ipermoderno Il ponte di Brooklyn a New York Louis Vuitton
Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn.
Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015).
Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste Poesia, L’immaginazione, Soglie, Resine, Levania e altre.
Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Come pittore ha tenuto mostre in tutta Italia.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Si ha la sensazione, leggendo questi «sonetti reali» di Jacopo Ricciardi, che il modernismo della prima metà del Novecento abbia definitivamente voltato pagina. Forse, chissà, si sono esaurite le potenzialità di crescita del modernismo europeo, almeno qui in Italia, e varrebbe la pena di investigarne le ragioni. Forse, l’ipermoderno del Dopo il Moderno ha finito per rivalutare le «forme» pregresse. Il ripristino della forma del sonetto da parte dell’autore forse ha questo significato: che la riproposizione di una forma pregressa può conferire al dettato poetico un valore aggiuntivo, un di più rispetto alle forme odierne che ripudiano la «forme» della tradizione, che adottano il verso spezzato o libero (come si diceva una volta), che molto spesso collima con il verso arbitrario, ciò significa che Ricciardi preferisce affidarsi ad una «guida» autorevole e collaudata da secoli di tradizione metrica e formale come è il sonetto. Il lessico è tenuto su un piano basso, colloquiale, nel quale Ricciardi si trova a suo agio, con spiccate modalità narrative, le rime si alternano ai richiami fonici, le tematiche sono quelle esistenziali dei nostri giorni con il corredo di panni poveri e dimessi come nel mirabile sonetto «Ma in fondo niente è mio e di nessuno». Infine, una nota: il libro non contiene prefazione o commento alcuno, cosa davvero rara in questi tempi di presentazionismo (mi si perdoni il neologismo). Inoltre, le poesie sono come campiture messe su pagina, indicano un tema e lo raffigurano nella forma del sonetto, non hanno semi toni prefettizi o tratti sopra segmentali, la dizione è ironica e colloquiale.
Ut pictura poesis, dicevano gli antichi pagani. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Questo semplice assunto ci porta dentro la problematica di che cosa debba raffigurare oggi una poesia. Ecco il punto. Ed è molto semplice la risposta. La poesia deve adottare il punto di vista della pittura, deve raffigurare l’oggetto come se esso fosse un oggetto da dipingere linguisticamente, con le risorse della lingua. Per alcune ragioni storiche che non sto qui a sintetizzare, la poesia moderna ha perduto questo concetto, diciamo mimetico, rimanendo impaniata nello pseudo concetto di una poesia che dovrebbe comportarsi come meta-poesia, di poesia toponomastica, poesia confessione, una poesia invasiva con l’io che deborda spesso in tutte le varianti. Di fatto, per tutto il secondo Novecento la poesia si è amputata le possibilità espressive per ridursi ad un discorso di secondo grado, e poi di terzo grado e così via… ma era (ed è), ritengo, una strada che conduce ad una poesia genericista alla Edoardo Cacciatore, oppure, alla poesia che fa il commento di un altro avvenimento, perdendo in tal modo l’orizzonte di senso dell’oggetto.
Questo libro di Jacopo Ricciardi ci aiuta a capire, in qualche modo e per sottrazione, quello che è avvenuto. Oggi assistiamo ad una contaminazione tra i generi artistici. Milosz nella prefazione alle poesie di Eliot scriveva: «Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne “La Dolce Vita” di Fellini, che sembra tratta dal “Canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…». Tutto vero, tutto condivisibile.
Ho visto tempo fa il film di Martone sul “Giovane favoloso” Giacomo Leopardi. Bene ha fatto il regista a tradurre ogni poesia di Leopardi in immagini filmiche. Non poteva fare diversamente. Ma è vero anche il contrario, si può tradurre una immagine flimica o fotografica in poesia, basta essere consapevoli della operazione che si sta facendo.
Ecco, io ritengo che la poesia di oggi possa ricominciare appunto dalle immagini, perché ha perso il bandolo del senso di come raffigurare l’oggetto, il «che cosa fare e dire» in poesia e mediante la poesia, che è cosa diversa dal «che cosa fare e dire» nella prosa narrativa.
E questo è probabilmente il modo migliore, per chi ne è capace, per riallacciarsi alla più alta tradizione della poesia europea de primi tre decenni del Novecento.
Jacopo Ricciardi
Da Sonetti Reali edito da Rubbettino, Iride, 2016
Attualità
Questo mostro ha quattordici miliardi
Di gambe, ma si muove
Come un lento pesante pachiderma.
Un immenso cervello li raccoglie
Tutti, ma, cosa vuole
O cerca, è impossibile sapere.
Eppure, i suoi muscoli ci tirano;
Ma il suo dove, il suo quando,
La sua creazione, non possiamo né
Riconoscere, né mai inventare:
E ognuno è parte, sì,
Del tutto, ma il tutto resta diviso.
Le onde del mostro tornano su sé
Chiudendo la sfera del mondo più
Volte. Uniti nella
Trappola, noi, indaghiamo l’estremo
Confine, la certezza di qualsiasi
Invenzione, creazione, nella misura
Trovata, del mostro, lì,
Chiuso, che si nutre della sua coda.
*
In meditazione
Sono stato nel nero d’universo
Con la coscienza mia in meditazione
Ed era continuo e denso, un mare terso,
Cadendo all’improvviso in sospensione.
Ero sul punto lì d’essermi perso
Nell’incommensurabile fusione
Di una vastità senza più alcun verso
Senza confine alla mia osservazione.
Tra lì e qui è lo stesso reale,
Ma non è, Marti, la stessa realtà:
Io ero me, come ora, non vale
Per la materia, l’oggettualità
Sua non c’era, ma sono qui uguale:
Da lì viene la mia ritualità.
*
Il presente
Non ora; fu. Però ancora il muro
Di tasselli quadrati dall’erba alta
Nel caldo d’estate ghermente, duro,
Vicino a me ridava questa balta
Che azzera, illumina, resetta il mondo,
Da qui seguendo ancora quelle mura.
E come è strano: meglio esiste il mondo
Senza tempo; è come una cura
Per me, che voglio tornarvi, nel mondo,
Senza tempi, seguendo il mio respiro,
Guardando quello che più non mi lascia,
Trovando intatto, chiaro, il mio respiro,
Che è qui nel luogo che più non mi lascia,
E che principia per me tutto un mondo.
*
Loro
Sul tetto dei mari tutta la gente
Va, mentre il sole nei giorni alto splende,
Sull’enorme pietra dura vivente,
Camminando ormai magri senza tende,
Nella pianura che a loro mai mente,
Verso la notte che nel mentre scende
Quando ancora là nulla si sente.
In un lager di luce si rapprende
L’umanità di oggi, lunga fuga
Di morti. Resto accanto alla città
Irrequieta, con nel piatto la lattuga,
Alla finestra la mia serietà,
Il vessillo rosso che al vento ruga
Il vuoto cittadino dell’Età.
*
Guerra e amore
Guerra vergine, guerra nascitura,
Ma prima, guerra sfuggita alla vita;
Da te chi resta avrà gloria futura
Ma perdona se non ti invoco inclìta;
Incredulo pensando, la paura
Genera amore che subito è vita
Poi morte sospesa in semplice abiura,
E temo dei due gemelli le dita.
Le iridi marroni mie nel caos
Volgo ai due amanti giganti e schivi
Nella penombra della stanza, i naos
Perduti, e quando una finestra aprivi,
Per sdraiarsi nel palmo oro del Laos,
Fu già l’acropoli morta dei vivi.
*
Non c’è mai musica da queste parti
Non c’è mai musica da queste parti
E la poesïa stenta ad attecchire.
Internamente vogliono scuoiarti
Quando nel tempo l’aria senti aprire
Ed è la vita a cercarti e ad amarti
Quando il pensiero va fedele al dire
E tutto quasi ritorna al pensarti.
Ma non sa oggi di dover vanire
La scuola del mondo difronte a psiche
Vendicativa, che dagli occhi vitrei
E fondi, montando parole in un eco
Animale, rëale in certi mitrei
Delle intenzioni, sporche, nevrotiche,
Andrà nel cuore come un falso geco?
*
Oggi più non importa la natura
Oggi più non importa la natura.
Che preesista all’uomo o meno, comunque
Sempre distante anche da chi ne ha cura
Scrivendo, amandola o odiandola, dunque
Abitandola con vivo amore, scura
Voce d’ombre un sussurro da ovunque
Persecutorio giunge a questa tura
Che l’uomo inscena per sé e per chiunque.
Ed è Lei a guardare alla finestra
La persona che crede Lei guardare;
La smonta da lì dietro una ginestra
In quarks ed antiquarks da adronizzare
Aprendo in stormi l’essere che addestra
Un nuovo Vento che non può annullare.
*
Jacopo Ricciardi
Verranno a scalpellare i nostri volti
Verranno a scalpellare i nostri volti,
Popoli lontani che sanno poco
Di noi, la voce e la lingua di molti,
Poi i corpi dall’ammasso spartifuoco
Dell’aria che resiste tra gli accolti.
Già ora il mondo perduto rinfoco
Come se fossimo tutti sepolti.
Solo di questo paese mi importa,
Della beltà sua costruita rara –
Colonna d’edera lunga e attorta.
Ma ora è vero il volto nella bara
Non più dipinto sai da mano accorta;
È una caldera a cui manca la gara.
Scendo, ma non sarà un’attesa corta.
*
Il vuoto
Vera è la forma e il tempo che la cambia;
Ma il moto di materia finge il tempo:
Solo esiste quel moto che la scambia;
Esso agisce dal vuoto di ognitempo.
Dilato la realtà se penso pensi;
E la mente è nel vuoto di una maglia
Della rete che ho intorno ai cinque sensi.
La verità sta oltre quella faglia.
In una verità che mai incastoni
Vado a trenta chilometri al secondo
Per novecento quaranta milioni
Di chilometri in un anno, giocondo.
Il cuore mio che batte è un antitempo.
Non posso avere il moto senza tempo.
*
Impasse
I
Materia e idea hanno stessa sostanza,
Sono archeologia passata e futura,
Resti avuti o inventati per quest’ora
Di frammenti senza tempo o mattanza.
Angelica questione senza sesso
È questa ricerca di annullamento
Temporale che fa un tempo dipinto
Ora ma da nuovi frammenti rescisso,
Per gli abitanti futuri del mondo
Dove ognuno da ogni altro morto è oriundo.
E quale sciocca allegoria tra i vivi,
Che si fa specchio negli occhi che anneri
D’universo Dio anche tu se bevi
Dalla coppa di un mondo a cui aspiri.
II
O invece il mondo è un ordinato cuore
Nel quale splendono superbi cieli
Elevati sulle spalle degli arieli,
E sotto stanno i cervi in quell’umore
In un abbraccio di pietra che geli,
Bianco, fronte al vuoto e terso attrattore
Della valle; ma pulsa un odore
Nelle narici convulse e tra i peli
Irti di quell’animale lì travolto,
E guardo la colonna magra farsi
Protiro, poï chiesa a cui è tolto
Il nartece, e di nuovo è un agitarsi
Di ferule nell’aria, ed è molto
Il miele bevuto fino ad istoriarsi.
*
oi
Non ti bastava la lingua dei vivi?
Vuoi, forse, dei retrivi
Morti, il linguaggio, perché lì soggiace
Più vivo dei vivi? Fervente e audace,
Tu scacci questa pace
Di amorucoli circensi e passivi.
Stanco di baccanali sciocchi e estivi –
Stolti origami privi
Di sofisticazione –, nella procace
Vecchia maniera che oggi frana e tace,
Non vuoi mimar le acacie,
O perderti per teatri lascivi.
Da troppo tempo umano, tu vuoi renderti
D’ora in poi, senza dubbio, inumano.
Ti pretendi inumano
Capace di vivere, senza perderti,
La morte e di portarla sulla verde
Terra, come una luce all’ombra e piano
Sovrapporla con mano
Attenta, per lo scontro delle vicende.