Andrea Margiotta POESIE SCELTE da Diario tra due estati, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2000 Prefazione di Fernando Bandini e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Andrea Margiotta è nato a Lecce nel settembre del 1968; ha vissuto in varie città tra le quali Forlì, Torino, Bologna e Firenze, per poi trasferirsi a Roma, lavorando come sceneggiatore di cinema; benché appassionato di cinema d'autore 

(allievo di Gianni Rondolino nei primi due anni di università a Torino), ha collaborato come sceneggiatore con firma a grandi successi di pubblico quali Natale sul Nilo e, senza firma, a Manuale d'amore, prodotti da Aurelio De Laurentiis; e come lettore di sceneggiature per Fandango, autore televisivo per la Rai e ricercatore di filmati d'archivio in un programma per Sat 2000 (oggi Tv 2000). 

In poesia, ha pubblicato alcuni testi sulla rivista "clanDestino" e il libro Diario tra due estati, Edizioni l'Obliquo, Brescia, 2000. 

http://lnx.fondazionemarazza.it/premio-marazza/

Testi di Andrea Margiotta sono presenti nell'antologia: Riccione Parco Poesia 2004 edita da Guaraldi ed una poesia è contenuta nella pubblicazione artistica dallo spettacolo del poeta Stefano Maldini: Foglie di luce dal mare, ediz. Risguardi (Cartacanta) di Forlì, rappresentato in vari luoghi. 

Per la Rai Tv, ha ideato, scritto e condotto un programma di cose poetiche e di poeti trasmesso, in dieci puntate, su Rai Due e un altro su Dante e Beatrice, in tre puntate su Rai Uno (replicato, un anno dopo, su Rai Scuola).

Negli ultimi anni, ha lavorato come assistente del regista Ruggero Cappuccio in tre opere liriche (di Rossini e Donizetti) rappresentate al Teatro dell'Opera di Roma (Costanzi) .

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Prefazione di Fernando Bandini. 

 

Ecco come ho conosciuto il poeta Margiotta. Sedeva in fondo all'aula, staccato di una o due file, nel laboratorio di scrittura poetica che tenevo a Bologna, organizzato dal «Centro di Poesia». È un elemento costante della mia esperienza didattica, realizzata nei più diversi contesti e situazioni, l'immaginare che ci sia tra chi mi ascolta qualcuno molto informato e criticamente attento che soppesa senza pietà quanto vado dicendo. Durante quelle lezioni avevo individuato il personaggio di questi miei timori in quel giovane uomo. 

Alla fine ho letto le poesie di Margiotta ed è nato un rapporto di confidenza, come sempre succede quando qualcuno ti affida un testo perché tu lo legga e ne dia un giudizio. Andrea Margiotta conferma una tendenza fondamentale della poesia d'oggi, che si riscontra, sull'estremo confine di questo secolo, in altre notevoli giovani voci: da una parte una attenzione alle esperienze pregresse del Novecento, non più marcate da rigide scelte di poetica né tanto meno da costringenti fedeltà a ideologie. Quanto viene offerto dai lavori della poesia del Novecento (un secolo poeticamente fertile come furono soltanto il Due - Trecento) viene espropriato e assunto nel proprio dire con una disinvolta ma meditatissima libertà, il cui unico rischio è forse quello, nei meno rigorosi, di un certo eclettismo dello stile. E tuttavia le ragioni della poesia, le attestazioni - immanenti ai testi - della sua necessità, appaiono (come nel caso di Margiotta) lampanti. La poesia diventa strumento di un'operazione autre (il «dirsi» e il senso nascosto), che riscopre la lezione di Rimbaud e tuttavia trascende l'orfismo come si è affermato da noi nelle sue concrezioni passate e recenti. Limite dell'orfismo era la nebulosità del linguaggio poetico (non l'oscurità, che è inevitabile, ma la nebulosità, l'incapacità cioè di ritagliare e incidere oggetti fermi e chiari nel proprio discorso, il vizio di confondere l'approssimativo col numinoso). Nel Margiotta degli esiti migliori la cosa autre irrompe nella compagine del vissuto, in una verità umana che precede il possibile (indispensabile ad ogni non caduca poesia) arrivo del nume. Lì, in forme talvolta anche di elegia, Margiotta affida ai tempi verbali del racconto la propria verità. Ma l'elegia non è in lui la rinuncia agli «universali», non è il rifugio dopo la sconfitta nelle serre di una ingannevole «calda vita». Per questo può scrivere singoli versi bellissimi, pieni di profonde risonanze, anche dove il contesto può sembrare qua e là non del tutto compiuto e risolto. È perché Margiotta mantiene una costante fedeltà a una sua idea alta della poesia, idea nella quale confluiscono anche i suggestivi e pertinenti ricordi di pregressi dettati danteschi e stilnovistici, quasi un segnale di appartenenza a qualcosa che si pretende staccato da mode e maniere, che però cerca, anche tra gl'inevitabili scacchi, una diversa collocazione della propria modernità. Margiotta, nelle sue dichiarazioni verbali, dice di amare molto Conte e il suo «mito del mito». 

 

Ma da Conte lo distanzia l'attenzione allo smalto del linguaggio (proprio nell' accezione di materiale netto e duro), la sua attenzione a una misura nitida del verso, oltre che la renitenza a farsi divorare e cancellare dagli dei. Conte, nella sua poesia, realizza un monologo dilagante dell'io, che si fonde entusiasticamente nel risucchio delle proprie immagini, mentre la poesia di Margiotta sembra sbattere, come quella di Ritsos, contro un muro che non permette nessuna sacrale fusione, anzi il suo discorso si rivolge a interlocutori che, ahimé, non rispondono. Ma non gli si può muovere rimprovero di questa sua contestabile opinione di sé, fenomeno che è abbastanza frequente anche in poeti importanti. In verità il lettore dei versi di Margiotta avverte il confluire, nella sua poesia, della doppia suggestione di Luzi e Caproni. L'ircocervo - di un Luzi attento in prima istanza ai sensi metafisici che gravitano sul mondo, e di un Caproni che parte materialisticamente dalla storia per incontrare quei medesimi sensi, - realizza questa vicenda sospesa della poesia di Margiotta, che indica e promette territori ulteriori nei quali forse potrà sfociare con maggior sicurezza e perentorietà. Ma cosa può dire un poeta vecchio mentre affettuosamente sta presentando un poeta giovane? Questi futuribili si estendono oltre la sua esistenza, sono una scommessa, e se Margiotta vivrà nel discorso della poesia futura, spero che almeno si ricorderà di me. 

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Se leggiamo con attenzione, la poesia di Andrea Margiotta ci rivela subito le sue ascendenze e le sue discendenze, i suoi «nodi». Prendiamo ad esempio tre versi delle prime due poesie:   

 

La città rischiarata dai lampioni verdi

 

Ondeggiano nuvole d'argento

 

Le verdi bianche anime dei pesci

 

Dei versi che si collocano nella imagery della poesia espressionistica tedesca tra Heym e Trakl; poco più sotto troviamo il verso:

 

hai i seni bagnati d'uva e di luna

 

che potrebbe stare tra Alfonso Gatto e Girolamo Comi; se procediamo nella lettura, possiamo individuare versi che appartengono alla costellazione del tardo linguaggio post-ermetico di un Sandro Penna: 

 

Ragazzi annuvolano in bar azzurri

 

Fermiamoci qui. La poesia di Margiotta si appropria di un ampio spettro della tradizione del primo e secondo Novecento che sta tra l'espressionismo tedesco e il linguaggio poetico pre-sperimentale italiano, salta pari pari lo sperimentalismo endogeno, una poetica che, nel bene e nel male, ha avuto una lunga sopravvivenza se datiamo il suo inizio da Laborintus (1956) di Sanguineti e arriva fino agli ultimi epigoni del Gruppo 93 dei primi anni novanta. Si tratta di circa quaranta anni di poesia che letteralmente scompaiono dal periscopio della poesia di Margiotta. Come è possibile che sia accaduto ciò? Si tratta di una cancellazione? Oppure di un voler prendere le distanze da un corpo estraneo? Letterariamente parlando il fenomeno è significativo e deve avere una spiegazione. Ma, proviamo a fare un passo indietro.

Dopo il  ’68, in Italia si verifica una «stabilizzazione» dello sperimentalismo linguistico. Ho scritto nel mio libro di critica, Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) pubblicato nel 2011:

 

"Improvvisamente, un’intera generazione di poeti come Bigongiari, Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Girolamo Comi, Alfonso Gatto, Arturo Onofri, Sergio Solmi, Giorgio Vigolo, Vittorio Bodini, Sinisgalli diventano anacronistici; appaiono, agli occhi della nuova generazione, invecchiati, ancora attestati a moduli stilistici antiquati, con elementi di rigidità stilistica e lessicale dinanzi ad un mondo che nel frattempo si è rapidamente trasformato; esponenti di una poesia considerata evasiva, generica e genericizzante, criticamente agnostica e virtuosa, stilisticamente «sublime» e «stupenda». Sarà un poeta della generazione degli anni Dieci,Giorgio Caproni a fare i conti con il Moderno con Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e con Il Conte di Kevenhüller (1986), ad aprire la via ad una poesia post-moderna, che ha fatto i conti con la poesia simbolistica e che prende le distanze dalle coeve teorizzazioni della parola-segno, della poesia come segnaletica di «segni». Un discorso poetico, quello di Caproni, che si interroga sulle ragioni della propria sopravvivenza, fitto di interrogazioni sul principiale: può la parola significante abitare il linguaggio priva dell’intenzione significante? È la prima apparizione del nichilismo critico di una poesia attenta al «significato» e al suo correlato lato «simbolico». Di fatto, la strada aperta da Caproni rimarrà impraticata, nessuno seguirà la direzione di ricerca aperta dal poeta toscano, almeno fino agli anni Novanta quando la poetica del nichilismo principiale verrà ripresa ed elaborata dal piemontese Roberto Bertoldo con la teorizzazione del «nullismo» e del «post-contemporaneo». Nei fatti, la poesia italiana dei decenni successivi imboccherà una via contigua a quella della piccola borghesia in fase di ascesa e di riconoscibilità sociale: la via del minimalismo e del post-sperimentalismo [..]

 

Ma in Italia accade un fatto bizzarro: la contestazione giovanile viene a confondersi e a sovrapporsi allo sperimentalismo linguistico; di più, alla fine degli anni Sessanta lo sperimentalismo assorbirà e surrogherà le spinte centrifughe della contestazione giovanile diventandone il dubbio rappresentante sulla scena politico-letteraria. L’ingresso massiccio e disordinato della prosa entro le asfittiche strutture difensive della poesia è l’effetto più immediato e vistoso di questa contestazione della forma-poesia. Il fenomeno, simile all’effetto di un fiume che rompa gli argini e dilaghi nella città, diventerà nel corso dei decenni successivi una costante tipicamente italiana, raccoglierà nel proprio alveo tutti i ribellismi linguistici che si originano dal ’68. Si verificherà una «stabilizzazione» del ribellismo linguistico."

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Nel libro e, successivamente, in più occasioni, ho inteso tracciare sinteticamente un quadro storico della situazione di Crisi della poesia italiana e non intendevo riferirmi soltanto alla evoluzione stilistica del poeta Montale da Satura (1971) in poi come personalità singola. Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta e prosegue, aggravandosi, negli anni Settanta. Oggi occorre capire perché la Crisi esplode in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini, per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca: Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, dichiarando che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile traendone le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: confezionando finta poesia, pseudo poesia, anti poesia (chiamatela come vi pare) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 (1973) e con Trasumanar e organizzar (1971) di Pasolini.

 

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire capisca. A quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e visione delle procedure artistiche.

 

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. Anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario soggettiva…»* 

 

Per tornare ai giorni nostri, cioè alla attualità, non è un caso che nella poesia di Margiotta non vi sia nessuna traccia del minimalismo romano milanese che ha tenuto banco in questi ultimi decenni, anche questo è un tratto caratteristico che vale la pena di rilevare. Come è accaduto e perché un poeta nato a fine anni Sessanta sia rimasto indifferente agli esiti stilistici che hanno egemonizzato gli ultimi tre decenni della poesia italiana? Non è che quella egemonia tematica e stilistica agli occhi dei più accorti giovani poeti si è rivelata una tigre di carta?

Ecco, questo è un quesito che lascio volentieri ai lettori.

 

*T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, p. 37

 

 Giorgio LinguaglossaAndrea Margiotta

 

Testi da Diario tra due estati   

 

 

             DOPO LA PIOGGIA

 

La città rischiarata dai lampioni verdi

dopo la pioggia e il silenzio. 

 

Ondeggiano le nuvole d'argento

sulla piazza dove è passato il vento.

 

Dall'altra parte del ponte

entrano i giocatori nelle osterie. 

 

Zampilla l'acqua dolce da una fonte

oltre i giardini e gli alberi,

sale alle luci ferite degli angeli. 

 

La luna rotola sulle tue gambe, 

s'infrange la bellezza

negli specchi dell'estate. 

 

Di nuovo il traffico lungo le strade.

 

                 Grecia, 1995 

 

 

 

                   LA NAVE

 

Idra, tra una folla di ombre, l'acqua

si rompe sulla chiglia, la donna è una

verde conchiglia corrosa dal sale.

 

L'ufficiale, osso di balena, ha un amore

annegato negli occhi

(muschio la ciurma ed alghe sulle mani). 

 

Le verdi e bianche anime dei pesci 

illuminano il buio,

frugano tra i relitti nelle celle del mare. 

 

La nave folle uccello nel silenzio

del dio marino, Paros nella fredda

perla dell'alba. 

 

E la donna  - dal vento dei suoi anni - 

non parla e dentro lei torna la sera.

 

 

 

                    DUE SULLA RIVA

 

La notte respira tra le tue gambe

hai i seni bagnati d'uva e di luna. 

 

Un gambero respinto dal mare

si spegne sulla riva. 

 

Tuo marito, il mercante di liquori,

ha comprato cavalli più veloci

 

lasciandoti sola, troppo sola.

 

 

 

                CITTÀ DI MARE

 

Ancora il caldo sulla città, non

abbiamo più troppo tempo. 

 

Il mare ha lasciato sabbiosi granchi

e pesci d'argento nelle reti. 

Il faro, a tratti, illumina le grotte - 

una piccola chiesa sta sospesa

sull'acqua. (Tre polipi appesi ai legni

pallidi e ciechi

sotto la luna). 

 

Ragazzi annuvolano in bar azzurri, 

fumano nel cielo della sera. 

Un luogo dall'insegna antica. Entriamo,

balliamo, beviamo birra. 

La luce scompare. La ballerina

apre una tristezza lunare, 

bella e flessuosa

come un'idra nel buio. 

 

Usciamo: è tardi. 

Né più nessuna luce sulle case. 

 

Passeggiamo lungo i legni del molo, 

guardi gli yacht ancorati

e lontano una bianca nave

aprire le sue bocche nella notte. 

 

Ancora il caldo sulla città, non 

abbiamo più troppo tempo

mentre il vento inghiotte il tuo sguardo nero

e luminoso. 

                

 

 

               LA NOTTE 

 

Le mele sono assenti nella cesta,

l'accendino scintilla, non dà fiamma. 

Schiudo i battenti della mia finestra, 

vedo la viola scura del giardino

sotto il bianco coltello della luna. 

Il silenzio vola come l'ala del

pipistrello. Non sfiora. 

 

Oh notte, tu non plachi la tua infamia!

 

 

 

             LA NOTTE  II 

 

Nella notte di luglio 

tace la terra. 

(Con un cavallo azzurro

Dio passeggia?). 

 

 

 

             CONGEDO 

 

I

 

Siamo rimasti soli al tavolino del caffè

e il mare è divenuto roccia. Il vento

suona sul vetro verde delle onde, 

roveti e fiori nascono dall'acqua. 

 

Loro ci guardano, non hanno più 

la schiuma del mare ma

alghe sulle mani. E impagliano pallidi

discorsi sotto lampade marine... 

 

 

II 

 

Così in aprile giungerà una nave

a inondare di bagliori la baia

e usciranno i tuoi occhi da una folla

salendo fino al santuario di Tinos. 

 

Il pane breve acre il vino brullo

(il tuo viso nel viso delle icone). 

Poi il gelo notturno - la processione

dei tre bianchi leopardi e di altre fiere

 

e signore come perle morenti

e iene e uomini mutati in piante

ed angeli con lance d'oro e di sangue... 

 

 

III 

 

Sono rimasto solo al tavolino del caffè

e tu sei come un'eco sulle acque al tramonto. 

 

*

 

                     ad Anushka 

 

La notte ha luci gialle di gas sui vetri

sporchi delle finestre: 

tu sei la rosa, nella molta morte. 

 

Tu sei la rosa, nell'impura furia 

dei perdoni, tra le bottiglie rotte 

delle metropoli, tu sei la rosa. 

 

Sei apparsa e dispersa nel 

tempo, fuori dal tempo

 

e in te respiro, non ho paura del tempo. 

 

 

 

ADE 

 

E quando sarà scesa oltre le ombre 

la tua mutevole anima e il grembo 

del mattino avrà sciolto

sperando il mio ritorno

 

quando si sfascerà 

la viola nella sera

e il bacio per sempre dato, per sempre 

disperato

 

                allora potrai dire 

d'avere amato 

oltre le notti, i sensi, le apparenze. 

 

Allora nascerà quell'alba verde 

sopra i picchi dei monti, 

a ridonare quei grappoli d'uva 

a noi e ai morti. 

 

*

                  Dio è innocente

 

                                Platone

 

Io non ho mai temuto la mia morte

perché se fosse il nulla io non sarei

e non essendo non avrei passione

né amore né tormento né terrore.

 

Ma se quel folle teschio, sopraggiunto,

mi mostrasse i salmoni luminosi

e gli abeti bagnati e i verdi fiumi

sarei al tuo sole pronto a ricongiungermi. 

 

Tanto da esser nelle mani tue

la rosa più preziosa della rosa 

candida, che di notte la mia donna

 

aveva chiusa nelle mani sue. 

O tu, che muto il mare muti e il vento

e ricolmi d'argento i giorni bui

 

fulminami di grazia cuore e mente, 

tu che sei il Dio innocente, ch'io sappia finalmente

quel che sarò e quel che sono e fui. 

 

*

 

Afferra 

il fiore dalla terra

ora che la rugiada è sulle spade.

 

Perché l'estate, schiusa

di cecità e di morte,

forse sarà l'ultima.