Beloslava Dimitrova POESIE SCELTE da "La natura selvaggia Arcipelagoitaca", 2016 – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato - La finzione dell'io è un palcoscenico vuoto e spoglio

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa
Grafiche di Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Helle Busacca

Beloslava Dimitrova nasce il 2 aprile 1986 a Sofia, Bulgaria. Per alcuni anni ha lavorato alla radio nazionale bulgara come conduttrice di un programma pomeridiano orientato ai giovani ascoltatori; dal dicembre 2016 lavora come giornalista per il sito “Sofia Live”. Alcune sue poesia sono state pubblicate su varie testate telematiche. Nel 2012 pubblica il suo primo libro di poesie, Inizio e fine edito dalla Casa editrice dell’Università di Sofia. Nell’aprile 2014 esce la raccolta di versi La natura selvaggia (ed. Deja Book).

 Giorgio Linguaglossa

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. 

Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio

Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia. Il mondo è andato in frantumi. È andato in frantumi il principio di identità, quella identità  si è poi scoperto che era una contraddizione e una contraffazione e il soggetto non può che percepire i frantumi di quella presunta identità come altamente contraddittori e conflittuali. Lo stesso Severino, il filosofo per eccellenza della identità, ha rilevato che porre A=A è ammettere che A sia diverso da A. che cioè l’identità implica in sé la diversità e la non-identità. Anche Derrida invocava a pensare l’orizzonte della rimozione come dell’accadere di un evento, secondo «una nuova logica del rimosso». L’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede alla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date; pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione, dalla confusione tra il nome e la cosa…

Gli oggetti esterni sono percepiti frantumati, al pari degli oggetti interni. Anche il metro della poesia ne è uscito frantumato, il metro della Beloslava, per eccellenza. Per il fatto di avere questa relazione doppia con se stesso, il soggetto ha finito per girare sempre intorno all’ombra errante del proprio «io», ci gira intorno dall’esterno, lo circumnaviga, sospettoso e distratto. Quello che qui si presenta è l’allestimento di varie scene nelle quali il soggetto e l’oggetto sono irrimediabilmente separati da se stessi come in preda a una diplopia, figura essi stessi della loro schisi, della loro deiscenza all’interno del mondo – quell’oggetto che per essenza distrugge l’«io» del soggetto, che lo angoscia, che non può raggiungere, in cui non può trovare alcuna riconciliazione, alcuna aderenza al mondo, alcuna complementarità. Tra «oggetto» ed «io», tra «soggetto» ed «io» si è instaurata una scissione, una Spaltung, è cresciuto un muro divisorio che diventa sempre più alto e spesso.

La poesia di Beloslava Dimitrova eredita tutta questa frantumazione del frammento, questa polverizzazione dell’«oggetto» e del «soggetto». E questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone ridotte ai minimi termini dell’azione semantica.

Ho avuto paura di morire
ho avuto paura di impazzire
ho avuto paura di uccidere qualcuno

La dialettica dell’infelicità ha inizio con l’auto alienazione originaria, quella che abita il linguaggio dall’origine. Da qui, dice Lacan, dallo stadio dello specchio deriva l’auto alienazione dell’uomo. È da qui che si struttura ogni futuro rapporto dell’homo sapiens con il proprio simile e con se stesso. L’io alienato allo specchio, l’io «ortopedico», come lo chiama Lacan è questo tutto immaginario speculare al non-tutto del corpo in frammenti e del mondo in frammenti, espressione del qui e ora del soggetto infans, quel medesimo soggetto che diventerà il soggetto locutorio, il soggetto falsificatorio della poesia moderna da Baudelaire in poi che la poesia di Beloslava Dimitrova eredita con il beneplacito dei poeti eufonici ed eugenici. Così, ogni parola pronunciata dall’«io» non può che sortire inferma, falsificata; anche la parola più amorevole, più inerme.

Nello stadio dello specchio si situa la forma inaugurale del soggetto in quanto «io». L’«io», dirà Lacan, «si precipita in una forma primordiale». Prima del linguaggio, del linguaggio parlato dal soggetto, si dà già questa struttura cerimoniale dell’io del soggetto che svela quanto la costituzione del soggetto sia avvinta all’Altro, alla sua cattura divaricante, quella forma speculare che introduce la rappresentazione come «linea di finzione» in cui trova posto l’«identità». La funzione dell’Altro così come si svolge nello stadio dello specchio illustra nient’altro che l’«io» come finzione, allestimento scenico, palcoscenico vuoto. E questa dialettica, infinitamente debitrice della dialettica servo-padrone hegeliana, ci porta a scoprire, nello sguardo rivolto all’altro, la dimensione che soggiace alla funzione dell’io, alla sua strutturazione immaginaria, quella del desiderio come desiderio di riconoscimento, prima formulazione del desiderio in Lacan.

La linea di demarcazione della autoalienazione taglia in diagonale la poesia di Beloslava Dimitrova conferendole quel suo tipico «taglio» chirurgico, quei polinomi frastici tagliati ossessivamente, netti e precisi e altalenanti, come decapitati di tutto il sovrappiù, di tutti gli esotismi eufonici ed episodici. La «natura selvaggia» viene ad essere attraversata da una infermità, dalla auto alienazione diventata nuova natura, seconda natura. Paradossale perversione che la Dimitrova rileva con la precisione di una risonanza magnetica.

Sono stata disperata per anni
sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80
sono stata una tortura per me stessa

Giorgio Linguaglossa
Kjell Espmark

La nuova poesia europea non può non occuparsi di questa questione, che diventa ogni giorno più ingombrante e dispotica: l’impossibilità di abitare un luogo, uno spazio, un tempo, qualsiasi luogo, qualsiasi spazio, qualsiasi tempo senza toccare con mano ed avvertire questa revulsione che principia dalla materia e dalla stessa materia del nostro corpo per infine dilagare in ogni zona delle nostre dimensioni. Questo è un problema filosofico ed una condizione esistenziale che la poesia di Beloslava Dimitrova affronta con coraggio. La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio dove si celebra il rito tautologico della ripetizione ossessiva dei medesimi gesti maniacali quando, improvvisamente, ci si accorge che siamo in una automobile che corre su una strada in compagnia di nostro padre, in un non luogo di sottile lamiera, impegnati in un non-dialogo, in un non-luogo per eccellenza direbbe Lyotard. Ed è lì che accadono delle cose bizzarre, ultronee:

un’auto lungo la strada
l’autista è mio padre
incontriamo un disastro
un vero fallimento
dell’umano
abbiamo molta fretta
procediamo velocissimi
per evitarlo
entra comunque in auto
si siede sul sedile posteriore
ci trasporta su di un fiume
con mio padre siamo in una barca
il nostro compito è contare
i coccodrilli sulla costa
uno due tre quattro
cinque sette
c’è pericolo reale
che ci mangino mentre contiamo
lui dice

La poesia della Dimitrova pesca nelle profondità dell’inconscio, ma l’Inconscio non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco, esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, rappresentazioni cieche perché non munite di parola, che consistono «nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini», scrive Freud ne La metapsicologia (1915).

L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto.

Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo ancora Freud, per il quale la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali.

In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di «farsi sentire» nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung.

«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali» 1

L’inconscio non è l’inconoscibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni; il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più radicale essere.
L’inconscio è un inter-detto, esso non ha nulla dell’oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale feroce e muto. L’inconscio è sì muto, ma solo perché in esso sono presenti unicamente Sachevorstellung. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. l’«io», pensa, ma pensa parole. E qui l’inconscio incontra il quotidiano. Il quotidiano c’è ma come in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato in porzioni farmaceutiche («la voce di tua madre dal corridoio / il rumore delle ciabatte trascinate»). Ecco, tutti i luoghi della Dimitrova sono in realtà dei non-luoghi, dei luoghi onirici, o meglio, dei luoghi ricostruiti oniricamente e poi decostruiti razionalmente. Direi che qui siamo davanti ad una poesia in vitro, priva di temporalità: i personaggi e i luoghi sembrano essere stati abbandonati dalla temporalizzazione, che vivano privi di temporalità; certi titoli e certi incipit sono emblematici di questa condizione esistenziale di assenza di parole temporalizzate: «Per gradi affoghiamo nel vuoto», «Fetus», «In due», «avvelenamento», «Due», «Orca», «Malata», «Silenzio».

1 Freud Sigmund Metapsicologia trad. it. Boringhieri,

Giorgio Linguaglossa

Beloslava Dimitrova

Sciocchi

Il mondo era pieno di padri – dunque pieno di miserie; era pieno di madri – dunque anche pieno di perversioni di ogni tipo – dal sadismo alla pudicizia; era pieno di fratelli, sorelle, zii e zie – dunque pieno  anche di follia e di suicidi.

Aldous Huxley, Il mondo nuovo (Brave New World)

 

 

un’auto lungo la strada

l’autista è mio padre

incontriamo un disastro

un vero fallimento

dell’umano

abbiamo molta fretta

procediamo velocissimi

per evitarlo

entra comunque in auto

si siede sul sedile posteriore

ci trasporta su di un fiume

con mio padre siamo in una barca

il nostro compito è contare

i coccodrilli sulla costa

uno due tre quattro

cinque sette

c’è il pericolo reale

che ci mangino mentre contiamo

lui dice

fosse stato un rito antico

mi avrebbe insegnato qualcosa

mi dico va be’

non avere paura

l’hanno fatto 

generazioni prima di noi

io faccio la mia parte

io sono solo una persona

questi sono i miei avi

non mi accorgo 

che ci hanno circondati

che ormai spingono la barca

il quarto rosicchia il remo

il primo mi guarda sa

proprio dove e come

trovare il sangue

e non ci siamo aggrappati

l’uno all’altra e contiamo

 

alcuni minuti dopo

mi volto guardo

il sedile a sinistra

quando tutto è finito

quello seduto lì

non è più nemmeno

mio padre

 

 

Natura

 

realmente nessuno è stato ucciso

ognuno salta volontariamente

alcuni figli molto bravi

sono divenuti tossicodipendenti

i pazzi si arrampicano sulle pareti

avanzano con movimenti rotatori

questo non ha alcun senso

non ho svegliato nessuno

prendi questo veleno

avvicinalo alla tua bocca

mentre sei incinta

ti supplico

 

 

Natura #2

 

la rete era

aggrovigliata sapevo

che qualcosa mi sarebbe potuto capitare

d'improvviso appare un essere a sangue caldo

gli sono dentro 

posso morire

 

 

In due

 

la nostra unione

ora non è più

fratellanza

ordine cavalleresco

cavalchiamo, io e il mio compagno 

due cavalli bianchi

mentre attraversiamo

boschi mari montagne

con uno sbadiglio dico

odio tutti

siamo felici

avanziamo pensiamo alla terra

alle generazioni siamo insieme

è così confortevole

così tanti spazi

abbiamo popolato

così tanta aria

abbiamo respirato

che ormai non ricordiamo più

ci abituiamo e mentiamo perciò

viviamo insieme

lui mi accarezza la schiena

spera che mai ci lasceremo

perché allora dovrebbe farlo

lui

i nostri averi non saranno più di entrambi

dovremmo dividere

tutto in parti uguali

non è così difficile

rimangono solo rovine

mentre cavalco il mio cavallo bianco

mi accorgo

di avere stretto 

troppo con gli speroni

e durante tutto il tempo lui       

non ha smesso di sanguinare

 

 

Gatto

 

[...]

  fossero alquanto e l'animo smagato,

non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato;

l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.

Dante Alighieri, 

La Divina Commedia, Inferno, Canto XXV, vv.  146-151

 

ho sonno o sogno

lo racconto così

dormo profondamente

poi qualcuno o qualcosa mi sveglia

vedo un gatto nero

vecchio ma vivo 

accanto a me è distesa un’altra persona  

dorme

il gatto mi guarda

si gira io sono prona

comincia a correre furioso in diagonale

rispetto al letto si ferma

prima avrei detto

che tutto questo è divertente gaio giocoso

d'un tratto il gatto decide di fermarsi

sulla mia faccia con le zampe anteriori e posteriori

forma un semicerchio

veloce gratta con gli artigli

proprio adesso mi rendo conto

che questa è la mia punizione

poi ritorna nell'angolo opposto

l’uomo accanto a me non si sveglia

so che accadrà ancora

arriva di nuovo

tutto graffia con le sue zampe

fa 200 giri al minuto

poi si ritira

mi guarda di nuovo

capisco che non ho più faccia

che uno dei miei occhi si è come sciolto

che ormai non si parla di sangue

ma di muco

l'uomo accanto a me ne è completamente imbrattato

si continua

strillo imploro tento la fuga

diventa sempre più forte

si fonde con me entra

con tutte le sue parti in me

cerco di calmarmi

salta gira si getta ancora

ormai non esisto più né esiste l'uomo accanto a me

anche visti da un'altra prospettiva

saremmo irriconoscibili

è chiaro che non si tratta comunque di un uomo

ora siamo due

ci alziamo dal letto

andiamo

e cerchiamo te

 

 

Essere umano

 

a  A.

 

mi trovo a 2130 metri di altezza sul livello del mare

in altre parole sono seduto sull’abisso del mondo

tutto è ricoperto di vulcani e gеysers 

che vomitano vapore acqueo e acqua infuocata dallo zolfo

e di nuovo mi ricordo e ti chiedo come siamo arrivati a questo

punto

rigiro la roccia ti indico

ti mostro il letto pieno di batteri

caldo e poco profondo  l’ambiente è lo stesso

spero che questa volta che non sopraggiungano improvvisi

cambiamenti

che non ci siano complicazioni e mutazioni

che alla fine si chiuda

che le pinne dei pesci

non mutino

in arti

che non  escano  dall’acqua serpenti e rettili

che ad alcuni di loro non crescano le piume

che non diventino volatili

che il miracolo dell’evoluzione non accada

che non appaia l’uomo

che non appaia di nuovo 

che sia soltanto io che apparire

 

----------- p. 59-60

 

Mi sono ricordata di nuovo la fine

ogni scena a seguire, una dopo l’altra

eravamo in una Roma

piovosa

Mi hai abbracciata di fronte alle rovine 

e la storia di queste non sapevo

Mi hai baciata di fronte alla Fontana

mentre gettavo la moneta

ho aperto gli occhi

Hai pianto senza di me alla tomba di Keats

mentre io ero da Shelley

poi sola ho pianto

di fronte all’Angelo della tristezza

mi hai fatto una foto senza che io volessi

di fronte alle chiese gemelle di Santa Maria

poi con te sono entrata

mentre c’era una veglia

hai detto «Tranquilla si può entrare»

e sapevi che ho sempre avuto paura dei morti

poi soli in quel ristorantino biancorosso

con le foto delle gambe della Loren

ti ho detto che

a volte era come non ti conoscessi

e all'improvviso sei divenuto triste

ognuno soffriva solo,

per se stesso

е tu hai chiuso a chiave l’amore dicendo

«a Roma ognuno dovrebbe essere solo»

Mi sono ricordata i lucchetti

uniti arrugginiti insieme

fioriti sull’isola dell’Angelo

 

 

Mi addentro

 

Ho scritto della mia paura

ho scritto di quello che è

capitato alla mia famiglia

mio fratello malato la dipendenza

il mio squilibrio pericoloso

il dissolvimento del più grande e del più piccolo

 

Sono stata disperata per anni

sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80

sono stata una tortura per me stessa

 

Ho avuto paura di morire

ho avuto paura di impazzire

ho avuto paura di uccidere qualcuno

 

A volte, ma sempre con forza, mi sono ricordata di mia nonna

per il suo armadio con saponi zucchero e farina

hanno bombardato la sua anima

e il primogenito della famiglia è nato morto in prigione

 

E collera e paura sono germogliate

non sapevo cosa ne avrei fatto

per questo le ho raccolte dentro 

non potevo buttarle via

non mi hanno aiutata né le medicine

né la terapia più economica a Sofia 

né la società pseudo democratica in cui sono cresciuta

 

Infatti una volta una volta sola

ho avuto sollievo dalla sofferenza ereditata dalla mia famiglia

quando per la prima volta ho visto gente che scappava in un

[campo

ero di fronte al televisore con la mano e la mente paralizzate

 

Allora li ho visti come correvano, come si salvavano

come gli istinti si sono svegliati

ho guardato nel profondo con insistenza 

ho dimostrato coraggio mi sono presa per il collo

qualcosa ho cominciato a comprendere

 

Ho visto una barca in cui hanno messo un bambino

e la madre ha spinto la barca

Ero io quel bambino?

Eri tu quel bambino?