Enrico Castelli Gattinara. Otto frammenti sui frammenti: Per una filosofia del frammento. Idealtipi, Frammenti, Strappi, Tracce, Sogni e ricordi, Aforismi, Lavori, Rumori

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
Enrico Castelli Gattinara

Enrico Castelli Gattinara, docente di Epistemologia della storia all’Università di Roma I, La Sapienza, insegna anche all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Sull’argomento ha pubblicato Epistemologia e storia (1996) e Les inquiétudes de la raison (1998), oltre a numerosi articoli in italiano e francese. È direttore della rivista di filosofia, arte e cultura generale “Aperture”. Ha pubblicato con Mimesis di Milano, La forza dei dettagli (2017) e Strane alleanze (2003) e, nel 2004, con Meltemi di Roma, Pensare l’impensato.

Saggio pubblicato sul n. 28 della Rivista “Aperture” del 2012

Giorgio Linguaglossa
Grafiche di Lucio Mayoor Tosi ispirate al concetto di «Frammento»

Idealtipi

 Frammenti precari sono i gameti, destinati a incrociarsi e accoppiarsi per perdersi e sparire. Frammenti sono i mattoni, destinati a diventare muro, precariamente accatastati accanto al muratore che li lavorerà. Frammenti sono le lettere dell’alfabeto, precariamente isolate nell’abbecedario infantile per fondare il linguaggio che ci farà diventare umani. Frammenti sono le tessere di un mosaico ancora da fare, le pagine scritte di un romanzo ancora da comporre, gli appunti da riordinare, le spezie e le pietanze che serviranno a preparare un piatto. La loro precarietà è tutta costruttiva, tutta in positivo. Sono le parti che serviranno alla composizione di qualcosa, precarie perché funzionali alla costruzione. Precarietà indispensabile, ché altrimenti nessuna composizione sarebbe possibile.

Ci sono però anche i frammenti che derivano da un processo inverso: in negativo, per così dire. A perdere. O meglio, dopo la perdita. Sono frammenti gli arti o le parti di corpo tranciati dal macete del nemico in Ruanda. Sono frammenti le tessere del mosaico rovinato per un terremoto, o i pezzi di affresco, i mattoni, le travi, i vestiti, le bambole abbandonate, le tegole infrante. Sono frammenti le scorie, i residui della lavorazione, gli scarti e tutta l’immondizia che produciamo ogni giorno. I cocci di un piatto rotto, i capelli tagliati, i riccioli legnosi dopo che abbiamo fatto la punta alla matita, i fogli di carta gettati nel cestino. Precari anche loro, ma di un’altra precarietà: non più costruttivi ma disparitivi, destinati alla distruzione. Quando lo specchio va in frantumi, nessuno potrà più ricomporne l’insieme: le schegge spezzeranno l’immagine riflessa e renderanno irrecuperabile la sua primitiva unità. Irreversibilità de-compositiva.

Un terzo genere di frammenti, che mescola i primi due, è quello su cui lavorano gli storici e gli studiosi. Sono i frammenti che potremmo dire ri-compositivi: i residui di un tempo passato, di opere e azioni, di oggetti e situazioni che hanno perduto la loro composizione originaria, ma di cui mantengono un segno, una traccia o almeno un’intenzione. Sono l’immondizia della cultura, sotto certi aspetti: i residui del tempo, ossia ciò che il tempo si è lasciato cadere dalle tasche e ha lasciato per strada. Non necessariamente gli scarti, anche se molti archeologi frugano proprio nelle discariche dell’antichità per cogliere qualcosa degli usi e dei costumi della civiltà che cercano di capire.

Le armi lasciate nella tomba, con le ossa e i corredi funerari, sono frammenti di una vita passata la cui precarietà è dimostrata dalla tomba stessa: eppure questi stessi frammenti non sono affatto precari. Al contrario, la loro permanenza e stabilità li rende preziosi segni da interpretare e spiegare. Frammenti volti alla ricomposizione di una realtà, ma non più destinati a dissolversi in essa: il loro tempo è passato, e questa condizione è ormai irreversibile. Anzi, la loro resistenza al tempo (più che nel tempo) li rende altri rispetto ai due primi generi di frammenti, e li sottrae alla precarietà che li costituiva. Talvolta questa loro condizione fenomenologia e ontologica li rende iperstabili.

Giorgio Linguaglossa
Dragon

Frammenti

 C’era una volta la filosofia. Non si chiamava ancora così, non aveva neppure un nome, eppure parlava, discuteva, insegnava e ragionava. Stava in Grecia, ma soprattutto nelle sue colonie in Asia minore e in Italia. Non era una disciplina unitaria e sensata, ma un insieme di parole e discorsi che avanzavano la pretesa di conoscere e riflettere sulle cose: dalle più importanti alle meno appariscenti. Scuole, gruppi, sette mistiche, circoli esclusivi di persone che sceglievano di dedicare la propria vita al pensiero. Chi ha provato a farlo si chiamava Anassimandro, Eraclito, Parmenide… Orfeo sembra sia stato fra i primi, non si sa neppure se vero o falso, e poi Talete, Pitagora, Empedocle, Zenone, Anassagora, Democrito il terribile e troppi altri per poterne fare l’elenco. Frammenti di presocratici come frammenti di una materia che si è condensata in filosofia, e che quindi “prima” era diversa: Nietzsche e Heidegger leggevano in questa alterità un’origine pura, maestosa e profonda che la metafisica posteriore avrebbe corrotto e confuso. Di fatto, tutto il nostro sapere occidentale poggia su questi frammenti.

Il tempo ne ha fatto giustizia: a noi sono pervenuti come tracce di un dire che si è perduto assai più che quello di Omero. Ne conosciamo solo per sentito dire. Il che era proprio ciò che già allora si cercava di evitare. In questo senso il frammento è un tradimento. Citazione spuria e spurgata che è passata per tutte le voci che l’hanno detta e tutte le orecchie che l’hanno intesa (a Diogene Laerzio, detto “il pettegolo”, dobbiamo per esempio la maggior parte dei frammenti altrui). Raccolti poi in brevi commenti di autori successivi, e poi ancora successivi. Copiati e riprodotti chissà come. Citazioni di citazioni. Chissà che frammenti assai più importanti e profondi non siano andati irrimediabilmente perduti perché non hanno avuto orecchie a raccoglierli, o menti a intenderli, o semplicemente perché le contingenze spietate del tempo ne hanno bruciato per sempre le tracce. Instabile fondamento del nostro tracotante sapere.

Tutta una sapienza greca, dietro la filosofia, resiste fino a noi solo a frammenti: sapienza indiretta, che possiamo conoscere solo nella sua dispersione e nella nostra interpretazione. Strappi del pensiero: ecco come potrebbero essere definiti. Residui, resti, ritagli. Persino ricordi. Eppure efficaci. Spesso inesorabilmente efficaci. La vendetta del frammento sul tradimento è questa inesauribile efficacia che l’interpretazione non potrà esaurire. È come se lo strappo lasciasse intravedere qualcosa senza permettere di distinguerlo per bene, ma abbastanza per renderne indispensabile la conoscenza.

Giorgio Linguaglossa
Moonlight

Strappi

 Mimmo Rotella è considerato un artista. I suoi lavori sono collages, o almeno lo sembrano. Non è l’unico nel suo genere. Anche altri artisti hanno lavorato con i collages. Frammenti di carta, di stoffa, foto, bottoni, aghi, fermagli incollati alla tela, fra colori e composizioni di vario genere. Composti dentro la cornice a urlare la violenza dell’artista che li ha costretti là. John Heartfield insieme a Georges Grosz, Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Hannah Höch, Kurt Schwitters, Max Ernst fino a Robert Rauschenberg e molti altri hanno usato questa particolare tecnica compositiva. Il collage prende frammenti, isola oggetti, e li dispone sulla tela o comunque su una superficie: li costringe a essere altro per dire altro. Frammenti di una realtà che compone un’altra realtà, dove la bidimensionalità collide con la tridimensionalità, e il valore d’uso col valore di scambio: di qui l’urlo che ne emerge, lo strappo fra le dimensioni, la difficoltà di definire il materiale di cui l’opera sarebbe alla fine composta. Opera composita per eccellenza, eppure sfuggente, perché i frammenti che la compongono non perdono la propria identità né la propria storia: eppure strappano il tempo frantumandolo nella tensione instabile fra l’originaria destinazione del loro uso e quella attuale, il consumo rapido cui erano destinati e il consumo lento, vuoi lentissimo che ha costituito di fatto il loro destino (esser diventati un’opera d’arte).

Mimmo Rotella però non lavora in questo modo: al contrario, scolla. Non è collage la sua tecnica, ma dé-collage. Siamo a metà degli anni ‘50. Lavora i frammenti di un certo tipo frantumandoli in altri tipi. Spezza le dimensioni al loro proprio interno. L’operazione è apparentemente semplice: strappa pezzi di manifesti. Non è il solo a farlo: altri artisti francesi lavoreranno pochi anni dopo sul décollage. Rotella però inventa subito un’operazione che rende frammentario lo stesso frammento. Un frammento al quadrato. È questa la sua particolarità: non si accontenta più di lacerare i manifesti, ma li strappa una seconda volta in studio. Come a dire che il frammento assunto nei collages dev’essere infranto a sua volta, reso nuovamente, doppiamente frammentario. Instabile perché lacerato o lacerato perché instabile? Non è un caso che si tratti di manifesti pubblicitari, politici, ecc. La comunicazione più precaria che si possa concepire prima dell’invenzione degli spot televisivi e cinematografici. Lo strillo pubblicitario è spezzato dalla linea dello strappo, sovrapposto a un altro strillo, parola o figura cancellata, coperta o parzialmente scoperta, e poi un altro ancora, e ancora in sovrapposizioni successive che ripropongono gli strati dei manifesti che s’incontrano per strada.

Poi Rotella decide di lavorare anche sul puro frammento al quadrato: lavora cioè sul retro dei manifesti, incollandoli dalla parte del messaggio ed esponendo invece la superficie biancastra o monocroma originariamente incollata. La colla vecchia in contrasto con la colla nuova, fino al sorgere del dubbio su cosa abbia incollato la colla, la stessa colla che serve a incollare i frammenti, a ricomporre i cocci, e ricostruire il quadro d’insieme. Ma è lo strappo, il gesto cruciale di questo artista: scollando il manifesto e reincollandolo su una nuova superficie dopo averlo nuovamente strappato, Rotella rende supremamente precaria la precarietà. Non solo il messaggio, che poco tempo dopo è già vecchio, ma la sua stessa materia, le parole e la carta, i colori e la colla, tutto ciò che doveva dare stabilità precaria a un insieme si rivela strappo, urlo, lacerazione che in ogni momento ne infrange l’unità.

Eppure Rotella resta un artista: opera pietosamente, in fin dei conti, restituendo stabilità anche lui ai suoi frammenti precari, rendendoli opere d’arte. Curioso destino di un artista che voleva gridare e protestare la sua rabbia (faceva parte dei cosiddetti “pittori arrabbiati”), e che viene infine incollato in una categoria della storia dell’arte contemporanea.

Giorgio Linguaglossa

Tracce

 Per Carlo Ginzburg il lavoro dello storico risponde a un’epistemologia diversa da quella che regge l’argomentare e lo sperimentare delle scienze naturali: più aleatoria, più concreta, più comprensiva e al tempo stesso instabile, l’epistemologia dello storico si fonda su una specie di “paradigma” indiziario analogo a quello dell’investigatore. Il suo punto di partenza sono le tracce. O meglio, il suo aggancio alla realtà è costituito dalle tracce (perché non esistono veramente punti di partenza, origini fondative, dati basilari), che si pongano come un crocevia inevitabile per attestare il valore scientifico della storia. Senza di esse lo storico non esisterebbe: il suo lavoro si ridurrebbe infatti a mitografia epica o a letteratura di fantasia. La traccia è invece il suo vincolo. Strano vincolo che lo lega a una realtà che non c’è (più), e che pure resta presente. La presenza della traccia rinvia all’assenza della cosa che l’ha lasciata: la traccia presente non è la cosa assente, ma l’una non può essere senza l’altra (anche se è più facile che una cosa non lasci traccia piuttosto che una traccia non rinvii alla cosa di cui è tale). Presenza dell’assenza: ecco la traccia, che a differenza del segno è immediatamente materiale.

Lo storico segue la pista delle tracce, fiuta ciò cui esse rimandano e ragiona su quanto sia più logico dedurne. Non potrà mai avere la certezza di quanto ricostruisce a partire da loro, ma senza di loro non potrebbe parlare e raccontare.

Usa le tracce come frammenti, perché la traccia è sempre frammentaria. Quasi un frammento puro. Se spingo il mio dito nella cera molle, lascio una traccia che non è tutto il dito, che non è dito per niente, che è solo una variazione materiale provocata da una parte del mio dito: un frammento di realtà il cui senso e la cui consistenza vale per un insieme più ampio, anche se mai del tutto determinabile. In questo modo tutto diventa traccia. Ogni variazione materiale è traccia di qualcosa. Ecco cosa gli storici francesi della prima metà del Novecento hanno compreso: il campo dello storico si è esteso indefinitamente, perché ogni cosa materiale è in relazione con qualcos’altro da cui ha subito in qualche modo influenza.  Guai però a dimenticare che l’impronta non è il dito. La traccia rimanda a ciò che l’ha lasciata, ma non è ciò che l’ha impressa: è traccia per ciò che non è. Come uno strappo della realtà, la traccia nega la propria presenza affermandola. È quello che il filosofo Paul Ricoeur chiamava il suo enigma.

Inevitabile materialismo dello storico, se per materia s’intende appunto qualcosa che modifica e si lascia modificare, che subisce delle forze e le esercita (la gravità o l’amore, i globuli rossi o le idee), che impone e subisce forme. La materia dello storico sono le tracce. I frammenti che il passato lascia dietro di sé, come si usa dire. Nel gioco indefinito e inevitabile dei rimandi, tutto è traccia e quindi tutto è storico. Il che equivale a dire: tutto passa e tutto agisce. Occorre saper ritrovare le tracce. Occorre saperle riconoscere. Occorre scegliere quali conservare (perché le tracce, come le cose cui rinviano, sono mortali, e oltre a passare possono anche finire, o sparire). Ma nel cambiamento continuo del passaggio nulla resta come prima: il gioco della presenza e dell’assenza che la traccia rivela mostra l’irriducibilità del cambiamento, e il conseguente difficilissimo lavoro dello storico che deve sempre interpretare questo gioco senza poterne mai afferrare l’insieme. Ossimorica stabile precarietà.

La stabilità della traccia, nel suo forte rimando a ciò che l’ha lasciata, è terribilmente fragile: spesso basta niente a cancellarla, perché anche lei è soggetta al tempo, e nella sua materialità può anche lei lasciare a sua volta una traccia. Passando.

Giorgio Linguaglossa
Composizione

Sogni e ricordi

 I sogni sono sempre terribilmente frammentari. Sono sempre a brani, a pezzi, senza un vero inizio e una vera fine. Non costituiscono mai una storia ben strutturata. Sono pieni di simboli e di allegorie, che s’incastonano nel sogno senza apparente motivo, in maniera incoerente e spesso assurda per noi che ricordiamo da svegli.

Anche i ricordi sono così: non corrispondono mai a una storia unica, non costituiscono mai un insieme organico. Qualche volta vanno e vengono come lampi improvvisi. Altre volte invece li ricerchiamo metodicamente, con calma, e li colleghiamo fra loro piano piano come nella composizione di un puzzle. Ma è impossibile privarli della loro frammentaria essenza, perché come le tracce essi valgono sempre e solo se rinviano ad altro (a quell’insieme d’esperienza che crediamo coerente di chiamare “io”, ma di cui avremmo molte difficoltà a volerne tracciare l’insieme unitario e i confini). La neuropsicologia ci ha insegnato che la memoria non è una cosa unica, un organo o una funzione riconducibile a una stessa area cerebrale, ma che c’è la memoria dichiarativa, quella di lavoro, quella implicita, la procedurale, l’episodica, a corto raggio, a lungo termine, iconica, spaziale, topografica, semantica, uditiva, motoria, ecc. Il ricordo è un frammento di tracciato neuronale. Se stimoliamo per esempio un determinato recettore di una certa area corticale, ci appare nettamente il viso della nostra bisnonna morta quando avevamo otto anni, come se avessimo improvvisamente ritrovato una vecchia fotografia custodita fra le pagine di un libro dimenticato nello scaffale più alto della libreria. Null’altro che quel viso, isolato da tutto il resto. La traccia corticale non può fare nient’altro nella sua stabile precarietà. Potremmo non ritrovare mai quel ricordo. Potrebbe essere perduto per sempre, pur stando . Oppure potrebbe restare isolato, non trovare alcun collegamento, come quando riconosciamo qualcuno per strada ma non riusciamo a ricordare né chi sia né dove l’abbiamo già visto: traccia perduta forse per sempre, incastonata in un istante. Frammento inutile d’esperienza, finché – forse – ritroveremo il filo che ci permette di ricucirlo in un insieme più coerente (che è un altro genere di riconoscimento).

Nei sogni succede la stessa cosa: appare un oggetto, una casa, un ascensore nel quale inopinatamente ci troviamo, oppure una nave, un albero, una rosa. Non sappiamo cosa abbia suscitato quell’immagine, ma sappiamo, da svegli, che significa molte più cose di quanto l’immagine semplicemente suggerisca. Proprio come il frammento di vetro colorato che l’archeologo trova nello scavo. E come questo, è fragilissimo e può sparire da un momento all’altro, se non riusciamo a ricomporlo, a trovargli un senso, e inserirlo in un insieme coerente di cui costituirebbe una parte, o un segno. Soprattutto, se non riusciamo a ricordarlo. E quando lo ricordiamo, non possiamo fare a meno di credere che la sua frammentarietà sia solo occasionale, sia dovuta alla nostra debolezza mnemonica, o alla paura, alle forze negative dell’inconscio. Non riusciamo a convincerci che la frammentarietà è immanente al sogno, che lo costituisce e lo struttura rendendolo completamente “altro” dall’interpretazione che ne facciamo e dalla storia in cui lo inseriamo.

Doppia precarietà del sogno: da una parte, perché fin troppo facilmente non lo ricordiamo; dall’altra, perché lo possiamo interpretare e reinterpretare indefinitamente.

Doppia precarietà dei ricordi: da una parte perché non sono mai del tutto affidabili; dall’altra perché valgono solo nella misura in cui non ci sono più e appartengono al passato, anche se si dicono al presente.

Quanti sogni abbiamo dimenticato? Quanti ricordi abbiamo perduto?

Giorgio Linguaglossa
Composizione

Aforismi

 L’aforisma è una pietra lanciata contro lo specchio del linguaggio. È come lo spettro del comunismo di cui parlavano Marx ed Engels: si aggira nel linguaggio minandone le basi. È infatti linguaggio ridotto all’essenza comunicativa: senza decorazioni, senza orpelli, senza spiegazioni. Soprattutto senza ridondanza. Spettrale perché essenziale. In fondo, assai poco comunicativo.

Nell’aforisma non conta più nulla uno degli aspetti più importanti della comunicazione: la spiegazione. Non conta nulla la ricevibilità. Non conta nulla la pedagogia della comprensione. L’aforisma ignora le buone maniere del linguaggio. Non si cura della sua trasmissibilità. Non si preoccupa se non viene capito, compreso, ricevuto, recepito, accolto, ammesso, accettato… È tutto ripiegato in se stesso. Ci vuole molto linguaggio spesso per spiegarlo, per esplicitarlo, per mostrarne tutti i significati, i riferimenti, le connessioni possibili, i rimandi.

Ma la spiegazione dell’aforisma non è l’aforisma. La sua forza micidiale sta nella sintesi. Poche parole essenziali, legate da connettori anch’essi essenziali. Nulla di più. La sua eleganza è il messaggio, non lo stile, non la forma, e neppure la presa in carico dell’emittente o del ricevente. Stile senza stile che cela in sé ogni stile.

La cosa più difficile, con gli aforismi, non è la loro scrittura. Molti scrivono aforismi, anche se pochi hanno il coraggio di pubblicarli. Difficile è invece montarli. E questo lo sanno fare pochissimi.

Montare gli aforismi è un’impresa titanica, perché queste pietre lanciate contro il linguaggio pretendono di rompere qualcosa, di dire qualcosa, ma senza rispettare la buona educazione della comunicazione. Il loro montaggio non deve quindi scivolare nel tradimento, dando un ordine, un senso complessivo, una linearità alla loro raccolta. Sono come frasi strappate. Non comunicano fra loro. Sono frammenti sparsi non ricomponibili, perché non sono frammenti di nulla. Sono frammenti senza interezza, perché già interi di per sé. Non sono discorso. Non pretendono esaustività.  Sono corpi estranei che è difficile collocare, e che spesso si preferisce pubblicare isolati, da soli, a sottolinearne proprio l’estraneità. Isolati in un riquadro nella pagina di un giornale, gli aforismi restano imprigionati e muoiono dopo la breve lettura fugace. Lo stesso destino li accoglie quando sono raccolti in un libro: sono troppi, e inevitabilmente ce ne dimentichiamo la maggior parte. Cosa resta, viene da chiedersi? La pietra lanciata, il gesto del lancio, l’intenzione? Fuori dal tempo e quasi fuori dal linguaggio, l’aforisma resta un corpo estraneo e inquietante.

Giorgio Linguaglossa
Composizione

Lavori

 Donna, madre di due bambine di 13 e 7 anni, separata: lavora alla RAI con un contratto di “consulenza” appositamente elaborato al fine di sfuggire ai rigori della legge, che impongono l’assunzione per chi svolge lavori indispensabili e continuativi per la realizzazione delle trasmissioni. Per questo formalmente lei collabora solo a una parte delle trasmissioni: nei fatti, invece, lavora a tutte, con orari impossibili per una madre. Ma questo non risulta da nessuna parte, e quindi nessuno lo sa… se non i suoi colleghi altrettanto precari, il regista, il direttore, l’ideatore del contratto, l’amministratore delegato che ha dettato le regole del risparmio, ecc.

Muratore, straniero, stagionale e giornaliero: non ha contratto, non ha nessuna carta in cui risulti la sua opera, riceve lo stipendio giorno per giorno, o settimana per settimana, in contanti. Non è censito. Quando magari muore per un incidente sul lavoro, nessuno lo saprà se il padroncino, o il padrone, riuscirà a occultare il cadavere o a “piazzarlo” altrove. Se vive, continuerà a passare le sue giornate fra un lavoro e l’altro, sabato e domenica compresi, possibilmente, con lavoretti extra rimediati da privati. Quando gli capitano è una manna. Quando gli capitano.

Donna, di solito moldava, di mezza età: fa la badante. Quando è fortunata ha una specie di contratto temporaneo e vengono versati contributi anche pensionistici di cui lei non usufruirà mai, perché il suo sogno è quello di tornare al suo paese, dove magari sarà riuscita a costruirsi una casa o a comprarsi finalmente un appartamento. Il suo lavoro è ontologicamente a termine. Termine ultimo. Quando il badato muore, lei deve cercare un altro morituro. Se è brava, viene cercata da altri pietosi parenti… se non lo è, o è semplicemente normale, magari un po’ esaurita da un lavoro che non l’esalta, allora sarà più lungo e difficile trovare altri vecchi bisognosi con famiglie che se lo possano permettere.

Giovane, con diploma o laurea (anche se è indifferente che lo abbia o meno, perché è spesso inutile, come è indifferente che sia maschio o femmina): lavora a un call center, guadagna su provvigione e su una base stipendiale irrisoria, con un contratto – quando c’è – che fissa in modo perentorio inizio e scadenza del periodo di apprendistato o di lavoro. Poi chi vivrà vedrà. Se è bravo e se la cava, magari il rapporto di lavoro viene rinnovato per un altro breve periodo a termine.

Trentenne, quarantenne, cinquantenne e persino sessantenne, maschio o femmina, laureato e dottorato, colto, informato, esperto, specialista, con alle spalle articoli e talvolta anche libri pubblicati: ha un contratto a chiamata presso un’università. Un contratto di collaborazione. Di fatto svolge le stesse identiche mansioni di un docente universitario di ruolo. Ma non ne ha gli stessi diritti. Riceve un compenso simbolico di qualche centinaio di euro per l’intero anno o semestre. Sulla forma è chiamato “per chiara fama”. Di fatto è assunto a tempo determinatissimo per coprire buchi di organico e inefficienze organizzative. Non sa se verrà ripreso l’anno successivo. Sa che non verrà mai “assunto”.

Ragazzo, spesso maschio, con un contratto di apprendista: lavora più degli altri, non è considerato da nessuno, e dopo qualche mese viene mandato via. Il suo posto sarà preso da un altro apprendista. Nessuno paga. Ma qualcuno guadagna e specula sul loro lavoro. L’apprendistato dello sfruttamento.

La lista è lunga. La realtà è sempre la stessa. Vite strappate e straziate da un mondo del lavoro che non ha più nessuna unità. Frammenti di una società precaria, che fa del precariato il frammento costitutivo del nuovo mercato del lavoro in una realtà – l’Italia – che ha sempre la stessa costante negli ultimi anni: la progressiva eliminazione delle tutele dei lavoratori. Ossimorica e amara realtà, di cui occorrerebbe trovare la formula segreta: la costante del precariato.

C’è però anche un barbone che dorme sugli scalini del portone di un palazzo che nessuno usa mai. Da dove viene? Dove andrà? Frammento precario e costante di un altro genere di vita, strappata come gli abiti che indossa. L’unico che sappia non lasciarsi sfruttare, latore di un’antica saggezza che pochi hanno studiato.

Giorgio Linguaglossa
Lucio Mayoor Tosi

Rumori

 Tutto il tempo, il nostro udito è sottoposto alla stimolazione. Senza sosta, rumori di ogni tipo ci affliggono o ci deliziano, oppure il più delle volte sembrano lasciarci del tutto indifferenti. John Cage ha provato a farceli sentire, ma non ha avuto molto successo. Così, quando siamo costretti in casi del tutto eccezionali a non udire nulla, o meglio a sentire il silenzio assoluto, non sappiamo più cosa fare e ne veniamo letteralmente storditi. Ma non è questo il tema. Non è il silenzio ora a porre problema, perché il silenzio è totalizzante: o c’è o non c’è. O è assoluto, o non è. Un assoluto negativo, certo, determinato dalla totale assenza di suoni ma non per questo meno totalitario: per questo, insopportabile. I rumori invece riempiono lo spazio. Sono invasivi, ma mai totalizzanti. Possono essere assordanti, possono stordire anch’essi, risultare insopportabili, ma non sono mai assoluti: sono inevitabilmente frammentari, parziali, compositivi e temporanei. Hanno sempre comunque bisogno di una fonte, perché non sono autosufficienti. Dipendono dalla loro fonte, o da un insieme di fonti, e questo li rende ontologicamente fragili.

L’organismo in qualche modo si è difeso dal silenzio rendendolo di fatto impossibile: quando tutto tace, e ci si trova per esempio in una situazione eccezionale (un astronauta nello spazio), l’orecchio percepisce i rumori del corpo, e sibili, fruscii indistinti, pulsazioni deboli. Non riesce ad orientarsi, però, e quindi li elabora in una maniera del tutto differente rispetto a quei rumori di cui cerca sempre un’origine. La fisiologia dell’orecchio gioca in questo senso un ruolo essenziale: è lei infatti a permettere l’equilibrio, è lei a stabilire il punto di riferimento. Ma ogni punto di riferimento è sempre necessariamente parziale: si basa su un sistema dinamico di forze newtoniane e idrauliche di cui l’anatomia dell’orecchio interno rende ragione. Ne rende ragione in una dimensione finita e determinata dallo spazio tridimensionale euclideo e dalla gravità terrestre (che condiziona appunto i liquidi nei canali semicircolari e gli otoliti nel vestibolo): la gravità otolitica gioca fra l’altro un ruolo essenziale nella percezione visiva, come hanno mostrato gli studi di A. Berthoz, e per questo troviamo assai difficile riconoscere un volto inclinato di 90° o alla rovescia (anche se l’immagine retinica è nitidissima), o ci dà fastidio un quadro leggermente inclinato su una parete.

Non è casuale che l’equilibrio sia situato nel sistema uditivo: come sono fragili i rumori – e la loro versione raffinata che sono i suoni – così è fragile l’equilibrio, nella sua essenziale instabilità. Definibile ossimoricamente come instabile stabilità, l’equilibrio è quanto di meno assolutista si possa pensare, sempre preso dinamicamente in una molteplicità di forze fra le quali non predomina nessuna. Anche il rumore è molteplicità senza predominanza. A differenza della musica, dove c’è sempre una gerarchia complessa e strutturata, il rumore si caratterizza proprio come assenza di ordine. E infatti, è stato metaforicamente assunto anche dalla linguistica per indicare ogni forma di disturbo nella comunicazione, ogni sua destrutturazione. Se volessimo stabilire una fenomenologia del rumore, dovremmo distinguere il concetto di rumore dalla sua applicazione: nel linguaggio quotidiano chiamiamo infatti rumore l’interferenza sonora di qualcosa d’imprevisto, di fastidioso, di fuorviante. Di solito si tratta di un’intrusione destrutturante, che applichiamo indistintamente a un suono specifico dominante (il rumore del martello pneumatico per strada che ci impedisce di sentire ciò che ci stanno dicendo), mentre ontologicamente il rumore corrisponde piuttosto a una distribuzione indeterminata e indistinta di sonorità inaspettate e destrutturanti. Per questo la distinzione fra suono e rumore diventa importantissima, checché ne dica Husserl nelle sue Idee: è la differenza fra l’accettabile e l’inaccettabile, l’ordine e il disordine e forse il bene e il male.

Il rumore ovviamente appartiene al male. È molesto. Eppure, si diceva prima, è inevitabile e onnipresente. È ciò da cui emerge il suono. È l’instabile che genera stabilità, il caos da cui può formarsi il cosmo.

Esemplare, a questo proposito, è il confronto fra due poeti: Callimaco e Leopardi. Il primo indicava i colpi del martello come rumori molesti per chi abitava vicino alla strada (“lo affliggono i fitti colpi dei miseri fabbri che attizzano il fuoco”), il secondo invece li esaltava come suoni di un sabato di pace in un villaggio (“odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol”). Rumore o suono? Dipende appunto dal mondo di cui fanno parte: isolati come frammenti senza appartenenza, si perdono nell’insensato, mentre come frammenti di un tutto indeterminato, possono precariamente prendere questa o quella posizione, questo o quel senso. Mai totalizzante.

Commento di Giorgio Linguaglossa

IL NOSTRO RACCONTO DEL FRAMMENTO E DELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/28/enrico-castelli-gattinara-otto-frammenti-sui-frammenti-per-una-filosofia-del-frammento-idealtipi-frammenti-strappi-tracce-sogni-e-ricordi-aforismi-lavori-rumori/comment-page-1/#comment-19702


Gentili interlocutori tutti,

spero che questo saggio di Enrico Castelli Gattinara tagli la testa al toro, cioè alle questioni oziose, di chi, su queste colonne, è intervenuto per tentare di minare alla base il nostro Racconto del «frammento» e il Racconto della Nuova Ontologia Estetica, tentando, dicevo, di trovare contraddizioni e antinomie che ne minerebbero lo statuto di discorso estetico e filosofico. Noi dell’Ombra non abbiamo fatto altro che prendere atto di aspetti del reale che già la filosofia e l’arte di questi ultimi decenni hanno rappresentato, e cioè che il mondo è diventato un grande serbatoio di frammenti in espansione. È lo stesso sviluppo dell’economia globale che ha impresso a questo fenomeno una accelerazione che ha del diabolico. Negare quello che accade sotto i nostri occhi non è certo un buon metodo per la lettura del mondo, cari Claudio Borghi e Inchierchia. Il fatto che la poesia italiana non sia recettiva di questa gigantesca problematica è senz’altro un suo demerito e un suo limite gravissimo che la condanna ad una condizione di minorità. Questo è quello che noi stiamo tentando di dire e di far capire. Il mondo rotondo ed eufonico è scomparso, purtroppo, e pretendere di continuare ad utilizzare un verso e una metrica rotondi ed eufonici è una bella speranza degna della nostra commozione ma che resta una innocua speranza.

Quello che qui scrive Enrico Castelli Gattinara, per esempio, potrebbe benissimo adattarsi alla NOE e alla poesia di Francesca Dono in particolare. Scrive il filosofo:

«Montare gli aforismi è un’impresa titanica, perché queste pietre lanciate contro il linguaggio pretendono di rompere qualcosa, di dire qualcosa, ma senza rispettare la buona educazione della comunicazione. Il loro montaggio non deve quindi scivolare nel tradimento, dando un ordine, un senso complessivo, una linearità alla loro raccolta. Sono come frasi strappate. Non comunicano fra loro. Sono frammenti sparsi non ricomponibili, perché non sono frammenti di nulla. Sono frammenti senza interezza, perché già interi di per sé. Non sono discorso. Non pretendono esaustività. Sono corpi estranei che è difficile collocare, e che spesso si preferisce pubblicare isolati, da soli, a sottolinearne proprio l’estraneità. Isolati in un riquadro nella pagina di un giornale, gli aforismi restano imprigionati e muoiono dopo la breve lettura fugace. Lo stesso destino li accoglie quando sono raccolti in un libro: sono troppi, e inevitabilmente ce ne dimentichiamo la maggior parte. Cosa resta, viene da chiedersi? La pietra lanciata, il gesto del lancio, l’intenzione? Fuori dal tempo e quasi fuori dal linguaggio, l’aforisma resta un corpo estraneo e inquietante».

Potrei parafrasare così le parole di Enrico Castelli Gattinara: montare le immagini, le frasi staccate dal loro contesto, gli stracci, i lacerti di frasari e le immagini è un'impresa titanica, non è affatto vero che così si rende la poesia più semplice, è vero il contrario: nulla di più problematico di comporre in un tutto elementi eterogenei e contraddittori in uno spazio espressivo integrale. Con questa procedura si rende la poesia molto più difficile, si va in direzione di una complicazione notevolissima del discorso poetico e si sottrae la forma-poesia a quella deriva di falsa democratizzazione che è accaduta alla poesia occidentale e in Italia con una poesia che si era prefisso lo scopo di raggiungere una massima quantità di «comunicazione». Progetto deleterio, acritico e aproblematico che ha visto coinvolta la poesia italiana dagli anni Settanta ad oggi.