Grafiche di Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura e Helle Busacca
Beloslava Dimitrova nasce il 2 aprile 1986 a Sofia, Bulgaria. Per alcuni anni ha lavorato alla radio nazionale bulgara come conduttrice di un programma pomeridiano orientato ai giovani ascoltatori; dal dicembre 2016 lavora come giornalista per il sito “Sofia Live”. Alcune sue poesia sono state pubblicate su varie testate telematiche. Nel 2012 pubblica il suo primo libro di poesie, Inizio e fine edito dalla Casa editrice dell’Università di Sofia. Nell’aprile 2014 esce la raccolta di versi La natura selvaggia (ed. Deja Book).
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il quotidiano c’è ma come messo in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato – La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio
Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia. Il mondo è andato in frantumi. È andato in frantumi il principio di identità, quella identità si è poi scoperto che era una contraddizione e una contraffazione e il soggetto non può che percepire i frantumi di quella presunta identità come altamente contraddittori e conflittuali. Lo stesso Severino, il filosofo per eccellenza della identità, ha rilevato che porre A=A è ammettere che A sia diverso da A. che cioè l’identità implica in sé la diversità e la non-identità. Anche Derrida invocava a pensare l’orizzonte della rimozione come dell’accadere di un evento, secondo «una nuova logica del rimosso». L’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede alla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date; pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione, dalla confusione tra il nome e la cosa…
Gli oggetti esterni sono percepiti frantumati, al pari degli oggetti interni. Anche il metro della poesia ne è uscito frantumato, il metro della Beloslava, per eccellenza. Per il fatto di avere questa relazione doppia con se stesso, il soggetto ha finito per girare sempre intorno all’ombra errante del proprio «io», ci gira intorno dall’esterno, lo circumnaviga, sospettoso e distratto. Quello che qui si presenta è l’allestimento di varie scene nelle quali il soggetto e l’oggetto sono irrimediabilmente separati da se stessi come in preda a una diplopia, figura essi stessi della loro schisi, della loro deiscenza all’interno del mondo – quell’oggetto che per essenza distrugge l’«io» del soggetto, che lo angoscia, che non può raggiungere, in cui non può trovare alcuna riconciliazione, alcuna aderenza al mondo, alcuna complementarità. Tra «oggetto» ed «io», tra «soggetto» ed «io» si è instaurata una scissione, una Spaltung, è cresciuto un muro divisorio che diventa sempre più alto e spesso.
La poesia di Beloslava Dimitrova eredita tutta questa frantumazione del frammento, questa polverizzazione dell’«oggetto» e del «soggetto». E questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone ridotte ai minimi termini dell’azione semantica.
Ho avuto paura di morire
ho avuto paura di impazzire
ho avuto paura di uccidere qualcuno
La dialettica dell’infelicità ha inizio con l’auto alienazione originaria, quella che abita il linguaggio dall’origine. Da qui, dice Lacan, dallo stadio dello specchio deriva l’auto alienazione dell’uomo. È da qui che si struttura ogni futuro rapporto dell’homo sapiens con il proprio simile e con se stesso. L’io alienato allo specchio, l’io «ortopedico», come lo chiama Lacan è questo tutto immaginario speculare al non-tutto del corpo in frammenti e del mondo in frammenti, espressione del qui e ora del soggetto infans, quel medesimo soggetto che diventerà il soggetto locutorio, il soggetto falsificatorio della poesia moderna da Baudelaire in poi che la poesia di Beloslava Dimitrova eredita con il beneplacito dei poeti eufonici ed eugenici. Così, ogni parola pronunciata dall’«io» non può che sortire inferma, falsificata; anche la parola più amorevole, più inerme.
Nello stadio dello specchio si situa la forma inaugurale del soggetto in quanto «io». L’«io», dirà Lacan, «si precipita in una forma primordiale». Prima del linguaggio, del linguaggio parlato dal soggetto, si dà già questa struttura cerimoniale dell’io del soggetto che svela quanto la costituzione del soggetto sia avvinta all’Altro, alla sua cattura divaricante, quella forma speculare che introduce la rappresentazione come «linea di finzione» in cui trova posto l’«identità». La funzione dell’Altro così come si svolge nello stadio dello specchio illustra nient’altro che l’«io» come finzione, allestimento scenico, palcoscenico vuoto. E questa dialettica, infinitamente debitrice della dialettica servo-padrone hegeliana, ci porta a scoprire, nello sguardo rivolto all’altro, la dimensione che soggiace alla funzione dell’io, alla sua strutturazione immaginaria, quella del desiderio come desiderio di riconoscimento, prima formulazione del desiderio in Lacan.
La linea di demarcazione della autoalienazione taglia in diagonale la poesia di Beloslava Dimitrova conferendole quel suo tipico «taglio» chirurgico, quei polinomi frastici tagliati ossessivamente, netti e precisi e altalenanti, come decapitati di tutto il sovrappiù, di tutti gli esotismi eufonici ed episodici. La «natura selvaggia» viene ad essere attraversata da una infermità, dalla auto alienazione diventata nuova natura, seconda natura. Paradossale perversione che la Dimitrova rileva con la precisione di una risonanza magnetica.
Sono stata disperata per anni
sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80
sono stata una tortura per me stessa
Kjell Espmark
La nuova poesia europea non può non occuparsi di questa questione, che diventa ogni giorno più ingombrante e dispotica: l’impossibilità di abitare un luogo, uno spazio, un tempo, qualsiasi luogo, qualsiasi spazio, qualsiasi tempo senza toccare con mano ed avvertire questa revulsione che principia dalla materia e dalla stessa materia del nostro corpo per infine dilagare in ogni zona delle nostre dimensioni. Questo è un problema filosofico ed una condizione esistenziale che la poesia di Beloslava Dimitrova affronta con coraggio. La finzione dell’io è un palcoscenico vuoto e spoglio dove si celebra il rito tautologico della ripetizione ossessiva dei medesimi gesti maniacali quando, improvvisamente, ci si accorge che siamo in una automobile che corre su una strada in compagnia di nostro padre, in un non luogo di sottile lamiera, impegnati in un non-dialogo, in un non-luogo per eccellenza direbbe Lyotard. Ed è lì che accadono delle cose bizzarre, ultronee:
un’auto lungo la strada
l’autista è mio padre
incontriamo un disastro
un vero fallimento
dell’umano
abbiamo molta fretta
procediamo velocissimi
per evitarlo
entra comunque in auto
si siede sul sedile posteriore
ci trasporta su di un fiume
con mio padre siamo in una barca
il nostro compito è contare
i coccodrilli sulla costa
uno due tre quattro
cinque sette
c’è pericolo reale
che ci mangino mentre contiamo
lui dice
La poesia della Dimitrova pesca nelle profondità dell’inconscio, ma l’Inconscio non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco, esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, rappresentazioni cieche perché non munite di parola, che consistono «nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini», scrive Freud ne La metapsicologia (1915).
L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto.
Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo ancora Freud, per il quale la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali.
In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di «farsi sentire» nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung.
«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali» 1
L’inconscio non è l’inconoscibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni; il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più radicale essere.
L’inconscio è un inter-detto, esso non ha nulla dell’oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale feroce e muto. L’inconscio è sì muto, ma solo perché in esso sono presenti unicamente Sachevorstellung. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. l’«io», pensa, ma pensa parole. E qui l’inconscio incontra il quotidiano. Il quotidiano c’è ma come in vitro, in un alambicco, vivisezionato e porzionato in porzioni farmaceutiche («la voce di tua madre dal corridoio / il rumore delle ciabatte trascinate»). Ecco, tutti i luoghi della Dimitrova sono in realtà dei non-luoghi, dei luoghi onirici, o meglio, dei luoghi ricostruiti oniricamente e poi decostruiti razionalmente. Direi che qui siamo davanti ad una poesia in vitro, priva di temporalità: i personaggi e i luoghi sembrano essere stati abbandonati dalla temporalizzazione, che vivano privi di temporalità; certi titoli e certi incipit sono emblematici di questa condizione esistenziale di assenza di parole temporalizzate: «Per gradi affoghiamo nel vuoto», «Fetus», «In due», «avvelenamento», «Due», «Orca», «Malata», «Silenzio».
1 Freud Sigmund Metapsicologia trad. it. Boringhieri,
Beloslava Dimitrova
Sciocchi
Il mondo era pieno di padri – dunque pieno di miserie; era pieno di madri – dunque anche pieno di perversioni di ogni tipo – dal sadismo alla pudicizia; era pieno di fratelli, sorelle, zii e zie – dunque pieno anche di follia e di suicidi.
Aldous Huxley, Il mondo nuovo (Brave New World)
un’auto lungo la strada
l’autista è mio padre
incontriamo un disastro
un vero fallimento
dell’umano
abbiamo molta fretta
procediamo velocissimi
per evitarlo
entra comunque in auto
si siede sul sedile posteriore
ci trasporta su di un fiume
con mio padre siamo in una barca
il nostro compito è contare
i coccodrilli sulla costa
uno due tre quattro
cinque sette
c’è il pericolo reale
che ci mangino mentre contiamo
lui dice
fosse stato un rito antico
mi avrebbe insegnato qualcosa
mi dico va be’
non avere paura
l’hanno fatto
generazioni prima di noi
io faccio la mia parte
io sono solo una persona
questi sono i miei avi
non mi accorgo
che ci hanno circondati
che ormai spingono la barca
il quarto rosicchia il remo
il primo mi guarda sa
proprio dove e come
trovare il sangue
e non ci siamo aggrappati
l’uno all’altra e contiamo
alcuni minuti dopo
mi volto guardo
il sedile a sinistra
quando tutto è finito
quello seduto lì
non è più nemmeno
mio padre
Natura
realmente nessuno è stato ucciso
ognuno salta volontariamente
alcuni figli molto bravi
sono divenuti tossicodipendenti
i pazzi si arrampicano sulle pareti
avanzano con movimenti rotatori
questo non ha alcun senso
non ho svegliato nessuno
prendi questo veleno
avvicinalo alla tua bocca
mentre sei incinta
ti supplico
Natura #2
la rete era
aggrovigliata sapevo
che qualcosa mi sarebbe potuto capitare
d'improvviso appare un essere a sangue caldo
gli sono dentro
posso morire
In due
la nostra unione
ora non è più
fratellanza
ordine cavalleresco
cavalchiamo, io e il mio compagno
due cavalli bianchi
mentre attraversiamo
boschi mari montagne
con uno sbadiglio dico
odio tutti
siamo felici
avanziamo pensiamo alla terra
alle generazioni siamo insieme
è così confortevole
così tanti spazi
abbiamo popolato
così tanta aria
abbiamo respirato
che ormai non ricordiamo più
ci abituiamo e mentiamo perciò
viviamo insieme
lui mi accarezza la schiena
spera che mai ci lasceremo
perché allora dovrebbe farlo
lui
i nostri averi non saranno più di entrambi
dovremmo dividere
tutto in parti uguali
non è così difficile
rimangono solo rovine
mentre cavalco il mio cavallo bianco
mi accorgo
di avere stretto
troppo con gli speroni
e durante tutto il tempo lui
non ha smesso di sanguinare
Gatto
[...]
fossero alquanto e l'animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.
Dante Alighieri,
La Divina Commedia, Inferno, Canto XXV, vv. 146-151
ho sonno o sogno
lo racconto così
dormo profondamente
poi qualcuno o qualcosa mi sveglia
vedo un gatto nero
vecchio ma vivo
accanto a me è distesa un’altra persona
dorme
il gatto mi guarda
si gira io sono prona
comincia a correre furioso in diagonale
rispetto al letto si ferma
prima avrei detto
che tutto questo è divertente gaio giocoso
d'un tratto il gatto decide di fermarsi
sulla mia faccia con le zampe anteriori e posteriori
forma un semicerchio
veloce gratta con gli artigli
proprio adesso mi rendo conto
che questa è la mia punizione
poi ritorna nell'angolo opposto
l’uomo accanto a me non si sveglia
so che accadrà ancora
arriva di nuovo
tutto graffia con le sue zampe
fa 200 giri al minuto
poi si ritira
mi guarda di nuovo
capisco che non ho più faccia
che uno dei miei occhi si è come sciolto
che ormai non si parla di sangue
ma di muco
l'uomo accanto a me ne è completamente imbrattato
si continua
strillo imploro tento la fuga
diventa sempre più forte
si fonde con me entra
con tutte le sue parti in me
cerco di calmarmi
salta gira si getta ancora
ormai non esisto più né esiste l'uomo accanto a me
anche visti da un'altra prospettiva
saremmo irriconoscibili
è chiaro che non si tratta comunque di un uomo
ora siamo due
ci alziamo dal letto
andiamo
e cerchiamo te
Essere umano
a A.
mi trovo a 2130 metri di altezza sul livello del mare
in altre parole sono seduto sull’abisso del mondo
tutto è ricoperto di vulcani e gеysers
che vomitano vapore acqueo e acqua infuocata dallo zolfo
e di nuovo mi ricordo e ti chiedo come siamo arrivati a questo
punto
rigiro la roccia ti indico
ti mostro il letto pieno di batteri
caldo e poco profondo l’ambiente è lo stesso
spero che questa volta che non sopraggiungano improvvisi
cambiamenti
che non ci siano complicazioni e mutazioni
che alla fine si chiuda
che le pinne dei pesci
non mutino
in arti
che non escano dall’acqua serpenti e rettili
che ad alcuni di loro non crescano le piume
che non diventino volatili
che il miracolo dell’evoluzione non accada
che non appaia l’uomo
che non appaia di nuovo
che sia soltanto io che apparire
----------- p. 59-60
Mi sono ricordata di nuovo la fine
ogni scena a seguire, una dopo l’altra
eravamo in una Roma
piovosa
Mi hai abbracciata di fronte alle rovine
e la storia di queste non sapevo
Mi hai baciata di fronte alla Fontana
mentre gettavo la moneta
ho aperto gli occhi
Hai pianto senza di me alla tomba di Keats
mentre io ero da Shelley
poi sola ho pianto
di fronte all’Angelo della tristezza
mi hai fatto una foto senza che io volessi
di fronte alle chiese gemelle di Santa Maria
poi con te sono entrata
mentre c’era una veglia
hai detto «Tranquilla si può entrare»
e sapevi che ho sempre avuto paura dei morti
poi soli in quel ristorantino biancorosso
con le foto delle gambe della Loren
ti ho detto che
a volte era come non ti conoscessi
e all'improvviso sei divenuto triste
ognuno soffriva solo,
per se stesso
е tu hai chiuso a chiave l’amore dicendo
«a Roma ognuno dovrebbe essere solo»
Mi sono ricordata i lucchetti
uniti arrugginiti insieme
fioriti sull’isola dell’Angelo
Mi addentro
Ho scritto della mia paura
ho scritto di quello che è
capitato alla mia famiglia
mio fratello malato la dipendenza
il mio squilibrio pericoloso
il dissolvimento del più grande e del più piccolo
Sono stata disperata per anni
sono stata creata per conforto alla fine degli anni 80
sono stata una tortura per me stessa
Ho avuto paura di morire
ho avuto paura di impazzire
ho avuto paura di uccidere qualcuno
A volte, ma sempre con forza, mi sono ricordata di mia nonna
per il suo armadio con saponi zucchero e farina
hanno bombardato la sua anima
e il primogenito della famiglia è nato morto in prigione
E collera e paura sono germogliate
non sapevo cosa ne avrei fatto
per questo le ho raccolte dentro
non potevo buttarle via
non mi hanno aiutata né le medicine
né la terapia più economica a Sofia
né la società pseudo democratica in cui sono cresciuta
Infatti una volta una volta sola
ho avuto sollievo dalla sofferenza ereditata dalla mia famiglia
quando per la prima volta ho visto gente che scappava in un
[campo
ero di fronte al televisore con la mano e la mente paralizzate
Allora li ho visti come correvano, come si salvavano
come gli istinti si sono svegliati
ho guardato nel profondo con insistenza
ho dimostrato coraggio mi sono presa per il collo
qualcosa ho cominciato a comprendere
Ho visto una barca in cui hanno messo un bambino
e la madre ha spinto la barca
Ero io quel bambino?
Eri tu quel bambino?