La Lulu di Alban Berg (1885-1935), vittima e carnefice a cura di Donatella Costantina Giancaspero tra atonalismo dodecafonico e frammento

Giorgio Linguaglossa

Alban Berg nacque a Vienna nel 1885. Iniziò lo studio del pianoforte in famiglia. Dapprima autodidatta, studiò regolarmente con Arnold Schönberg dal 1904 al 1910, diventando uno dei suoi più insigni allievi e uno dei principali rappresentanti della Seconda Scuola di Vienna. Il suo nome s’impose ben presto in tutta l’Europa centrale. Ma, con l’avvento al potere di Hitler la sua musica fu proibita in Germania. Gli vennero meno i diritti d’autore e le sue condizioni economiche subirono un grave tracollo. Morì nel 1935 a causa di una setticemia.

Già nei primi Lieder, composti ancora da adolescente autodidatta, si manifesta un’interna tensione alla rottura degli schemi armonici del tardo romanticismo. Dall’incontro con Schönberg, gli venne quindi naturale aderire al principio dell’«emancipazione della dissonanza» e cioè dell’atonalità. Tuttavia, Alban Berg non chiuse mai del tutto con la tradizione, recuperandone le forme e, talora, alcuni stilemi armonici. Tra i suoi lavori principali, ricordiamo Tre pezzi per orchestra op. 6, Quattro pezzi per clarinetto e pianoforte op. 5, Cinque Lieder per voce e orchestra op. 4, su testi tratti da cartoline postali dello scrittore Peter Altenberg; l’opera teatrale Wozzeck; il Concerto da camera, per pianoforte, violino e 13 fiati; la Suite lirica per quartetto d’archi; il dramma lirico Lulu.

Giorgio Linguaglossa
Alban Berg nel suo studio

Presentazione di Donatella Costantina Giancaspero

“Finalmente ci siamo accorti che la sensualità non è una debolezza, che non significa la rinuncia alla propria volontà. È piuttosto un’immensa forza celata in noi – il perno della nostra esistenza e del nostro pensiero” (Harris 1979b, p. 11): così scriveva Alban Berg nel 1907 a Frida Semler, plaudendo alle tematiche fortemente innovative del teatro di Franck Wedekind, volte a una critica esplicita della società borghese; tematiche che trovavano piena corrispondenza nell’idea estetica di Berg.

Nel 1904, Franck Wedekind dava vita a Erdgeist (Lo spirito della terra) e Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora), i due lavori che poi, a partire dal 1928, ispireranno a Berg il libretto di Lulu, la sua secondo opera dopo Wozzeck. Ma intanto, nel 1904, il giovane Alban lavorava ancora come impiegato comunale, scrivendo musica per suo piacere, senza l’ausilio di studi musicali veri e propri. Fu l’incontro con Arnold Schönberg, in quello stesso anno fortunato, a segnare il suo percorso di compositore. Dall’insegnamento del maestro, Alban Berg deriverà la sua sostanziale crescita artistica, nel senso, tuttavia, di una scrittura non del tutto emancipata dalla tradizione, divisa tra atonalismo e reminiscenze tonali. Si tratta di un “limite”, probabilmente; tuttavia, è proprio in virtù di questo che la sua musica si impone con un carattere di estrema varietà, particolarmente attraente. In esso trova espressione la sensualità di Lulu, quell’”immensa forza celata […] perno della nostra esistenza e del nostro pensiero” che faceva esultare Berg e inorridire i benpensanti borghesi. Il loro perbenismo, intriso di moralismo religioso, reprimeva ogni istinto sessuale, inteso quale forza distruttiva. E proprio questo incarna il personaggio di Lulu, quale carnefice e vittima al tempo stesso: “un essere primitivo contro cui impazza la civiltà progredita”, come l’aveva definita Th.W. Adorno. Ma il senso ultimo della vicenda va oltre: coinvolge il significato stesso dell’uomo e della propria esistenza. Un senso filosofico, dunque, lo stesso che attraversava tutta l’arte tedesca nei primi decenni del Novecento. Quel senso che, in occasione della rappresentazione postuma di Lulu (Zurigo, 1937), ispirò ad Adorno queste parole:

“Non c’è musica contemporanea umana come quella di Berg, e per questo gli uomini la temono”.

Alban Berg iniziò Lulu nel 1928. Continuò a comporla, con qualche interruzione, fino all’anno della sua morte, il 1935, lasciandola incompiuta. Il musicista era gravemente ammalato. In una lettera del 21 agosto 1935 alla Universal Edition, scriveva: “Il mio carbonchio mi tormenta terribilmente. A quanto dice il medico, che ho dovuto chiamare, dovrebbe durare ancora per settimane! «Questa è la sera della mia vita! La peste in casa», gemo con il dottor Schön e sto proprio orchestrando questa parte di Lulu, facendo ricorso a tutta la mia forza di volontà” (cit. in Scherliess 1981, pp. 99-100).  Berg moriva a Vienna il 24 dicembre, lasciando orchestrati soltanto due dei tre atti scritti. Com’è noto, Arnold Schonberg si rifiutò di completare la strumentazione del terzo atto, così come fecero in seguito Alexander von Zemlinsky e Anton Webern. Bisognerà aspettare il 1979 per vedere l’opera ultimata dal viennese Friedrich Cerha, studioso e interprete degli autori della Seconda scuola di Vienna.

Giorgio LinguaglossaAlban Berg

La vicenda dell’opera è assai complessa e articolata. Lulu è una ragazza strappata alla sua infima condizione sociale da un uomo ricco, il dottor Schön, che ne fa la sua amante. Da questo momento in poi, molti uomini, tra mariti, pretendenti e amanti, verranno sedotti dalla sua sensualità, compreso il figlio di Schön, Alwa, che Alban Berg indica come suo alter ego. Tutti uomini inevitabilmente destinati alla morte. Lulu stessa si macchierà di delitto, uccidendo Schön, nel mentre questi la costringeva al suicidio.  Viene imprigionata. Il tragico evento, insieme al colera, di cui Lulu si ammalerà, e a una grave crisi economica, che ridurrà sul lastrico molti affaristi, segnerà il suo declino. Nel Terzo atto, fuggita dal lazzaretto in cui era stata rinchiusa, la rivediamo prostituirsi nella squallida soffitta di un malfamato sobborgo londinese. Qui, la notte di Natale, Lulu troverà la morte, insieme ad Alwa e alla contessa Geshwitz, sua protettrice e innamorata, per mano dell’ultimo cliente, Jack lo Squartatore.

Dall’inizio alla fine, l’opera, nel suo forte dispiegarsi espressionista, scava dentro la psiche umana, portando a galla i sentimenti più abietti. E, a ben vedere, Lulu, nella sua innocente crudeltà, risulta essere la vittima principale.

Un recentissimo allestimento è stato realizzato al Teatro Costanzi di Roma (in coproduzione con la Metropolitan Opera di New York, l’English National Opera di Londra e la De Nationale Opera di Amsterdam) dal regista sudafricano William Kentridge (co-regista Luc De Wit), già noto a Roma per i 500 metri del fregio “Trionfi e lamenti” sugli argini del Lungotevere.

Si è trattato di un vero e proprio debutto per Lulu, diretta dall’argentino Alejo Pérez, poiché mancava dal Teatro dell’Opera di Roma dal 1968, quando vi fu rappresentata nella versione ancora incompiuta.

Il dramma borghese di Lulu è visto da Kentridge come “un’opera sull’instabilità del desiderio”. “Lulu ha molti amanti – dice Kentridge –, ma nessuno corrisponde all’immagine dell’uomo di cui lei pensa di aver bisogno e nemmeno Lulu può essere la donna che molti amanti e mariti vogliono che lei sia”. Quindi, assistiamo al “mancato incontro dell’oggetto del desiderio”, al “desiderio che non viene appagato”. Kentridge parla anche di “frammentarietà” dei “caratteri”; una frammentarietà simboleggiata dai tanti disegni che volano qua e là sulla scena, per poi ricomporsi nel ritratto dominante di Lulu. Si tratta dei disegni originali del regista stesso, proiettati e attraversati da dense pennellate di inchiostro, da schizzi che simulano il sangue versato sulla scena. In questi fogli si materializzano anche i sentimenti ossessivi del dramma.

Novità assoluta per l’epoca in cui fu composta l’opera, è il filmato di due o tre minuti, che Berg inserì nel secondo atto, tra la prima e la seconda scena, con lo scopo di riassumere il processo, la prigionia e la malattia che porteranno Lulu al suo tragico epilogo. Kentridge lo ripropone con un interessante richiamo all’espressionismo tedesco del cinema muto.

Nell’insieme, un allestimento attuale ben riuscito, che ha dato risalto alla estrema complessità dell’orchestrazione e delle voci. Su tutte ha trionfato lei, Lulu (il soprano svedese Agneta Eichenholz): femme fatale, demoniaca, distruttrice, secondo la mentalità moralista e sessuofoba della società viennese nei primi decenni del Novecento; per noi, emblema della femminilità e dell’Eros, così come l’ha voluta Alban Berg, ovvero una donna viva, determinata, vittima dell’ipocrisia e della menzogna. Il compositore viennese, nella sua ultima stagione creativa, ne fa la protagonista di un dramma che sovverte ogni regola; un dramma nel quale riconosciamo quello di un mondo prossimo alla fine, annientato dal cinismo, dalla violenza, dalla crudeltà. Un mondo che, in seguito, per i lunghi anni segnati dal nazismo e dalla guerra, resterà diviso ancora tra vittime e carnefici.

Giorgio LinguaglossaScena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma

ALBAN BERG,  LULU –  Atto secondo, Scena prima

 DOTT. SCHÖN

(rientra dalla comune, chiude la porta a chiave, va con la pistola spianata verso la finestra sul davanti, alza di colpo la tendina)

Dov’è andato quello?

LULU

(sull’ultimo gradino della scala)

Fuori.

DOTT. SCHÖN

Si è gettato dal balcone?

LULU

È un acrobata.

DOTT. SCHÖN

(volgendosi a Lulu con gesto di disprezzo)

E tu, sciagurata, che mi trascini nel fango verso il supplizio! Angelo sterminatore! Fatalità ineluttabile! Tu, gioia della mia vecchiaia, capestro per il mio collo!

LULU

(venendo avanti)

Ti piace il mio vestito nuovo?

DOTT. SCHÖN

Via di qui, o domani non rispondo più di me, e mio figlio nuoterà nel suo sangue!

(con improvvisa decisione le spinge in mano la pistola)

Devo salvarmi. Mi capisci? Adoperala per te stessa!

LULU

(sentendo che le forze stanno per mancarle, si è lasciata cadere sul divano e rigira la pistola fra le mani)

Ma questa non spara.

DOTT. SCHÖN

Vuoi che ti guidi la mano?

LULU

(volgendo come per scherzo la pistola verso di lui)

È carica?

Giorgio Linguaglossa
Scena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma

DOTT. SCHÖN

Non far baccano a vuoto!

(Lulu alza il revolver e spara un colpo al soffitto. Rodrigo balza fuori dalla portiera, sale la scala, esce dalla galleria)

 

DOTT. SCHÖN

Che cosa è stato?

LULU

(candida)

Niente. Hai la mania di persecuzione!

DOTT. SCHÖN

(le strappa la pistola)

Ne tieni nascosto ancora qualcuno?

(fruga la stanza, fuori di sé)

C’è qualche altro uomo a farti visita?

(fa volare in alto le tende della finestra, rovescia il paravento del camino; dopo un momento di muto stupore, afferra per il colletto la Geschwitz e la trascina in avanti)

E lei, è passata per la cappa del camino?

CONTESSA GESCHWITZ

(morta di paura, a Lulu)

Mi salvi, mi salvi!

DOTT. SCHÖN

(scrollandola)

O anche lei è un acrobata?

CONTESSA GESCHWITZ

(gemendo)

Mi fa male…

 

DOTT. SCHÖN

Adesso dovrà rimanere qui a pranzo.

(trascinandola verso sinistra la spinge nella camera attigua e chiude la porta a chiave; si siede vicino a Lulu e le mette in mano la pistola)

Ce n’è ancora dentro a sufficienza per te: finisci! Non posso aiutare il mio servitore a coronarmi la fronte.

(tendendole di nuovo la pistola)

Finisci!…

Giorgio Linguaglossa
Scena di Lulu Teatro dell’Opera di Roma

LULU

Puoi chiedere il divorzio.

DOTT. SCHÖN

Ci mancherebbe anche questa! Perché domani il primo venuto se la spassi nell’abisso d’orrore in cui sono precipitato, col suicidio che m’incalza e con te davanti agli occhi!

(un po’ più calmo)

Io, divorziare?! Si può divorziare quando due esseri si sono compenetrati a vicenda e l’uno dei due si porta dietro l’altro?

(di nuovo infuriato)

Vedi il tuo letto con sopra le vittime del sacrificio?

(stende la mano verso la pistola)

Da’ qui!

LULU

Pietà…

(tenta di sfuggirgli)

 

DOTT. SCHÖN

(c.s.)

Voglio risparmiarti la fatica.

(tenta nuovamente di strapparle la pistola. Lulu si strappa da lui; tenendo già la pistola, in tono deciso e consapevole di sé)

 

[Lied di Lulu]

LULU

Se degli uomini si sono uccisi per me, questo non diminuisce certo il mio valore. Quando mi hai preso in moglie, sapevi bene perché lo facevi, così come io sapevo perché prendevo te per marito. Avevi ingannato con me i tuoi più cari amici; non ti era facile ingannare anche te stesso. Se tu mi sacrifichi la tua vecchiaia, è vero che hai avuto in compenso tutta la mia giovinezza. Io non ho mai voluto che il mondo mi credesse qualcosa di diverso da quello che mi ha considerato. E nessuno al mondo mi ha mai considerato altro che quello che sono.

DOTT. SCHÖN

(facendole forza)

Giù, assassina! In ginocchio!

(la spinge fino ai piedi della scala, alza la mano)

Giù…

LULU

(cade in ginocchio)

DOTT. SCHÖN

…e non osare rialzarti!

(volgendo verso Lulu la canna della pistola che lei stringe in mano)

Prega Dio che ti dia la forza!…

(Lo studente esce con fracasso da sotto la tavola, spingendo da parte la seggiola. Il dott. Schön si volta rapido verso lo studente, volgendo le spalle a Lulu. Lulu spara cinque volte contro Schön e continua a premere il grilletto).

Giorgio Linguaglossa

Il frammento e la fine della modernità nella nuova ontologia estetica del regista americano William Kentridge

Vorrei dire qualcosa sull’allestimento scenico del regista americano William Kentridge. Davvero geniale con quei suoi lungometraggi di disegni in bianco e nero con tratto espressionista che scorrono in migliaia di fotogrammi sul fondale del Teatro Costanzi  di Roma trattato alla stregua di un telone bianco da film. In effetti, quello che scorre sono migliaia di immagini, di spezzoni di immagini, frammenti di volti, di corpi, di parti di corpi (tutti in rigoroso bianco e nero), che si muovono, si agitano, si spostano, restano immobili, indietreggiamo, si rimpiccioliscono, ingigantiscono… assumono varie fogge e grandezze in un caleidoscopio di immagini, scatti, frammenti che si sovrappongono ad altri frammenti di immagini creando sul fondale un micidiale movimento convulso e forsennato di immagini non quale contro canto di ciò che avviene sulla scena quanto invece una traduzione filmica in immagini frammentate e frammentarie di ciò che sulla scena avviene. Il risultato è un potenziamento al massimo grado della drammaticità della musica di Alban Berg e delle parole pronunciate dai protagonisti.

Mi ha fatto molto piacere e mi ha sorpreso questa applicazione della prassi artistica del «frammento» nel corpo di un lungometraggio in bianco e nero come didascalia di un altro testo che viene presentato sulla scena. Non me lo aspettavo, una invenzione del regista William Kentridge che ha del geniale.

Ecco, quanto noi andiamo dicendo in favore del «frammento» è quello che ha fatto William Kentridge, il «frammento» ha una potenzialità di applicazione praticamente infinita, dà infinite possibilità espressive non soltanto ad un musicista o a un regista ma anche ad un romanziere e a un poeta. Per adottare il «frammento» ovviamente bisogna pensare in «frammenti». In fin dei conti, il frammento che cos’è? È una durata infinitesimale, nient’altro. E che cos’è una durata infinitesimale? è ciò che noi esperiamo ogni giorno durante la nostra vita quotidiana, né più né meno. Bisogna percepirsi in frammenti, essere consapevoli della nostra condizione ontologica di frammento, e quindi della nostra condizione ontologica «debole», aleatoria, sfuggente.

Gianni Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive “l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica“. Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. Ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo . Con Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale.

La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte è stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredità di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

Giorgio Linguaglossa
Donatella Costantina Giancaspero, Teatro dell’Opera, Roma

Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.