Anna Ventura: Stella lucente, un inedito e tre poesie da Nostra Dea, 2001, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: L’evento della parola non è il luogo stabile e sicuro, eterno del nostro esserci; quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica. L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Giorgio LinguaglossaComposizione grafica di Lucio Mayoor Tosi con divano 

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Giorgio Linguaglossa

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

J. Lacan – seminario XI

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

G. Linguaglossa

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

G. Linguaglossa

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

G. Linguaglossa

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

G. Linguaglossa

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

G. Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

Stella lucente

Vagate nel Cosmo,
pianetini di cui nessuno si cura, nemmeno
la stella morta intorno a cui roteate:
come quei bambini smarriti
che vengono dai paesi in guerra, bambini
che hanno perso la famiglia,
la casa, il paese in cui sono nati.
Eppure cresceranno,
e andranno nel vasto mondo, e lì impareranno
tutto quello che c’è da imparare:
cioè che ci vuole una terra su cui poggiare i piedi,
un riparo per la notte, acqua e pane
per non morire di inedia.
Un bambino che sa questo
sarà un uomo forte,
come un pianetino seguirà la sua orbita,
imparerà a evitare i buchi neri,che ti ingoiano,
e le stelle troppo luminose, che ti bruciano.
E un giorno saprà che, nel cosmo,
vagano altri pianetini come lui;
forse incontrerà un amico
con cui roteare un po’ insieme, forse
incontrerà l’odio e la paura che ne consegue;
se avrà fortuna, incontrerà la conoscenza,
il dono più ambito, quello
che di un pianetino smarrito fa una stella lucente.

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

L’evento della parola non è il luogo stabile e sicuro, eterno del nostro esserci; quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica. Il frammento è l’Estraneo. L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

L’«io» è quel pianeta lontano che si allontana sempre di più dal centro del nostro sistema solare, quel pianetino debole che abita una orbita debole che si allontana sempre di più dal nostro sole, da quella «stella lucente» che un giorno abbandonerà definitivamente, lascerà il sistema solare e vagherà per gli spazi interstellari per perdersi nel gelo spaventoso della notte interstellare.
L’«io» non è più da tempo immemorabile quel luogo stabile e sicuro dell’«io penso dunque sono» di Descartes, è diventato una categoria debole del nostro universo debole, un polinomio frastico che perde le parole e le consonanti; ne sono rimaste soltanto le vocali a perpetuare quel grido impronunciabile e vertiginosamente debole: «iiiiooooooo!?» che ha abbandonato per sempre la «stella lucente» e la «stella morta».
Scritta nel metro debole che va sotto il nome di verso libero, questa poesia di Anna Ventura ci parla in traslato della sorte di quei «pianetini» sbalzati dalle loro orbite che un giorno forse si incontreranno in qualche parte del cosmo disumano. Noi siamo dunque dei «pianetini», piccoli, trascurabili dettagli di frammenti abitati da attimità che sono fuggite via lontano da noi e che noi abbiamo abitato e dimenticato; dettagli di frammenti, scorie, stracci, resti, residui in apparenza insignificanti perché trascurati dalla grande storia e dal suo corso lineare (ridotta a storialità, ad inventario morto di attimità morte), ma alquanto significativi della nostra intima storia connotata di storicità significativa in quanto attecchita a singolarità inevitabili. Ciò che è inintenzionale e rapsodico attecchisce al frammento e lo abita, ma indica anche il vuoto che si interpone tra le non-intenzionalità che abbiamo abitato.

«Se l’evento della parola non è il luogo stabile e sicuro, eterno del nostro esserci: se il linguaggio può morire e tende a morire – allora dobbiamo apprendere ad abitare l’evento del linguaggio, il giudizio originario, diversamente. Senza lasciarsi trasportare da esso, ma ‘sospendendolo’. Sospendere l’evento non significa annullarlo, anzi l’esatto contrario: significa portare il suo gioco all’estremo. In che modo? Curvando il tempo dei segni nello spazio dell’evento. Facendo giocare – riflettendo – un linguaggio sull’altro. […] Giuoco che non solo è prima dello spazio e del tempo (come il giuoco della différance di Derrida), ma anche ‘sospende’, ‘epochizza’ spazio e tempo, giocandoli l’uno sull’altro, l’uno con l’altro, tenendoli insieme in una contraddizione che non dà spazio allo spazio, non dà tempo al tempo, che epochizza ogni espacement e ogni temporisation. Giuoco che impedisce all’evento di saltare di là dalla propria contra-dizione». E infine: «Custodire la lontananza: a questo mira la sospensione dell’evento».1] La poesia deve albergare nei sobborghi della «zona oscura», dell’impronunciabile, avendo cura di mantenere la distanza, abitare la distanza e la lontananza, custodirla come il più intimo dei segreti.

L’«Evento» è quella «Presenza» che non si confonde mai con l’essere-presente, con un darsi in carne ed ossa. È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’«io» o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento, nel suo discorso «cosciente», meglio sarebbe dire nel suo discorso coscienzioso… nel suo voler-dire, nei suoi inter-detti, nei suoi atti mancati, nei suoi desideri inevasi, nelle sue intenzioni interrotte, nelle sue volizioni e de-volizioni; avviene che l’«io» viene colto in un vacillamento che non è nulla di superficiale, di ciò che sta in superficie, ma che concerne il suo stesso essere, nel suo più radicale essere, in quella profondità del non-essere che presuppone l’edificazione dell’«io».
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo.
Con il primo piano si dilata lo spazio, con il rallentatore si dilata e si rallenta il movimento. Si potrebbe scrivere una poesia tutta di primi-piani (una parola, punto, una seconda parola, punto etc.), ne otterremmo una dilatazione progressiva dello spazio metrico; potremmo inserire dei rallentatori e farli seguire da improvvise repentine accelerazioni così da stordire il lettore. Ma Anna Ventura, saggiamente, preferisce la misura della sobrietà, il rallentatore.

Il linguaggio poetico è la rappresentazione dell’Evento dell’«io» in una situazione scenica, in un allestimento scenico-simbolico dotato di temporalità. Ciò che si situa al di fuori dell’evento, propriamente, probabilmente, non è «poesia» in senso stretto, non appartiene al genere «poesia», ma al genere del discorso sulla poesia, di un discorso che proviene dall’esterno, dall’«io» posticcio e surrogato, dall’Ego che guarda l’«io» e cincischia. C’è un segreto, l’heideggeriano Geheimnis, ed è ciò che si situa fuori del linguistico e che preme sul linguistico come una materia oscura, come la «stella lucente» e la «stella morta» di Anna Ventura, senza le quali non esisterebbe nemmeno la materia che noi conosciamo: la materia linguistica, quella zona oscura che non può essere riprodotta linguisticamente se non come quasi-presenza di una assenza, come avvicinamento di ciò che è lontano e che rimarrà per sempre lontano, come abitazione presso il luogo della zona oscura; vicinanza di una lontananza, potremmo dire, consonanza-discordanza con la zona oscura che presuppone il sorgere linguistico, quel sorgere che obbedisce alle leggi della «condensazione» e dello «spostamento». «La Verdichtung, o condensazione: cioè la struttura di sovrapposizione dei significanti in cui prende campo la metafora, e il cui nome, condensando in sé la Dichtung, indica la naturalità di questo meccanismo con la poesia, fino al punto di includere la funzione propriamente tradizionale di quest’ultima. La Verschiebung, o spostamento: cioè, più vicino al termine tedesco, il viraggio della significazione dimostrato dalla metonimia e che, fin dalla sua apparizione in Freud, è presentato come il mezzo dell’inconscio più adatto a eludere la censura». 2]

George Steiner ha scritto: «il fatto che l’immagine del mondo si stia sottraendo alla presa comunicativa della parola – ha avuto la sua influenza sulla qualità del linguaggio. A mano a mano che la coscienza occidentale si è resa più indipendente dalle risorse del linguaggio per ordinare l’esperienza e dirigere il lavoro della mente, le parole stesse sembrano aver perso in parte la propria precisione e vitalità. So bene che questo è un concetto controverso. Presume che il linguaggio abbia una “vita” sua in un senso che va oltre la metafora…».3]

Steiner vuole dire un concetto molto importante: l’immagine del mondo nel linguaggio si è indebolita, il mondo si sta sottraendo al linguaggio, il linguaggio non rappresenta e non può più rappresentare tutta la complessità e variabilità del mondo… di qui all’oblio della memoria che il linguaggio avrebbe di sé il passo non è poi molto lungo… ma il discorso poetico, proprio perché libero dall’utile, ha la capacità di mantenersi a giusta distanza dei sobborghi del «segreto» dell’ente, quel «segreto» che non può essere avvicinato dalla lingua di relazione ma che la lingua di relazione contiene in sé come possibilità inespressa, che diventa espressa nell’evento della forma-poesia, in quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica.

Potremmo dire così, che la dizione poetica è quel tipo di linguaggio che ci avvicina di più all’extra linguistico, al non tematizzabile linguisticamente, a ciò che resta di una esperienza che sta fuori dall’ambito linguistico. Con le parole di Derrida: «Perché io condivida qualcosa, perché comunichi, oggettivi, tematizzi, la condizione è che ci sia del non-tematizzabile, del non-oggettivabile. Ed è un segreto assoluto, è l’absolutum stesso nel senso etimologico del termine, ossia ciò che è rescisso dal legame, staccato, e che non si può legare; è la condizione del legame sociale, ma non lo si può legare: se c’è dell’assoluto, è segreto».4]

Ho scritto in un recente articolo: «Il frammento è l’Estraneo», ovvero, l’Estraneo fa irruzione nel frammento. Mi hanno chiesto di esplicitare il senso di queste parole misteriose. Allora, cercherò di essere più chiaro: si dice comunemente che il diavolo si cela nel dettaglio, io correggerei dicendo che è l’estraneo che si cela nel dettaglio di quell’oggetto che credevamo di conoscere e che davamo per scontato. E modificherei la citazione affermando che è l’estraneo che si presenta nel frammento e così fa irruzione nel mondo; anche il frammento si dà nella veste del dettaglio. Quello che ci si presenta all’improvviso è un estraneo che fa ingresso nel nostro quotidiano, che so, un ricordo che non volevamo ricordare, un lapsus, un errore di dizione, un refuso di una parola che non volevamo scrivere, in una parola, l’estraneo è l’Altro per l’altro, si tratta di uno scambio di «persone», di una metonimia, di una sineddoche, di «maschere» di un teatro dove si presenta una «scena» simbolica, l’una prende il posto dell’altro, a nostra insaputa e magari anche contro la nostra volontà.
E questo effetto lo può dare soltanto la forma-poesia. La poesia (come anche l’arte figurativa) sono il luogo privilegiato nel quale si manifesta l’estraneo. Magari scriviamo di «un terrazzo bianco / chiuso da un muro bianco (…) sul verde del giardino…». Ed ecco che, all’improvviso, si staglia la figura dell’estraneo:

Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo
con due poltrone.
Sul tavolo un cesto di frutta

Che cosa significa tutto ciò? Che cosa ci vuole dire quel «tavolo rotondo» «con due poltrone» (che si sottintendono vuote) che compaiono all’improvviso nella composizione? – C’è stata una scomparsa? Delle persone se ne sono andate? Che è rimasto un vuoto? E che noi apparteniamo in modo misterioso e segreto a questo vuoto? – Qui l’estraneo è il frammento, una immagine, alcuni oggetti noti (un terrazzo, un tavolo rotondo, due poltrone) che si imprimono nella nostra sensibilità e ci rivelano il baratro nel quale siamo sprofondati.
È una poesia che ha a che fare con l’Estraneo, dunque.

Ecco cosa scrivevo in una nota di lettura ad un libro di Anna Ventura Nostra Dea (Firenze, Esuvia 2001 pp. 64) nel 2001, pubblicata su “Poiesis”:

«Anche quando la composizione si presenta come il distillato più puro dell’oggettività, non è la precisione della macchina fotografica l’intento dell’autore ma, al contrario, è la visione, nitida e delimitata dalla cornice, della macchina fotografica che suggerisce e fornisce gli strumenti stilistici per l’oggettivazione estetica; lo stesso impiego dello zoom, di origine cinematografico, costituisce un vero e proprio binario sintattico-semantico che è venuto a sostituire la vecchia e antiquata e polverosa impalcatura di matrice pascoliana che ha fornito, lo ammetto, nel bene e nel male, durante tutto il corso del Novecento, il traliccio entro il quale calare lo stampo sonoro-semantico. La poesia di apertura di Nostra dea, “La terra del Minotauro” è l’esemplificazione più pertinente di questo nuovo tipo di composizione. E’ come se una telecamera si introducesse dentro il palazzo di Cnosso e si posizionasse davanti al “terrazzo”; tutto quello che accade è una conseguenza di quel punto di vista. Non v’è nessuna impostazione ironica,come non v’è traccia di alcuna impostazione trascendentale-nobile, se così fosse, ciò segnerebbe l’introduzione di un “diminutivo” o di un “accrescitivo” tipicamente novecenteschi in un impianto di poetica invece tipicamente post-moderna. Dunque, nei testi di Anna Ventura non v’è mai alcun luogo di “aggressione” ironica, l’autore impone una distanza tra sé e il testo, è la distanza iconica qui ad essere significativa, non la distanza ironica come avveniva nei testi proto novecenteschi. Ma ora lasciamo spazio al testo:

Giorgio Linguaglossa
Grafica di Lucio Mayoor Tosi

La terra del Minotauro

Questo terrazzo bianco, chiuso da un muro bianco,
ha una bifora aperta
sul verde del giardino,
sul rosso dei fiori di ibiscus. Il mare
segna l’orizzonte,
oltre le cime degli ulivi:
è il mare fermo degli dei,
mentre la terra – del colore del sangue –
appartiene al Minotauro.
Sul terrazzo
c’è un tavolo tondo
con due poltrone.
Sul tavolo, un cesto di frutta
– uva, prugne, una mela –
ornato di foglie d’ulivo,
una brocca di coccio
col vino rosso e il bicchiere.
L’aria è tiepida e tersa,
la stessa del tempo del mito,
un tempo eterno,
che qui è nato e qui resta.
L’avevamo intuito
nel racconto dei libri,
nella fatica delle traduzioni,
nei lunghi inverni di studio desolato.
Ora è qui, e mantiene la promessa,
lo splendore dei Greci.
Sul filo dell’orizzonte
passa la nave di Argo,
carica del Vello d’oro.

Il lettore si introduce, attraverso “una bifora aperta”, “nel verde del giardino”, “il mare fermo degli dei” accoglie i visitatori. “Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo/ con due poltrone”. L’atmosfera è sobria, quasi turistica, il viaggio nell’al di là è un mito di vecchie e polverose filosofie. Il viaggio, con tutti i suoi corollari di peripezie turistico-spirituali, è ormai una moneta fuori corso finita nei cassetti dei numismatici. Chi parla, oggi, di viandanze turisticamente attrezzate, è o un imbonitore o un minimalista inconsapevole. Il massimo che si può chiedere a questa poesia è:

L’amara stirpe

Non chi sta sulla nave,
ma chi resta,di sera,
sulla banchina dell’isola piccola,
è colui che veramente parte.
Dopo aver salutato con la mano
la nave che veloce si allontana,
tornerà alla casa spoglia,
all’acqua razionata,
alle cento scalette
che salgono sull’erta. L’amara
stirpe di Penelope
conosce questi inganni: restare
per partire nella lontananza del cuore,
nel silenzio dell’isola remota: Ulisse
vada ramingo:
il mare è tanto grande.

Resti, dunque, saldamente ancorati alla clarté cartesiana, è il più grande complimento che posso fare a questa poesia, così virilmente delicata e attenta ai dettagli e così consapevole dei limiti della conoscenza umana. È una poesia che accetta e prende partito per la perdita del centro della posizione estetica, senza drammi e senza finte ambasce o periclitanti esibizionismi del cuore; la severa misura del suo passo breve è il migliore viatico, il migliore indizio della sua autenticità, il migliore indizio della sua gioventù.

La poesia “Non ditelo a Cartesio” costituisce un magnifico esempio di registro meta ironico applicato che vorrei citare per intero:

Non ditelo a Cartesio

Sono la terza moglie di Barbablù, quella
che osò prendere la chiave,
spalancare la porta dell’orrore: un gesto
che la premiò, perché a ogni coraggio
c’è una ricompensa.
Ma niente ricompensa
l’innocenza violata, lo sbigottimento
di chi alza il sasso e sotto
ci trova lo scorpione.
“E tu smettila, – ti dicono –
di aprire porte, di rivoltare sassi.”
Non ditelo a Cartesio: lui giace
nella sua tomba piatta, nell’ombra
di una chiesa ombrosa,
ma la sua luce ancora abbaglia
i suoi seguaci, odiati illuministi
in un mondo che della ragione
fa a meno volentieri. Io, perciò,
sua fedele, cammino a testa bassa, col saio
del pellegrino rompiscatole,
i sandali consunti. Lascio la mia bisaccia
con dentro un pezzo di pane,
una borraccia con l’acqua:
perché altri, qui, passeranno.

1] Vincenzo Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992 pp. 266, 267
2] J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio freudiano, in Scritti, cit., p. 506
3] George Steiner Linguaggio e silenzio, 1958, Rizzoli, 1972 p. 41
4] Jacques Derrida, Ho il gusto del segreto, in Jacques Derrida e Maurizio Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Bari, 1977 p. 51