Massimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Germanista di formazione, è poeta, saggista, narratore, traduttore, critico letterario e d’arte. Nel 1998, ha curato la riedizione del “Supplemento Letterario del Mare”, il foglio italiano di Ezra Pound. Nel 2001 ha scritto la “Carta per la Terra e per l’Uomo”, un documento di etica ambientale declinato in tesi che è stato sottoscritto anche da 6 premi Nobel per la Letteratura. Ha collaborato a molte riviste, letterarie e non solo, e ne dirige una. Tradotto in più lingue, è presente nei cataloghi di editori quali Jaca Book, Marietti, Einaudi, Nutrimenti, Raffaelli, Moretti & Vitali, Passigli. Fra le altre cose, ha pubblicato il ciclo poetico de Il portavoce (1995-2006) e due libri apocrifi nel segno unico dell’attrice Vivien Leigh. I suoi ultimi libri editi sono Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014), un ampio zibaldone metaletterario, L’opera in rosso (Passigli, 2016) e Fantasmata (Lamantica, 2017).
Giorgio Linguaglossa, grafica Lucio Mayoor Tosi
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità»
Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…
(Steven Grieco-Rathgeb)
Adorno, ha scritto: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità», «veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», «il tutto è falso», «non si dà vera vita nella falsa».1 Mi sembra una buona piattaforma per introdurre il libro di Massimo Morasso.
Il suo [di Massimo Morasso] voler perseguire l’inautenticità, la menzogna, la falsità della dimensione estetica dell’«io», il suo voler evitare a tutti i costi il teologismo della «verità» della sfera estetica dell’«io», il suo aderire ad una sintassi spezzata e frammezzata non sono episodi desultori dovuti al capriccio, si tratta di una precisa petizione di poetica. Non v’è chi non veda che il soggetto non può essere reperito nel suo semplice voler dire, nel suo dirsi, senza che nel frattempo qualcosa non abbia già minato, con la sua presenza, con la sua traccia di presenza-assenza nel soggetto, la sua stessa intenzionalità espressiva. Quel soggetto è piuttosto rintracciabile negli inter-detti, nei retro pensieri, nei quasi pensieri. È questa la problematica che sta al fondo de L’opera in rosso, al pari della poesia più evoluta di oggi. Nella misura in cui qualcosa si articola in parole e perviene alla coscienza linguistica, qui si consente l’articolazione del discorso, ovvero, l’articolazione delle rappresentazioni linguistiche. La percezione di idee, immagini, pulsioni cieche devono traslare in un universo metafisico-simbolico, ciò diventa essenziale affinché sia possibile qualcosa come un processo di pensiero linguistico conscio, e quindi un discorso dell’«io»ۛ. L’Io diventa così quell’istanza che prende luogo nello spazio che si apre tra percezione e coscienza linguistica.
Lo scetticismo di Morasso io lo interpreto così, è, a mio avviso, una reazione agli indirizzi degli ultimi lustri della poesia italiana maggioritaria, compromessa con un apparato neo-musical-pittorico integralmente nomologico e narrativizzato; scetticismo che non si acquieta in esiti neomanieristici come avviene in molte componenti della poesia di oggidì. Certe dichiarazioni lasciate cadere opinatamente nei testi sono indicative di una precisa posizione di poetica: «L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla»; «Ci sono nove modi di guardare una finestra». Morasso si muove con decisione verso una poesia che abiti stabilmente una molteplicità di punti di vista, una poesia della relatività allargata, dove lo spazio e il tempo si scambino spesso di ruolo. Quello che ne risulta è un dettato poetico stabilmente desultorio, con movimenti frastici sussultori e ondulatori che frammentano e inficiano l’ipoteca stilistica pregressa inscritta in un endecasillabo sottoposto alla severità della custodia vigilata. Il mio augurio è che questa sia la via del futuro prossimo venturo della poesia morassiana.
Gillo Dorfles ci dice che oggi «ci troviamo di fronte al più colossale e ubiquitario inquinamento immaginifico cui la nostra civiltà abbia assistito». Preso atto di ciò, forse la strada giusta è questa de L’opera in rosso dove tutti i linguaggi poetici del secondo Novecento sono rinvenibili, ma come in «vitro», in plexiglass, in una forma biodegradata e commutata in un linguaggio di inedita fattura morfosintattica.
Da lungo tempo nella poesia italiana recente, dalle Alpi alle Piramidi, vale il motto: Loquor ergo sum, parlo dunque sono, le cose esistono in quanto le pronuncio, le pronuncia quell’«io» che si auto produce e si riproduce nella illusoria convinzione di essere il centro attorno a cui ruoterebbe la poesia posta sul basamento dell’«io».
Ecco, possiamo dire che Massimo Morasso liquida questa petizione e parte invece dal punto di vista opposto, da una visione «ontologica» e morfologica della poesia nella quale il locutore ha cessato di essere il fondatore di alcunché e si rivela essere un semplice fonatore, un postino della parola nella quale il «reale» è dato da «nove modi di guardare una finestra / o addirittura dieci se a guardarla sono i morti». Questo è l’assunto dal quale anch’io partivo nella mia ricognizione della «nuova poesia» di questi ultimi anni, esperienza poi confluita nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016), e mi fa piacere constatare ogni giorno di più che, fuori della Antologia, c’erano e ci sono poeti che si muovevano (e si muovono) nella direzione che avevo anch’io individuato dopo la dissoluzione e disfunzione di tutti i «modelli» e i «canoni» che le istituzioni poetiche maggioritarie avevano tentato di statuire in questi ultimi quaranta anni. Con la dissoluzione dei «canoni», in Italia come in Europa, anche la forma-poesia andava di pari passo dissolvendosi in una nuvola di gassosità narrative e di minimalismo acrilico. Non è per caso che un autore avvertito come Massimo Morasso, prenda atto di questo processo di irreversibile degrado delle forme estetiche e tenti una inversione di rotta imboccando corsie laterali e, infine, una vera e propria inversione ad “U”, come si dice nel gergo del codice della strada.
Ecco allora la necessità per Morasso di ricostruire la forma estetica a partire da una diversa morfologia del discorso poetico: il frammento, o la struttura frammentata.
Scriveva Walter Benjamin:
«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2]
Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la Nuova Ontologia Estetica, le immagini si danno soltanto in “costellazioni”. L’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta», non più attraverso la «contemplazione» di un soggetto eterodiretto, e la percezione distratta è un fenomeno tipico della modernità, fenomeno ben presente all’alba della poesia del Moderno, ad esempio nella poesia di Baudelaire.
Dal punto di vista della NOE il ripristino della percezione distratta e il concetto di immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, Orhan Pamuk, De Lillo, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi…
Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione permanente (che non è certo quella della dittatura del proletariato ma quella della dittatura delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche…).
Oggi la «percezione distratta» è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, immagine dis-tratta… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…
Così commenta Alessandro Alfieri nel n. 28 della Rivista “Aperture” del 2012: «I frammenti sono da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.
La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto, ovvero, il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la scrittura saggistica su determinati argomenti o autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico».3]
Stante quanto sopra, non v’è chi non veda la stretta attinenza di questa problematica con il metodo compositivo della NOE, ad esempio della poesia di un Mario Gabriele; la sua [di Gabriele] strategia compositiva è più simile al mosaicista che sistema con tenacia e pazienza le singole tessere di un mosaico-puzzle piuttosto che ad un amanuense che scrive i suoi endecasillabi sonori e i suoi ipersonetti. Gli «stracci» e i «tagli», le citazioni,, le faglie, le schisi e i titoli da cartellone pubblicitario di Gabriele sono tessere iconiche e semantiche di un mondo frammnentato e frammentario abitato non già da una nicciana «verità precaria» ma dalla stessa precarietà della nozione di verità e della sua umbratile condizione ontologica nel moderno avanzato.
1 ] T.W. Adorno Teoria estetica, Milano, Einaudi, 1970
2] W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516
3 ] Alessandro Alfieri In Aperture, n. 28, 2012
Massimo Morasso
Massimo Morasso, Poesie
I croceristi scivolano in short
e infradito nel dedalo dei vicoli.
Il porto, appena sveglio,
oscilla dentro a un ritmo affaticato.
Dal suo cantuccio,
una puttana ammicca a un fattorino.
Il vento porta odori forti,
un vecchio cane si sdraia sul selciato
e in un guaito smorza il sonno dei portoni.
Commercianti e cinesi
armeggiano con l’oro dei lucchetti mentre il sole
si pavoneggia in mezzo alle finestre.
I suoi raggi si posano sui volti,
riaccendono le ardesie.
*
Eppure so che mi guardate mentre vivo,
in attesa del mio inutile verbo,
delle sassate che tiro all’apparenza,
voi abitanti abitati,
voi trasformati in spettri,
in fantasmatici antenati.
Di voi, senza più corpo, non so nulla,
vi immagino remoti e spaventati
in qualche anfratto universale, abbarbicati
a una radice come gigli.
Che siate stati, questo è irrevocabile.
Com’è difficile
vestire la muta del figlio-palombaro
scendere al fondo della lontananza
per ritrovarla qui,
nel centro del mio cuore!
E com’è strano, sentirvi irraggiungibili e presenti…
Sono tristissime perfino le galassie
che si allontanano fra loro, accelerando.
Più spiritata, cosmica energia,
ma qui i gabbiani in un vento di bengala.
*
Ci sono nove modi di guardare una finestra,
o addirittura dieci se a guardarla sono i morti
con il loro sovrasguardo immateriale
che vede tutto il mondo in forma d’anima.
Non è da lì che passano gli spiriti, mi dico,
è nel riverbero di un soffio
nell’arco a sesto acuto di un’immagine
dove tutto risponde alla grammatica del cuore,
che inabissa.
.
totentanz
L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla.
In certi c’è uno spettro
che l’imbottiglia come fosse una falena,
la rende sterile, la uccide.
In quello giusto c’è una forza
che la connette a tutto il resto,
la storia e il suo rosario,
ruotandola verso l’origine perpetua.
È una forza di grazia
che non sa nulla di traccianti e puntatori:
lei spalanca.
Nel suo riverbero ritorno a dire di mio padre,
le braccia di uno spettro che danzava
chissà in quale tensione disperata della mente
chiusa alla carne, rivolta all’invisibile.
Io supplicando
nell’ombra, stremato
a tutti i suoi tremori
e infine il gelo.
*
Non lontano dal rifugio,
ci imbattemmo in un torso di camoscio
puntellato di mosche.
Ci avvicinammo controvento,
per difenderci dal tanfo.
Con un bastone in mano, io cincischiai fra l’orbita
e la maschera, persa nel pelo.
Chissà se è morto per l’artiglio di un rapace
o per inedia,
com’è probabile, pensai.
E poi pensai ad Antonio, al suo non esserci più,
e avrei voluto trasformarmi in un camoscio,
scendere giù
dai Sibillini a Porto Sant’Elpidio
brucargli via i germogli del suo male
e restituirlo al mondo, a questa terra,
dove convivono mosche rapaci uomini e camosci
ciascuno dentro alla sua legge,
ciascuno in caccia d’altri
per un po’, prima di andarsene.
Kierkegaard pensava che ogni uomo
ha in sé un’inquietudine,
un’angoscia di qualcosa
che non osa ancora conoscere.
L’uomo, per lui, cova una malattia nello spirito.
La cosa strana in questa sua teoria
è che anche se si pensa soddisfatto,
l’uomo ‒ ogni uomo ‒ è disperato.
E l’inquietudine, se pure non l’avverte,
lo porta in ogni caso
in uno stato critico, animale,
poiché lo rende inconsapevole
della sua angoscia che è disperazione,
nell’occultezza più segreta della mente,
nell’intimo del cuore.
E così
gli ardui cavilli di un gobbo testa d’uovo
svelano una scissione dentro l’io.
Mentre la vita, intorno,
che vuole solo vivere, si popola di sogni.
I giovani immortali
continuano a danzare guancia a guancia,
un passo dopo l’altro, un’altra giravolta e oplà,
tutto è in un ritmo
chiaro e conoscibile,
e le cose, dolcissime, sorridono,
fanno l’inchino, e chi s’è visto e via.
Senza mai vera pace,
torno anche stanotte ai miei fantasmi,
ne ascolto la voce ipnotica, rupestre,
che a poco a poco si fa una e penetra
le imposte, fuori tempo, inarrestabile.
È bastato che morissero i miei,
e i ricordi
sbattono le ali, uccelli neri
che mi osservano, più vigili di un faro,
da un cielo ulteriore, interiore.
All’improvviso
filtrata l’aria Kierkegaard mi appare,
spettro fluttuante fra lo specchio e il letto
che apre le porte dell’Incomprensibile.
Mi parla, scavato dall’angoscia,
e io rimango lì, sospeso a mezza via
in uno spazio ostile fra discorsi e rimorsi.
Poi la sua gobba si trasforma in una nuvola.
La nuvola,
in un punto di domanda.
Chiudo la luce.
E tutti
‒ mamma papà gli uccelli Kierkegaard
la nuvola io stesso ‒
ci inabissiamo dentro a un’altra oscurità,
che non so dire.
villa verde a sanremo
La luce, quando nasce,
scoperchia l’immaginazione,
le cose si rivestono di un’aura,
e di un candore semplice
nel bene.
Sento la meraviglia stamattina,
e Villa Verde sembra un albero del pane
curvato in mezzo all’orizzonte,
che sorride.
Fra il tronco e i rami
Walter penetra in me col tremito dell’aria
e impone la memoria di un destino irrisarcibile
come un peccato anche mio,
un torbido rimorso cui far fronte.
Sto lì a guardarlo, mi chiedo
per quale via è tornato in questo vacuo
paese di cinciarelle e fioriture,
ma è già un’immagine sfocata,
che ondeggia in controluce.
È pallido, lontano,
la sua bocca è milioni di altre bocche
e forse mi perdona
e forse no.
*
Il raglio dell’escavatore, e la campana
che rintocca, martellante.
Questa è l’estate, e Antonio è morto sei anni fa.
Scirocco sulle altane. Quasi piove.
Dietro l’androne le rose che avvizziscono.
Antonio è morto sei anni fa, era d’agosto,
un calabrone sbatte contro il muro,
poi scatta dentro il cielo, ronza,
se ne va.
Io credo
che la risurrezione dei morti
sia vera in uno spazio sovrannaturale
in mezzo al cuore dei viventi.
Che accada in un non-tempo
che è un eterno
in Dio, come in chiunque.
Ebbene sì, io credo
che alla vita spetti l’ultima parola
sulla vita ‒
e che la morte e il suo spauracchio
ci confondano, sviandoci ‒
pensai studente, fissando il corpicino della santa,
pallido, intatto,
orma di un doppio astrale, ragionavo,
stampata a fuoco nel riflesso di una teca.
*
E adesso credo un’altra cosa. Che i morti
ritornano a parlarci
quando è notte
ci fanno compagnia per non abbandonarci
all’orlo scemo del silenzio, in mezzo al buio.
Non loro hanno bisogno di noi,
ma noi di loro ‒
noi, torpidi pavidi piccoli orfei
braccati dalle immagini e dal tempo
che ci voltiamo così spesso sul cuscino
ad abbracciare
il vuoto…