Luigi Fontanella divide il suo tempo tra Firenze e Long Island, New York. Un’ampia scelta delle poesie composte fra il 1970 e il 2005 è stata raccolta nel volume riassuntivo L’azzurra memoria, a cura di Giancarlo Pontiggia (Moretti & Vitali, 2007, Premio Laurentum, Premio Città di Marineo), a cui hanno fatto seguito Oblivion (Archinto, 2008); L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Pref. di Giancarlo Pontiggia, Postf. di Carla Stroppa, Premio Prata, Premio I Murazzi); Disunita ombra (Archinto, 2013, Premio Frascati Poesia alla Carriera); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015, Pref. di Paolo Lagazzi, Premio Pascoli, Premio Giuria-Viareggio); La morte rosa (Stampa, 2015, Pref. di Maurizio Cucchi). È anche autore di parecchi volumi di critica letteraria e dei romanzi Hot Dog (Bulzoni, 1986) e Controfigura (Marsilio, 2009). Dirige per Olschki la rivista internazionale “Gradiva”, ed è responsabile della redazione americana della rivista “Poesia”.
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio
che lui stesso non intende,
ma che ogni tanto, viene inteso.
Il che ci permette di esistere e di essere perciò quanto meno fraintesi.
Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso, disse Saurau,
non ci sarebbe bisogno di nient’altro.
.
(Thomas Bernhard – Perturbamento)
.
Scrive Paolo Lagazzi nella prefazione al volume:
«Da un lato la raccolta allinea, zigzagando fra USA, Europa e Italia, versi di taglio narrativo, poemetti tessuti con una voce piana, semplice, colloquiale e tuttavia sempre aperta alle irruzioni del bizzarro o del perturbante (un semaforo oscillante “come un aquilone / munito di un solo occhio” maligno, una via di Firenze percorsa dalle vertigini del déjà vu: “era / la mia strada / ma a me sembrava come se / ci fossi vissuto tanti anni prima / e ora vi ritornavo straniero”…). Da un altro lato, posti all’inizio e alla fine del libro come cornici stranianti, La veglia dell’ultimo soldato e Canto del distacco stendono attorno a quelle narrazioni una serie di figure oniriche o metaforiche (da ricordi “inverecondi” striscianti “lungo le pareti” del pensiero a un fiume capace di “bucare” le mani, da “una stradina pietrificata / sulla tua fronte” al “singhiozzo del tempo”) che, mentre riaffermano l’impossibilità della voce poetante di sfuggire ai richiami di un senso aleatorio, sottolineano che quel regno dei sogni che è la vita non è solo leggerezza surreale o balletto fantastico ma anche crudeltà, svenamento, strazio (il rosso del sangue).
Il riflettersi delle cose nelle ombre o delle ombre nelle cose, il sinuoso procedere dello sguardo fra le sponde opposte e complementari dell’esperienza e della rêverie, dell’incanto e del disincanto, del desiderio e della pena, crea nel testo effetti di ripetizione, diffrazione o eco (“sempre più in fretta / sempre più in fretta”, “Tu sai quanto conta… Tu sai quanto conta…”, “Piega le tue ginocchia / d’aria… Piega le tue ginocchia d’aria”) che sono come le cadenze di una lingua rituale, tesa a esprimere e insieme a esorcizzare il mistero dell’essere…
Dove ci portano i passi del poeta viandante Luigi Fontanella mentre perlustra i territori della sua intermittente, appassionata e tenace memoria, mentre ci offre e sottrae figure, simboli, oggetti della sua parabola umana, a partire da quello scialle rosso che intitola questa nuova raccolta? Pochi autori sanno altrettanto bene che la poesia è movimento incessante poiché tale è la vita, che le cose sono se stesse e altro da sé, che il mondo muta secondo l’angolo ottico da cui lo osserviamo. Tutto brilla nella fuga del senso: uno scialle, rapito dal vento, vola via, si perde chissà dove: la stoffa del reale non è più consistente di una danza di fantasmi, eppure è vero anche il contrario: i fantasmi tra cui ci aggiriamo – echi di momenti, larve di desideri, riflessi dell’improbabile, revenants dell’incongruo – hanno la stessa evidenza dei più ruvidi aspetti della realtà. […] Eppure “non è tardi” per continuare a credere nella poesia, nella forza della parola di testimoniare la vita come contrappunto, battito cardiaco, respiro, ritmo alterno di povertà e bellezza. Se lo scialle è fuggito, strappato dalle mani del tempo, il rosso della sua scia resiste nello sguardo di chi crede ancora nella grazia, nella luce di ciò che non ha peso, nella forma senza forma dell’anima, nell’invito del vento a volare “fino ad un altro Sole”.»
Scrive Luigi Fontanella in una nota in calce al libro:
«nella mia ricerca poetica ho sempre alternato momenti per così dire epifanici, nei quali la scrittura si coagula in brevi momenti circoscritti – veri e propri cortocircuiti mentali, accensioni improvvise o pure trascrizioni di lacerti onirici (sulla lunghezza d’onda di un mio antico amore per il surrealismo) -, ad altri che hanno bisogno di una distensione riflessiva di più largo respiro. Da qui, il carattere anche “narrativo” o “diaristico” di questi poemetti, beninteso una narrazione in versi assolutamente non lineare, con iati e sbalzi improvvisi o accentuazioni di carattere metalinguistico (per esempio il mio periodico interrogarmi sul senso dello scrivere, del fare poesia, dello stesso vivere)».
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Da quanto precede è chiaro che la poesia di Luigi Fontanella si può compendiare nella formula: diario + epifania, intensificazioni metaforiche, propaggini metonimiche e esposizione quasi didascalica, cronachistica degli eventi e dei paesaggi-personaggi.
Il tema dell’Altro o dell’Estraneo e del «familiare» adottato da Luigi Fontanella pone la necessità di dare una risposta all’interrogativo lacaniano se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1
La risposta di Fontanella è che i nostri «luoghi» sono sempre «altro», noi siamo sempre disseminati, dispersi nei luoghi della memoria, nei suoi paraggi, nelle sue contiguità e nelle sue ambiguità. «La meraviglia di tutte le meraviglie: che l’essente è (das Wunder aller Wunder: daß Seiendes ist)»2, la si esperisce nel mondo. È meraviglia, autentica meraviglia – meraviglia delle meraviglie –, ma il mondo con le sue sorprese viene da «fuori», dentro di noi siamo poveri e, in quanto poveri ci meravigliamo e ci angosciamo della meraviglia, non sappiamo tener testa alla meraviglia, e ci ritraiamo, sorpresi e sconfitti, nella nostra povertà. La sorpresa introdotta dal tempo è la «quarta» dimensione dello spazio che si spalanca non appena il tempo, l’estraneo fa ingresso nel teatro del mondo. È il tempo, infatti, che apre l’orizzonte chiuso dei luoghi, che spazializza lo spazio, moltiplica gli spazi e moltiplica le temporalità. Non per-sé, per sua forza interna, lo spazio si spazializza, ma per ciò che ad esso viene incontro da «fuori», dal tempo che squarcia letteralmente l’orizzonte dello spazio, lo rende significativo, dà un senso allo spazio vissuto. Venendo al mondo il tempo squarcia l’orizzonte del mondo. Lo spazio si apre, si spazializza fecondato dal tempo. Lo spazio si spazializza perché entra in gioco il tempo, l’estraneo che ci accompagna in ogni nostro atto o pensiero. Il tempo è la possibilità possibile dello spazio, l’incarnazione dell’Estraneo.
Ecco il quadro di apertura di Dittico praghese:
Strassenbahn Praga
Dittico praghese
Efemeridos
(per Alfredo de Palchi)
In treno
nel respiro di giorni
straniti… Mi riscrivo
(non è forse sempre così?), Leibowitz
stamattina discetta di possibili
reincarnazioni dopo il fatale congedo
e anche – da scaltro leguleio – di
mediazioni e di auspicabili
faustiane negoziazioni
nei suoi occhi di antico ebreo
l’inestinguibile fiducia
per il gruzzolo d’anni
che ancora ci rimangono, a noi
condannati a morte fin dalla nascita.
A un certo punto l’Heritage
mi è sembrato un barcone alla deriva
e noi due gli unici sopravvissuti:
novelli Vladimiro ed Estragone
scampati al disastro
con la sola parola rimastaci
come lascito estremo
in attesa che Qualcuno o Qualcosa
venisse a salvarci, indicandoci
una via d’uscita, una scelta, uno spiraglio,
una risoluzione, uno scampo.
Poi ci siamo scambiati
consigli e ammonimenti
propositi e medicamenti
come fanno vecchi amici
frattanto divenuti amici vecchi…
“A maggio potremo rigiocare
un po’ a tennis… sì, ma, però,
forse, magari in quattro, chissà, o anche a tre.”
Più tardi accompagno Irene ad Islip
il MacArthur dieci del mattino
quasi deserto, come a dirci
inutile partire o ritornare
perché non restate dove siete?
Sylvia che al solito vive soprattutto
per riflessi e riporti era
ansiosa di sapere ogni particolare
del Gala americo-italiota dell’altra sera
dove si è parlato soltanto di quattrini
di genitori di nonni o bisnonni emigrati
fratelli cognati nipoti cugini
esuli trapiantati in questa
terra di tutti e di nessuno, l’unica
secondo loro che Dio ha benedetto
e bontà sua continua a benedire, e anche
di misfatti e di glorie
di sacrifici e di guadagni
di successi folgoranti per sé e per altri
amici e parenti più o meno benestanti.
Uno dei due festeggiati
ha raccontato della sua fortuna
di ricco palazzinaro, oggi
più che ottantenne, fiero
della sua collezione di 32 Ferrari
(dico trentadue), mentre
con affettata indolenza (o senile demenza)
ha annunciato d’aver già ordinato
la trentatreesima del 2012
e quella del 2013 e del 2014, sicuro
sicurissimo, senza alcuna paura
della sua sopravvivenza. Tutto qua
il discorsetto della sua cultura.
Arrivo infine alla Penn, gente-matassa
s’addensa a fiotti sulle scale, tanta
ch’i’ non avrei mai creduto
che morte tanta n’avesse disfatta
culi diversi e deformi davanti a me
ascendono in fila, striscianti
semoventi silenziosi sudoranti
come animali da carneficina.
Mi sono improvvisamente rivisto
34 anni prima quando
da Princeton arrivavo in questa
Caina mezzo imbambolato
tra migliaia di volti muti e stravolti
e mi avviavo verso la Columbia. Primavera
millenavocentosettantasette.
Il taxi-driver guida incurante
di niente e di nessuno
infilando a memoria
uno dopo l’altro versetti del Corano:
un sordo brontolio senz’altro segno
che mi accompagna
fino alla settantaduesima. L’appuntamento
per l’intervista al Cafè Aroma
è con un tale mezzo giornalista mezzo professore
un po’ saccente un po’ seccante un po’ deficiente.
Dopo qualche melenso convenevole
comincia non richiesto
a sciorinarmi notizie indizi indirizzi
e perfino familiari ascendenze
del mio borgo natio Carifi:
località del tutto inesistente
in qualsivoglia carta stradale
della nostra italica peninsula
“Vi nacque Ovidio Serino
uno dei Mille, che da prete
si fece rivoluzionario garibaldino.”
Questa, in effetti, l’unica
gloria della mia angusta contrada,
fatta di un’unica stradetta
che tutta la taglia a metà
ove mio padre nel settembre del ’43
trovò rifugio insieme con la sua
sposa bambina, una diciottenne
fresca e aulente cresciuta
nel Cilento ma di origine vaporina
sùbito incinta del suo
Luigi Augusto e molto poco Guerriero…
(Ora che sono andato negli anni
rimpiango non averli mai
interrogati - né lui Tenente della nostra
regia armata né lei bellissima e nullatenente -
su quella rocambolesca fuga dal porto di Salerno
tra i continui bombardamenti
dei neo-alleati, sul come
di quello sfollamento, sul perché
di quello spostamento
proprio a San Severino
e in quella borgata Carifi…).
Soprappensiero intanto la mia controfigura
risponde con sufficiente convinzione
alla prevedibili domande
del questuante, mentre lui – faccia da mastino –
mi guarda con occhi bolsi e sospetti
fingendo di prendere qualche inutile appunto.
Arrivano due sfigati
si siedono alla mia sinistra, sgombrando
bruschi e sgraziati il mio cappotto
e le mie carte, accelerando di fatto
la fine di questa stolida intervista.
Un’ora più tardi sono da Alfredo
incartato nel suo bugigattolo.
Ed eccoci qualche minuto dopo
sulla Sesta all’incrocio con Bleeker
e poi in Cornelia Street.
Presso l’omonimo Cafè ci aspetta
Luigi con il suo fido Gil
che ama ritrovare l’odore del Chianti
e del sigaro del nonno nel suo Connecticut.
Il mio amico si ostina da anni e io con lui
a tradurre e catalogare
non so con che ragione
autori espatriati, per poi ritrovarci
periodicamente in questa oscura
cantinetta buio budello del Village
ove ci leggiamo addosso i nostri versi. Una sfida
che sfiora un’eroica incoscienza
o la più gratuita demenza
della nostra tribù. Ma forse
solo un pretesto per ritrovarci
insieme a cena nella chiassosa Lupa Romana
o al Pitti sulla Sesta, immaginando
d’essere in qualche trattoria
di Trastevere o San Frediano.
La serata tra una sbevazzata e una risata
volge presto al termine. Alfredo
alla mia sinistra fruga invano nel piatto
alla ricerca dei suoi ricci di mare, Beppe
ora diventato Joseph alla mia destra
è un gemello rovesciato
eterno ragazzo strapaesano, proprio con lui
cominciai trent’anni fa la mia recitazione. Ora
mi sembra impossibile che
tra un boccone e l’altro parliamo ancora di poesia
cinema donne sesso viaggi un improbabile congresso e…
della prossima pensione. Seguo non seguo
l’incessante chiacchiericcio e già
penso al dopo, all’ansia di non
perdere il treno…
“Alla prossima”
mi dice l’amico presso la Penn
quasi parlando a se stesso
… sì alla prossima… fra un mese
o fra un anno, che importa? Sono già
seduto nel treno, spalle rivolte
alla mia destinazione, mentre
davanti ai miei occhi socchiusi
tutto vertiginosamente regredisce, sfuma
e si fa sogno
oblìo
ombra
aria
illusione.