essere salvati nell’arte. Ecco perché se parliamo di influenza, essi non hanno dato un contributo all’arte. Il loro contributo è stato di avere tolto importanza all’idea stessa di contributo all’arte».

 

Però con le ambizioni al Cedar Tavern si puntava grosso lo stesso: «Il giorno che morì Jackson Pollock (1956) telefonai a un grandissimo pittore, per dargli la notizia. Dopo una lunga pausa, lui mormorò, a voce così bassa da riuscire poco più di un sussurro: Quel figlio di puttana ce l’ha fatta. Capii benissimo. Con quel gesto supremo Pollock aveva impacchettato tutta un’epoca e se l’era portata via con sé».

Giorgio Linguaglossa

 

IL «TEMPO IN POESIA» E IL «TEMPO INTERNO» DELLA POESIA

Ultimamente, quando parlo del «Tempo in poesia» mi sembra di parlare a un uditorio di sordo muti e sordo ciechi, tranne qualcuno dei miei amici che mi segue e si sforza di seguirmi. Io non mi stanco di ripetere che dobbiamo imitare e seguire il coraggio degli scienziati, dei fisici della teoria del Tutto, dobbiamo imparare molto da Prygogine Stepehn Hawking, dobbiamo imparare molto dalla musica di Morton Feldman, Ligeti e Giacinto Scelsi e dalla musica contemporanea più alta. Da pittori come Rothko, Morandi, De Chirico… Il Tempo, che cos’è il tempo? E il tempo in poesia? Qualcuno si è mai chiesto quale rapporto c’è tra il Tempo e la parola poetica? Intendo non il tempo considerato come un intervallo tra una nota e l’altra, tra una parola e l’altra, non soltanto, ma come «tempo interno» della «parola», «tempo interno» della «immagine». Penso, anzi, sono convinto che la nuova poesia non potrà nascere se non con una nuova concezione del tempo nel linguaggio poetico. Anzi, dirò di più: il linguaggio è una delle innumerevoli manifestazioni del «tempo». Se ci pensiamo un attimo, il linguaggio, qualsiasi linguaggio, secondo i linguisti, è formato da 22 massimo 26 suoni che combinandosi tra di loro formano lo scheletro fonetico di ogni lingua conosciuta. E questo cos’altro è se non una manifestazione del tempo che si esprime mediante fonemi? Non c’è alcuna differenza tra il tempo della musica e il tempo delle parole. Sta al poeta, se è poeta, trovare le parole che esprimano questo «tempo fonetico».

«È la scansione del tempo, non il Tempo in sé, che è stata spacciata per l’essenza della musica» scrive Feldman. E ancora: «A me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo» –, ma anche sui fili misteriosi che legano da sempre Arte e Società: «la società, per come la vedo io, è una specie di mastodontico apparato digerente, che tritura qualunque cosa gli entri nella bocca. Questo smisurato appetito può ingollare un Botticelli in un sol boccone, con una voracità da terrorizzare tutti tranne il guardiano di uno zoo. Perché l’arte è così masochista, così desiderosa di essere punita? Perché è così ansiosa di finire dentro quelle gigantesche fauci?».

La poesia italiana è ancora ferma alla concezione del «tempo esterno» in poesia. Ci sono due poeti che, a mio avviso, fanno poesia con una nuova concezione del «tempo interno», e precisamente: Steven Grieco-Rathgeb e Mario Gabriele. Come ci siano arrivati io non lo so ma lo posso intuire. L’importante era arrivarci a questo traguardo. Quando stigmatizzo che la poesia italiana dopo Satura di Montale è rimasta prigioniera di un concetto di tempo esterno eguale per tutto e per tutti, non mi reputo un profeta ma lo dico con la chiarezza teorica del critico letterario, del poeta che opera Oggi in Occidente.

Io posso dare un consiglio ai poeti. Di rileggere le proprie poesie ascoltando la musica di Morton Feldman, così apparirà loro chiaramente la discrasia tra la loro poesia e il «tempo interno» della musica di Feldman.

Fare poesie sulla Luna? E perché mai caro Sagredo dovrebbe essere una operazione da passatista? Chi l’ha stabilito? Chi lo statuisce? Liberiamoci una volta per tutte da tutte le cognizioni deteriori e prosaiche che abbiamo sentito miliardi di volte. Gettiamo alle ortiche queste cose e andiamo al centro delle «cose». La «finzione»? Ebbene, Che cos’è la «finzione»? Chi decide quando io «fingo» o altri «finge»? Chi ha statuito che la poesia sia «finzione»? E finzione di che?

Ci ricorda Feldman: «Lo straordinario degli anni Cinquanta è stato il fatto che per un breve attimo (che so, sei settimane) non c’era nessuno che capiva l’arte – perciò sono potute succedere tutte quelle cose. Perché per un attimo, gli artisti sono stati lasciati in pace. Sei settimane bastano per cominciare, ma oggi in questa città non c’è nessun posto in cui puoi andarti a nascondere per sei settimane. Ecco, questo voleva dire essere un artista. A New York, a Parigi, ovunque».

E allora? Oggi siamo nelle migliori condizioni per scrivere poesia, perché nessuno ci capisce niente in fatto di poesia…