Evgenij Aleksandrovič Evtušenko POESIE INEDITE e L’ultima Intervista rilasciata dal poeta russo – Io vivo nel paese di nome sembrerebbe – Nello stato di nome SEMBREREBBE –  traduzione a cura di  Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Giorgio LinguaglossaIl presidente USA Nixon con Evtušenko

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (in russo: Евге́ний Алекса́ндрович Евтуше́нко?; Zima, 18 luglio 1932[1] – Tulsa, 1° aprile 2017), poeta e romanziere russo.

Nacque il 18 luglio 1933, a Zimà (una cittadina della Siberia sudorientale sorta nel XIX secolo intorno a una stazione della linea ferroviaria Transiberiana), figlio di uno studente di geologia dell’università di Mosca e di una nota cantante lirica di origine ucraina, Zinaida Evtušenko, da cui prese il cognome d’arte. Evtušenko trascorse l’infanzia a Mosca. L’estate del 1941, l’invasione nazista dell’Unione sovietica, i primi bombardamenti della capitale colgono la famiglia in un momento di crisi: il padre, abbandonata la moglie, va a lavorare nel Kazakistan in una spedizione scientifica. Nell’autunno il futuro poeta e sua madre lasciano Mosca, per rifugiarsi a Zimà dove rimarranno tre anni.

La vita e lo stato d’animo di quei tempi difficili sono descritti in Nozze di guerra, Sono di razza siberiana, Ballata su un salame, Mi fecero sbalordire ragazzino, ecc. In seguito alla ritirata dei tedeschi, nel 1944 Evtušenko torna a Mosca con la madre che lo lascia, però, poco dopo, per andare a cantare per i soldati al fronte. Abbandonato a sé stesso, il ragazzo trascura gli studi, mentre comincia a scrivere i suoi primi versi. Qualche anno dopo, espulso dalla scuola, irrequieto e desideroso di conoscere stravaganti novità, Evtušenko raggiunge nel Kazakistan il padre che gli procura un lavoro da manovale in una spedizione geologica, a patto che non riveli a nessuno di essere suo figlio.

Giorgio Linguaglossa

L’attività letteraria e il calcio

Di nuovo a Mosca, egli ritrova sua madre precocemente invecchiata, senza più la bella voce d’un tempo; canta ora in un cinema negli intervalli tra gli spettacoli. A quell’epoca Evtušenko divide il suo cuore tra la poesia e il calcio. Ma, se la sua carriera di atleta finirà presto, sarà proprio un giornale sportivo a lanciare il poeta. Nel 1949, infatti, il redattore del giornale Sovetskij Sport, pubblica un articolo nel quale racconta la passione sfrenata di Evtušenko per i suoi due “sport”, il calcio e la letteratura.

Nello stesso anno Evtušenko si iscrive all’istituto di Letteratura e continua a scrivere poesie liriche, note solo al circolo ristretto degli amici e mai pubblicate, ed elogi di atleti e di gare accolti invece dalla stampa sportiva. Occorre arrivare al 1952 per trovare pubblicata la prima raccolta di versi, Gli esploratori dell’avvenire, che lo stesso autore definisce “non felice”, ma che gli frutta l’ingresso nell’Unione degli Scrittori. In quegli anni, incoraggiamenti giungono a Evtušenko da alcuni tra i più noti poeti sovietici, come Tvardovskij, Semën Isaakovič Kirsanov, Svetlov, Simonov.

La notorietà si afferma

Dopo la morte di Stalin, con l’epoca del “disgelo”, la notorietà del poeta si afferma soprattutto negli ambienti giovanili. Egli legge i suoi componimenti nelle serate studentesche e nel 1955 è quasi portato in trionfo dagli studenti di Mosca, ai quali aveva declamato dei versi dall’alto della scalinata dell’università. Il ventesimo congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) nel marzo 1956 segna una nuova tappa nella carriera di Evtušenko.

Dopo la condanna ufficiale del culto della personalità, egli pubblica una serie di poesie contro l'”uomo d’acciaio” e i burocrati che ancora segretamente rimpiangono il dittatore (il poema La stazione di Zimà, Gli eredi di Stalin, La mensa degli studenti, Paure, La mano morta, Conversazione, Il destino dei nomi, Città di mattina, O, dispute nostre giovanili, ed altri). Il temperamento ardente e l’odio sincero contro tutto quanto opprime la libertà dell’uomo, spingono il poeta oltre i limiti consentiti.

Nella primavera del 1957, per aver difeso il romanzo di Vladimir Dmitrievič Dudincev Non di solo pane vive l’uomo, contenente una dura critica alla burocrazia staliniana, Evtušenko viene espulso dal Komsomol col pretesto ufficiale di mancato pagamento dei contributi e dallo stesso Istituto di Letteratura. Tuttavia l’amicizia di influenti membri del partito e dell’Unione degli Scrittori permette presto al poeta il ritorno nel Komsomol e nell’Istituto, presso il quale, anzi, viene eletto segretario della locale sezione della Gioventù Comunista. Il 1957 segna l’inizio del periodo dei maggiori successi di Evtušenko.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa
Bella Achmadulina

In questo periodo di forte ispirazione poetica, lo sostengono i suoi “amici politici” e la poetessa Bella Achmadulina, che diventerà sua moglie. È dello stesso anno l’incontro con Boris Pasternak che si complimenta col giovane poeta. Questi ricambierà l’ammirazione scrivendo, in occasione della morte del grande scrittore, la poesia Il recinto. Accanto ai componimenti di impegno civile, Evtušenko scrive liriche dedicate alle donne amate, cominciando da Achmadulina, dalla quale poi divorzierà, alla madre, agli amici (“Affetto”, “Al mio cane”, “Auguri, mamma”, “Il lillà”, “Verrà la mia amata”, “Marietta”, ecc.).

I viaggi all’estero Il viaggio a Monaco di Baviera e Parigi 

Nel suo primo viaggio all’estero, a Monaco di Baviera e soprattutto a Parigi, il poeta si permette delle dichiarazioni poco conformiste e autorizza la pubblicazione a Londra dell’Autobiografia (1963) che provoca nei suoi confronti una campagna di accuse capeggiata dallo stesso segretario generale del Komsomol, Sergej Pavlov. Evtušenko è così costretto ad un’autocritica, nella quale accusa gli editori occidentali di aver falsificato il manoscritto.

Una nuova tempesta scoppia dopo la pubblicazione nella Literaturnaja Gazeta del poema Babij Jar dedicato allo sterminio degli ebrei di Kiev. In uno degli incontri tra i dirigenti del Partito Comunista e quelli della cultura, il segretario generale del PCUS attacca pesantemente il poeta, accusandolo di aver versato col Babij Jar lacrime soltanto per gli ebrei, senza aggiungere una sola parola di compianto per i russi e gli ucraini trucidati nella stessa Kiev. Evtušenko si giustifica, ricordando che questi ultimi furono eliminati perché appartenenti alla resistenza antinazista, mentre lo sterminio degli ebrei fu motivato esclusivamente dall’odio razziale.

Il viaggio a Roma

Riacquistata la fiducia del partito, Evtušenko ottiene ancora di poter andare all’estero a declamare i suoi versi in varie città europee. Ma il poeta ha ormai perso il loquace entusiasmo dei suoi primi incontri all’estero, ed è con un’abilità cauta ed aggressiva insieme che si destreggia tra le domande talora insidiose del pubblico. A Roma, quando gli viene chiesto se conosca il “Samizdat”, (cioè la stampa clandestina di opere non pubblicate dalle edizioni ufficiali), egli non ne nega l’esistenza, ma afferma che ad esso ricorrono gli scrittori di poco talento respinti dalle pubblicazioni ufficiali.

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Bella Achmadulina

A chi domanda notizie sulla sorte del poeta leningradese Josif Brodskij, condannato a tre anni di campo di concentramento per “parassitismo”, non avendo voluto accettare un impiego nelle edizioni sovietiche, Evtušenko risponde che Brodskij è un poeta di nessun valore che, quando sarà rimesso in libertà, il pubblico occidentale dimenticherà del tutto (nel 1987 Brodskij sarà insignito del premio Nobel per la letteratura). A questo viaggio in Europa risalgono molte composizioni, tra le quali Così la Piaf usciva dalla scena, Facchino, Processione con la madonna.

I viaggi extraeuropei

Gli anni successivi vedono il poeta impegnato in numerosi viaggi: Medio Oriente, Africa, Stati Uniti, America Latina. Egli ha ormai assunto il ruolo di ambasciatore itinerante della letteratura ufficiale sovietica. Fiero di portare in tasca il passaporto del paese che guida la lotta dei poveri e degli oppressi, il poeta esprime la sua attenzione al mondo, la sua passione per l’uomo. Sono i sentimenti che manifesta nei componimenti dedicati ai paesi visitati; gli ultimi tra questi, qui riportati, sono brani di un poema ancora abbozzato sul viaggio in America Latina compiuto nel 1971: “Le lacrime dei poveri”, “La chiave del comandare”.

Gli scritti di “denuncia”

Per il centenario della nascita di Lenin, nella rivista Novyj Mir dell’aprile 1970, Evtušenko pubblica un lungo poema dal titolo L’università di Kazan (della quale Lenin fu allievo), in cui, rifacendo la storia del celebre ateneo, offre ai lettori un compendio di storia patriottica con la rievocazione di figure di rivoluzionari, scienziati, scrittori, uomini politici. Nell’agosto 1970, sulla rivista bielorussa Neman, Evtušenko pubblica il poema Sotto la pelle della statua della Libertà in cui, ricordando incontri e colloqui con personalità del mondo politico e culturale americano, attacca uomini e istituzioni di quella società.

Nel maggio dell’anno successivo, egli tenta di portarne sulla scena il contenuto in un dramma dallo stesso titolo che viene provato al teatro Taganka di Mosca, ma che non ottiene l’autorizzazione per la presentazione al pubblico. Dopo l’assegnazione del premio Nobel ad Aleksandr Solženicyn, Evtušenko pubblica nel settimanale Literaturnaja Rossija (novembre 1970), una poesia dedicata al 90º anniversario della nascita del poeta Aleksandr Blok, intitolata a A voi, che non stringeste la mano a Blok. In occasione della tragica morte dei tre cosmonauti sovietici Dobrovol’skij, Pacaev e Volkov a bordo della Sojuz 11 nel giugno 1971, una poesia di Evtušenko dedicata alla loro memoria è accolta sulla Pravda, accanto al comunicato ufficiale.

Il poeta, qualche settimana dopo, è la sola personalità della cultura sovietica che si reca a rendere omaggio alla salma di Nikita Chruščëv, nella generale indifferenza riservata, dal mondo ufficiale del suo paese, all’ex segretario del partito e capo del governo. Subito dopo il viaggio nel Vietnam del Nord, dove scrive versi che definiscono i capi cinesi “mocciosi ingrati”, Evtušenko compie una tournée negli Stati Uniti e nel febbraio 1972 è ricevuto da Richard Nixon alla Casa Bianca. In Italia è stato, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, lo scrittore sovietico forse più tradotto e conosciuto.

Ultimi sviluppi

Evtušenko ha pubblicato opere in prosa come: Il posto delle bacche (Jagodneye mesta, 1981), Ardabiola, Non morire prima di morire (Ne umiraj prezde smerti). Nel 1980 è stato pubblicato in Inghilterra un suo libro di fotografie: come fotografo ha esposto in numerose città, sia in Russia sia all’estero. Come regista cinematografico ha diretto: Asilo d’infanzia (Detskij sad, 1984) di cui ha scritto anche la sceneggiatura.

Ha scritto inoltre le sceneggiature di: Io, Cuba (Ja, Kuba), I funerali di Stalin (Pochorony Stalina). È stato insignito in patria del premio Znak Poceta, e nel 1991 dal Comitato Nazionale Ebraico Americano di una medaglia per le sue attività in difesa dei diritti civili. Dal 1993 è insegnante di letteratura russa presso l’Università di Tulsa (Oklahoma), dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa. Il poeta è stato riconosciuto per la XVII edizione del Premio Librex Montale che è stato assegnato il 5 giugno 2006 e infine ha ricevuto in Italia il premio alla carriera del Festival Internazionale di Poesia Civile di Vercelli nel 2007 e nel 2008 è stato ospite d’onore del festival internazionale Scrittori&giovani di Novara.

*notizie tratte da wikipedia

Giorgio LinguaglossaUbaldo de Robertis, grafica Lucio Mayoor Tosi

questo lavoro è dedicato al ricordo di Ubaldo de Robertis, gran signore della poesia italiana

Intervista

NELL’EPOCA DEL “SEMBREREBBE”

Evgenji Aleksandrovič, la vostra nuova raccolta si intitola I monumenti non emigrano. Versi del XXI secolo. Come  caratterizzereste questo tempo, questo nuovo secolo? Come sarà per il nostro paese?

Ritengo che noi adesso viviamo in un tempo in cui la Russia cerca una sua nuova identità, vuole capire se stessa. Ora si manifesta da noi una certa situazione plasmatica della società – da questo plasma si abbozza appena il corpo e lo spirito della Russia futura.

Da noi è avvenuto un enorme cataclisma sociale. Solo che, non si sa perché,  abbiamo dimenticato che non si è verificato per caso. Abbiamo dimenticato le drammatiche file in tutti i negozi. Abbiamo dimenticato i treni che si chiamavano “kolbasnijei”(1) perché persino nelle città nei dintorni di Mosca semplicemente non c’era il salame. Abbiamo dimenticato che c’era l’istituto statale della censura e che, senza questo timbro, non si poteva stampare nulla, addirittura gli inviti a nozze. Abbiamo del tutto dimenticato le disgustose commissioni che approvavano i viaggi all’estero, che controllavano in modo umiliante i nostri concittadini sulla lealtà.  E se si dà un’occhiata ancora oltre, allora ci imbatteremo in persone che giacciono fino ai nostri giorni in un eterno cristallo di giaccio, come in sarcofaghi, centinaia di migliaia di corpi di persone che non avevano nessuna colpa nei confronti della propria patria. Ecco io ora converso con voi e, dinanzi a me, sta il paletto D-13. Una volta sono andato alla Kolima con un famoso cercatore d’oro, Vadim Tumanov, che è stato una straordinaria guida perché era stato internato  lì nel lager. Ci siamo imbattuti in un uomo che sedeva a terra e beveva vodka da una bottiglia. L’uomo non sembrava un barbone, era assolutamente istruito. Abbiamo chiacchierato, è venuto fuori che era di Pietroburgo, dottore di non so quale scienza ma qui, secondo voci, era sepolto suo padre in una tomba comune. I documenti erano andati perduti. E vedo alcune colonnine marce, sotto le quali, forse, giaceva anche mio nonno Ermolaj Naumovic Evtušenko, comandante rosso dal portamento alla Capaev. Allora mi sono preso per ricordo questo paletto perché mi rammenti per sempre questo. Le persone dimenticano quanto di terribile e negativo abbiamo avuto nel passato e senza volerlo cominciano ad idealizzarlo. Il nostro presente finora non è diventato quello che volevano quelle donne che con i bambini nelle carrozzine stavano all’interno della catena umana che circondava la Casa Bianca nell’anno 1991. Un giorno quello stesso passato è potuto tornare di nuovo da noi sui carri armati. Sapete, nella mia vita non avevo mai visto tante belle facce  quante in quella notte tra il 19 e il 20 vicino alla Casa Bianca. Forse  soltanto nel 1945, nel giorno della Vittoria sulla Piazza Rossa. Purtroppo non abbiamo ancora realizzato le speranze di quelle persone. Oggi persino la stessa parola “democrazia” è stata compromessa agli occhi della gente.

Si ritiene che il poeta Evtušenko sia autore di versi politici …

Non è esatto che mi avvertano soltanto come un poeta politico. Mi è stato pubblicato un cospicuo volume di versi sull’amore “Non ci sono anni”. La mia prima poesia, grazie alla quale sono diventato famoso, è “Ecco cosa mi succede”. C’è forse in Russia una persona che non la conosca? Se la  ricopiavano a mano. Ed anche la mia prima canzone era sull’amore, ora si canta come canzone popolare, cosa che appare come il massimo complimento “Ah, ho tanti cavalieri ma non ho l’amore vero”.

Ma io potrei pubblicare anche un volume di versi civili. Io non amo la parola “politici”. Però versi civili – suona meglio. Autentici versi civili possono toccare temi politici ma  stanno più in alto della politica attuale sebbene possano essere basati su momenti attuali. Io, ad esempio, sono molto felice di aver impresso alcuni momenti storici nei miei versi e che grazie ad essi  si possa, in linea generale, studiare la storia. Io, per esempio, ero ovviamente sulle barricate il 19 agosto ma poi ho visto come Eltsin gestisce in modo irresponsabile il suo potere, come ha dimenticato la fiducia a lui concessa dalla classe operaia e,contemporaneamente,  anche dalla intellighentja. Sapete chi è per me un eroe dell’ottobre dl ’93? Uno sconosciuto, come mi hanno raccontato, un prete spretato, che uscì e sventolava un fazzoletto bianco ma lo hanno ucciso. Con due colpi: uno dalla parte della Casa Bianca, l’altro dalla parte degli eltsiniani. Ecco quest’uomo è diventato per me un eroe. Perché lui voleva  fermare questo.

Detto questo, uno Evtušenko  solo di versi amorosi – questo non è Evtušenko. Uno Evtušenko solo di versi civili – anche non è Evtušenko. Perciò questo libro “I monumenti non emigrano” è molto mio, in esso tutto è unito in un nodo indissolubile.

I vostri versi sono in realtà  piccole storie della vostra vita?

Mi sono sempre confessato nei versi. Quelli che leggono i miei versi, mi conoscono benissimo come persona. Ad esempio io ho avuto quattro grandi amori. Pongo più in alto di tutto  la riconoscenza verso le donne per il fatto che ci consentono di  esercitare questa grande arte. Ma succede che persone non dotate per l’amore invidiano le persone felici e cercano di farle litigare. Questo, del resto, succede anche nelle amicizie. Infatti un tempo hanno fatto litigare Majakovskij con Esenin, Pasternak con Majakovskij.

Giorgio Linguaglossa

Ma raccontate del vostro primo amore.

Non ho mai scritto di lei ma in questa raccolta ci sono versi  dedicati a questo amore. Non ne ho scritto perché è un tema intimo, qualche bigotto potrebbe forse  addirittura esserne scioccato:  io avevo 15 anni e questa donna 27. Era una apicoltrice della regione Altaj (2). Là c’erano paesetti composti esclusivamente di sole vedove di soldati, uccisi in guerra. Quando mi hanno espulso dalla scuola,capitai nell’ Altaj in una spedizione di esplorazione geologica perché non mi pigliavano da nessuna parte, avevo il passaporto con annotazione di mancata lealtà politica. Raccontavo balle, mi aumentavo l’età. Ed ecco che questa straordinaria donna, quando venne a sapere che avevo 15 anni (lei era molto religiosa), sapete, piangeva così tanto,  stava in ginocchio davanti alle icone e chiedeva perdono al Signore. Ecco ho immaginato: e se oggi fosse ancora viva. Vive ancora in quel solitario apiario. E all’improvviso per radio o per televisione sentirà questi versi  dove io mi ricordo di lei con gratitudine e capirà che non ha fatto nulla di male, mi ha soltanto mostrato l’animo femminile. Ed ho il presentimento che succederà proprio questo.

E allora cos’è per voi l’amore?

Per me è una straordinaria fusione, il punto più alto della natura  quando un uomo ed una donna non sentono confini tra il corpo e l’anima. Per  questo l’amore è meraviglioso e non c’è nulla di più alto di questo momento. Quando il corpo si fonde con l’anima, tu non sai dov’è la tua anima e dove il corpo.

E l’amore per la patria – cosa è?

 Capite, anche la patria è un essere vivente. Si compone di donne, bambini, persone che abbiamo incontrato nella vita. La patria non è un insieme di slogan politici e frasi. L’amore per la patria non è l’amore per un sistema politico. Addirittura non è nemmeno l’amore per la natura (sebbene anche la natura sia un essere vivente) ma prima di tutto ci sono le persone. Ho alcuni versi sulla patria, spero che diventeranno importanti per molti, addirittura li cito: ”Non fare un idolo della patria/ non aspirare a diventarne la guida./ Ringraziala per averti nutrito/ ma non ringraziarla in ginocchio./ Anch’essa ha molte colpe/ e tutti noi insieme siamo colpevoli./ È alquanto volgare divinizzare la Russia/ ma disprezzarla è ancora più volgare”.

Ovviamente qualche ipocrita dirà: ”Come è possibile: anche la patria ha molte colpe?” Ma la  patria siamo tutti noi! E noi dobbiamo rispondere di tutto, nello stesso tempo di quello che è stato nel passato e di quello che è ora. E soltanto allora nascerà da noi la responsabilità verso il futuro. Ho scritto una poesia satirica ”Nello stato di nome Sembrerebbe”.  Vi siete accorti che da noi oggi le persone usano spesso la locuzione “sembrerebbe”? Perché? Ma perché nella nostra vita moltissimo “sembrerebbe”. Chiedi: ma tu sei una persona onesta? – ma, sembrerebbe, che sono onesto. Addirittura dicono”sembrerebbe che sono innamorata”. Per questo ho scritto questa poesia satirica. Pensavo che sarebbe stato difficile tradurla in inglese e, se la traduci, allora gli Americani, per esempio, non la capiranno. Ed ecco che, quando con i miei studenti l’abbiamo tradotta a mo’ di esperimento, hanno detto: ”Ma questa è la parola più popolare in America al giorno d’oggi!”. In inglese suona sort of, ne è venuta fuori una traduzione eccellente. In America viene ritenuta una poesia  sull’America, in Russia – sulla Russia.

Voi trascorrete la maggior parte del vostro tempo in America. Non potreste paragonarla al nostro paese. Quali pregi e quali difetti balzano agli occhi qui e là?

 Noi siamo abituati ad accusare gli Americani di tutti i nostri difetti. Accusare qualcuno per i propri difetti è alquanto facile. Diciamo così, se abbiamo un varietà volgare, si dice che tutto questo è venuto dall’America. Ma noi stessi siamo giganteschi produttori di volgarità! I nostri numerosi difetti esistono anche in America ma sotto altri aspetti. Ad esempio noi prestiamo sempre meno attenzione all’istruzione. Mia moglie insegna russo nello stato dell’Oklahoma – ha 135 studenti di varia età. Ci sono lì eccellenti insegnanti ma l’educazione nelle scuole statali è sovvenzionata in modo sempre più misero e per le scuole private non tutti hanno denaro a sufficienza e da noi è lo stesso. Ai miei corsi di cinema e poesia russi vengono ragazzi direttamente dalla scuola ed io vedo come sbagliano in storia, quanto ne sanno poco. E che succede con i nostri ragazzi? La stessa cosa! Mia moglie studiava nell’università di Petrozadovsk (3) alla  facoltà di filologia e mi ha raccontato che è arrivato un ragazzo e le dice: “Maria Vladimirovna, mi hanno detto che per gli esami di ammissione chiederanno I racconti di Bel’kin, (4) io ho girato per tutte le biblioteche, non c’è da nessuna parte questo scrittore! E un ragazzo, quando gli hanno chiesto, chi è stato il più famoso generale della seconda guerra mondiale ha risposto – Suvorov. Evidentemente nella testa dei giovani c’è la stessa pappa dappertutto e, forse, non solo nei giovani!

O prendiamo, ad esempio, la politica. In America è de-intellettualizzata. Ed anche da noi la politica non si unisce ad una filosofia della società. Invece in politica ci deve essere, senza dubbio, un elemento di filosofia della società. In America c’è stato un tempo John Kennedy, quando lo ricordiamo ci viene subito in mente la sua frase: “Non domandare al tuo paese quello che può fare per te ma domanda a te stesso cosa tu puoi fare per il tuo paese”. Frase straordinaria che non si può dimenticare. Ma è stato tempo fa’. Le parole di quali degli ultimi politici ricordiamo? Forse, soltanto gli aforismi di Cernomyrdin. (5)

Ora tutti i problemi sono globali. E per questo non bisogna scaricare sugli altri paesi i nostri propri difetti. Perché io e voi siamo così bravi ma la loro depravata influenza ci ha resi cattivi. La corruzione c’è da noi e da loro. E l’ambizione. Da noi, in verità, si unisce con il complesso d’inferiorità ma questa è già una nostra aggiunta. Ma c’è qualcosa di comune, capite. Comuni difetti, comuni supremazie – entrambi i nostri paesi sono talentuosi e nella scienza e nella letteratura

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

Che pensate, la Russia diventerà un giorno un paese civilizzato?

Per quanto il nostro paese si trovi in una situazione plasmatica, noi stessi dobbiamo dapprima rispondere alla domanda alla quale tutti evitano di rispondere: quale società costruiamo? Nessuno risponde a questa domanda. Perché? Perché non conoscono la risposta. Io ritengo che la migliore risposta era contenuta nelle riflessioni di Sacharov sulla convergenza. Sia il socialismo che il capitalismo, come le società predominanti nel pianeta, avevano i loro più e i loro meno. Ci serve qualcosa di terzo, un altro sistema, che contenga tutte le migliori qualità del socialismo che non si possono perdere (penso, ad esempio, all’istruzione gratuita) ed al tempo stesso utilizzare la flessibilità del capitalismo.

E non bisogna temere la critica interna. Se uno stato teme la critica interna – questa è la prima dimostrazione della sua debolezza. Una critica autentica, buona è in fin dei conti costruttiva perché focalizza l’attenzione sui problemi più di punta. Ma parlare apertamente dei problemi di punta –non significa assolutamente che questo sia un coltello nella schiena del proprio paese. Si tratta più spesso di un  bisturi, necessario di fronte al marcio della società.

Avete fatto ancora una traduzione del Canto sulla schiera di Igor, perché? (6)

Questa traduzione è stata per me una delle imprese più difficili e serie. Non voglio dire spocchiosamente che la mia traduzione sia la migliore. Se non ci fossero state altre traduzioni in lingua moderna, sarebbe stato per me molto più difficile. In esse c’era molto di buono ma mi sembrava che non ci fosse una qualche sonorità, mancava l’audacia che il popolo russo ha sempre avuto. Quando ho lavorato con Shostakovic  sull’oratorio L’esecuzione di Stepan Razin, (7) lui mi ha fatto il più grande complimento che avrebbe potuto farmi: ”Ho la sensazione  che voi in una qualche altra vita abbiate preso parte sulla Piazza Rossa a questa esecuzione”. Io avevo semplicemente cercato di immedesimarmi nella situazione di allora. La stessa cosa col Canto. Ho capito all’improvviso che il Canto in alcuni punti era stato censurato da qualcuno, che c’erano delle lacune. Soprattutto nel finale. Secondo le leggi dell’opera musicale (e anche il poema  è un’opera musicale) esiste sempre un tema di unione, che funge da ritornello e spunta necessariamente nel finale. Questa è la legge di tutte le composizioni musicali sia antiche che moderne. Di sicuro il tema del Canto è quello delle ossa bianche – ossa anonime, sparse per le steppe, ossa di persone che sono morte in diverse insensate battaglie – c’era anche nel finale. Ecco, quando il principe Igor si mise in marcia, la natura lo avvisò (ci fu un’eclissi) lo avvisò il saggio Svjatoslav – non devi andare, perderai la tua gente. Ma l’ambizione lo spinse avanti. Lui non volle ascoltare gli ammonimenti, perse i suoi amici e lui stesso finì  in una gabbia dorata davanti al Chan. Ma non si sentiva a suo agio e volle tornare a Kiev. E io ho capito – ecco c’è un vuoto. C’erano persone che erano felici di vederlo ma troppi rintocchi di campane e, non si sa perché, non c’è il dolore per quelli che non erano tornati! Gli andavano incontro persone che avevano perduto amici e parenti che si erano uniti a lui nella marcia! Ed io ho compreso – dopo ogni grido Gloria! Gloria!, dopo ogni rintocco di campane doveva andare, come all’inizio, il ricordo di queste ossa! Non poteva non esserci secondo le leggi musicali. Ho finito di scrivere ed è venuto fuori qualcosa di completamente diverso.

Ho ricevuto alcune lettere da specialisti ed è emerso che questo era del tutto reale. Sembra che la rappresentazione, basata sul Canto, si è tenuta una volta alla prima riunione dei principi, quando si sono radunati per unirsi sotto il nome di Russia. E, ovviamente, non c’era una noticina di ricordo delle ossa nel finale di questa cosa. In quel momento essi hanno deciso  di non toccare questo tema. Volevano l’ottimismo. Volevano un finale più allegro. Ed hanno tolto questo tema. In parole povere, lo hanno censurato. Con le migliori intenzioni. E quando questo è stato realizzato, di sicuro c’erano dieci-quindici copie, trascritte a mano. Di sicuro hanno preso e canonizzato questo testo così come è stato composto nella seduta. È una mia ipotesi. Non dico che le cose sono andate necessariamente così ma ne sono certo al 99 per cento. Chissà, forse un giorno troveremo l’originale del Canto, che giace chissà dove. Tuttavia la mancanza dell’originale, forse, si spiega anche col fatto che loro non volevano che andasse di mano in mano.

Ho mescolato l’arcaico con le mie rime che vengono definite non correttamente “di Evtušenko” perché tutto il mio fare  rime viene dal fatto che un tempo alla stazione Zimà  sedevo su un muricciolo, componevo e cantavo stornelli. 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

…è stato nel 1967, andavo a scuola in un istituto tecnico in una borgata romana: Tor Sapienza, mi fermo ad una edicola accanto alla fermata del bus all’uscita della scuola, e vedo esposto il piccolo libro di poesie di Evtusenko nella edizione Garzanti economica (la cover è nell’articolo), La stazione di Zimà. Con tutti i risparmi che avevo in tasca lo comprai e lo lessi d’un fiato, avrò avuto 19 anni. A quel tempo non pensavo certo che un giorno avrei scritto poesie. Lessi e rilessi quel libro nella traduzione, se ricordo bene, di Zveteremich.

Incredibile, a quel tempo si pubblicavano i libri di poesia direttamente in edizione economica! eravamo sul finire degli anni Sessanta. Un decennio di micidiale creatività e ribellione giovanile. Adesso ci sono i professorini che, guardando con orrore le gambe di Nicol Minetti, gridano: «sesso sesso sesso sesso». I tempi purtroppo sono cambiati, ma in peggio. Lo svantaggio della nostra epoca di crisi e di cloroformio rispetto a quella dei fine anni Sessanta, è netto, chiaro e distinto…

Eppure, oggi, 2017, le cose della poesia italiana stanno assistendo a un grande rivolgimento rinnovamento: sono cadute nel vuoto tutte le parole d’ordine intorno alla poesia… non è rimasto niente da quel cumulo di macerie. ed io direi: «per fortuna!», «quello che resta lo dicono i poeti», scrisse un tempo Hölderlin – Adesso che non è rimasto nulla, neanche un cumulo di macerie, i poeti sono costretti a ricominciare daccapo dopo un sonno durato 50 anni. Bisogna rimettere mano agli orologi che sono rimasti fermi a 50 anni fa. Rimetterli in moto perché nel frattempo il tempo è passato.


Evtusenko poeta pubblico o privato? poeta grande o piccolo? Intervista e poesie inedite E una poesia di Marina Cvetaeva

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/10/evgenij-aleksandrovic-evtusenko-poesie-inedite-e-lultima-intervista-rilasciata-dal-poeta-russo-io-vivo-nel-paese-di-nome-sembrerebbe-nello-stato-di-nome-sembrerebbe-traduzione-a-cura-di/comment-page-1/#comment-20781

La problematica è stata indicata da Lucio Mayoor Tosi: Evtusenko è un poeta bravissimo ma banale, rientra nella tradizione russa che sta a metà tra la «clownerie» di Majakovskij e il «teppismo» di Esenin, è quindi un poeta «riconoscibile», inoltre lui, se ci fate caso, in queste poesie splendidamente rese in italiano dalle traduttrici, parla sempre come se fosse un ministro degli esteri della Russia, si mette in posa, assume un tono da oratorio, da agorà. E lo fa splendidamente, con un «parlato» di ottima fattura (e qui, ancora una volta, un grazie alle traduttrici che hanno fatto un lavoro oscuro ma preziosissimo!). 

In realtà, qui c’è un problema che fu accennato da Mandel’stam nel suo saggio Sull’interlocutore (1913). Mandel’stam si chiedeva: «Con chi parla il poeta?». Ecco, quando si legge un poeta (italiano o estero) dobbiamo sempre chiederci: Con chi parla il poeta? Che posa assume? Per conto di chi parla il poeta? Parla per se stesso e di se stesso? – E allora, rispondo io, possiamo mettere il libro in salamoia a fare funghi, non interessa a nessuno, non ci interessa sapere questioni private del «poeta»… a meno che… a meno che le «questioni private» non diventino immediatamente «pubbliche». Questo è il punto scriminante. Il 99% della poesia italiana che si è fatta in questi ultimi 50 anni, a partire dal primo libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, del 1974, parla di «questioni private», con rime e contro rime, assonanze e dissonanze, con tutta la falsariga dei retorismi messi bene in riga, con una orchestrazione polifrastica di buona fattura e competenza metrica non c’è dubbio, ma anche con un abbassamento notevolissimo e vistoso della «tenuta» linguistica dei poeti della generazione precedente, quella dei Fortini, dei Pasolini dei Ripellino… 


Ma, insomma, a leggere il libro a distanza di tanti decenni ci viene da ridere per l’ingenuità (o meglio, la posa ingenua del libro)… il fatto è, chiediamoci con Mandel’stam: «Per conto di chi parla il poeta? E perchi parla? – questo dobbiamo chiederci – Quale toga indossa? Quale posa assume? – Ecco, in un certo senso i poeti del post-moderno (italiano ed europeo) sanno benissimo di parlare ad una massa pseudo acculturata, ad una platea che vuole sapere i fatti altrui, che vuole cincischiarsi con la chiacchiera. E questo ha fatto benissimo la Cavalli, seguita da schiere di pseudo poetesse e pseudo poeti che raccontavano i propri fatti privati in verso, diciamo, libero o pseudo libero con un linguaggio polifrastico di fattura, diciamo, variabile… Ma, permettetemi, questa è paccottiglia, roba da attrezzeria da drogheria!.


Insomma, torniamo a Evtusenko. Lui è un poeta russo che non ha mai smesso di parlare in nome della Russia, anche quando parla di fatti privatissimi come della Stazione di Zimà della sua infanzia, lo fa in modo che quei fatti privati, privatissimi diventano immediatamente pubblici, diventano, non dico poesia, ma discorso oratorio sì, e ottimo discorso oratorio e suasorio. E questo è evidentissimo anche dalla intervista inedita che qui presentiamo al lettore italiano. Qui è evidente che Evtusenko parla a nome della Russia e si rivolge all’Occidente…

Ovviamente, Evtusenko è infinitametne superiore alla Patrizia Cavalli, qui non ci piove, ha ben altri strumenti, spazia tra il privato e il pubblico con apparente negligenza e facilità, assume toni oratori e pose attoriali con nonchalance, perizia e sincerità, è un bravissimo istrione della poesia, un attore che recita sul palco della poesia, ma non il palco dove la Mariangela Gualtieri ci parla dei suoi corrucci dell’anima bella, no, questa è «rigatteria» approssimativa e posticcia, quella di Evtusenko è una «rigatteria» di livello ben superiore, occorre saper fare gli opportuni distinguo, altrimenti parliamo a vanvera…

E adesso leggiamo una poesia di Marina Cvetaeva tradotta in modo mirabile da Donata De Bartolomeo che potete trovare in questa rivista:

Sole bianco e basse, basse nuvole,
lungo gli orti – oltre la bianca parete – un camposanto.
E sulla sabbia file di spaventapasseri di paglia
sotto traverse dalla statura umana.
.
E, spenzolando attraverso pali di steccato,
vedo: strade, alberi, soldati in disordine.
Una vecchia, una fetta di pane cosparsa
di sale grosso accanto al cancello mastica e mastica …
.
Cosa hanno fatto queste grigie case per farti arrabbiare,
Signore! – e a che pro’ tenere sotto tiro il cuore a così tante persone?
Il treno se n’è andato ed ha ululato ed hanno ululato i soldati
ed ha coperto di polvere la strada dietro di sé …
.
No, morire! Non nascere mai sarebbe stato meglio
di questo ululato dolente, compassionevole, galeotto
sulle belle donne dalle ciglia nere. Oh, cantano
adesso i soldati – oh, Signore, mio Dio!

Cari amici, non ho da aggiungere niente altro. Le somme tiratele voi.

 

Giorgio Linguaglossa
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

(da Rossiskaja Gazeta, 16/07/2005)

Nel mondo non ci sono persone non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.
Ciascuno ha tutto di particolare, di peculiare
e non ci sono pianeti simili tra di loro.

E se qualcuno ha vissuto senza farsi notare
e con questa insignificanza ha fatto amicizia,
era interessante in mezzo alla gente
proprio per questo suo essere non interessante.

Ognuno – ha un suo personale mondo segreto.
C’e’ in questo mondo l’attimo più bello.
C’e’ in questo mondo l’ora più terribile
ma tutto questo ci e’ totalmente ignoto.

E se un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve
e il primo bacio e la prima battaglia …
tutto questo se lo porta via con sé.

Sì, rimarranno i libri e i ponti,
le macchine e le tele degli artisti.
Sì, e’ destino che molto rimanga
ma qualcosa, comunque, se ne andrà ugualmente!

Questa e’ la legge di un gioco spietato.
Non muoiono le persone ma i mondi.
Noi ricordiamo le persone, i peccatori e i terreni.
Ma cosa sapevamo in sostanza di loro?

Cosa sappiamo dei fratelli, degli amici,
cosa sappiamo della nostra amata?
E di nostro padre,
noi, pur sapendo tutto, non sappiamo nulla.

Le persone se ne vanno … non possono tornare.
non risuscitano i loro mondi misteriosi.
Ed ogni volta ho di nuovo voglia
di gridare per questo non ritorno.

(1961)

IN UN OSPEDALE AMERICANO

Ecco quando ho avuto paura della morte,
avendo dimenticato che dovevo salvare il mondo
quando le mani di una infermiera di colore
hanno sfilato dal mio collo la cravatta.

E quando con accenno lamentoso
ho indicato con lo sguardo la toilette,
la sua siringa era inflessibile e l’occhio esperto:
“Il sangue – prima”. Ed ecco tutta la risposta.

Questa precisione da professionista,
che non lasciava cadere lacrime sul camice,
mi mostro’ all’improvviso come sono meschini
quelli che vogliono elemosinare la compassione.

Io le sono grato – tanto, addirittura.
Ed allora perché’ continuo
a sognare gli occhi compassionevoli
delle nostre misericordiose infermiere?

Su che cosa continua a reggersi la Russia,
cosa la salverà e l’ha salvata?
Il cristianesimo delle nostre donne –
la compassione.
Amaro secondo mestiere.

Che cosa ricordai? L’infanzia,
la Transiberiana,
i ritornelli accanto alla siepe fino a tardi
e nella provetta americana
scorreva lentamente goccia a goccia il mio sangue.

Da qualche parte in Oklahoma e nell’Ohio
possibile si prosciugherà’ l’anima
con le gocce del mio sangue russo
risucchiate in terra americana?

La nuova Russia ha schiacciato con uno scricchiolio
in un pugno sia le persone che il denaro.
Per la prima volta laggiù non ci sono poeti, per i Russi
non c’è posto né in libertà né in prigione.

Nel Caucaso ingrassano i corvi,
gracchiano, maledetti, alla sventura.
Eppure in Russia compatiscono
come non sono capaci di compatire da nessun’altra parte.

Io da adolescente stavo nel cappotto militare di un altro.
Imparavamo l’amore dalla compassione,
compativamo donne uscite di senno,
loro ci compativano, come potevano.

L’apicultrice, ingenua nella passione,
con i segni delle api sulla fronte.
“Io ti compatisco …” gemette.
Significava “Io ti amo”.

Noi nel paese, verso le sventure
non schizzinoso,
come figli della pietà siamo cresciuti,
sotto la brilla, sentimentale protezione
di una tenera parolacciara – la Russia.

Se resto a lungo all’estero
ascoltano – se si è stretto il mio cuore
per i sensibili ospedali russi,
poveri ma ricchi di compassione.

Le inservienti sanno con cura,
come nessun altro, dar da mangiare e lavare.
Se è impossibile vivere in Russia,
morirci, però, è meglio.

18/06/1996

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

ECCO COSA MI CAPITA 

Ecco cosa mi capita:
il mio vecchio amico non mi viene a trovare,
vengono invece in un tenue affaccendamento
sconosciuti di ogni tipo.
E lui
con gli sconosciuti se ne va in giro
e lo capisce anche lui
e il nostro dissidio è inspiegabile
e tutti e due ne siamo tormentati.
Ecco cosa mi capita:
viene a trovarmi una sconosciuta,
mi poggia le mani sulle spalle
e mi ruba all’altra.
E lei –
ditemi, per amor di Dio,
a chi deve mettere le mani sulle spalle?
Quella
alla quale sono stato rubato,
si metterà anche lei a rubare per vendetta.
Non risponderà di colpo
e vivrà in guerra con se stessa
e inconsapevolmente punterà
qualcuno a lei distante.
Oh, quanti
nervosi
e ostili,
inutili legami,
amicizie inutili.
Dove troverò rifugio a tutto questo?
Oh tu, uno qualsiasi,
vieni,
interrompi
l’unione delle persone estranee
e la incomunicabilità
delle anime gemelle.

(2007)

.

COSI’ IMPARANO!

Di nuovo le rotaie sono bagnate di sangue.
Il mondo e’ come una ferita aperta.
Le stazioni della metropolitana di Londra –
parenti di Beslan. (8)

Le rotaie della stazione Zimà della mia infanzia
con farfalline smerlettate,
che strano che nel mondo che sta uscendo di senno
qualcuno non vi abbia ancora fatte esplodere.

Ogni autobus, vagone, negozio –
domani, forse, un cimitero
dove per i proprietari da sotto le rovine
piangono i telefonini come cuccioli.

Il nostro pianeta e’ una banchina universale
insieme a bambini lattanti.
Signore, fa’ che il maledetto terrore
ci renda all’improvviso tutti vicini!

Ma come avete potuto telefonare senza vergogna
voi, nostri rabbiosi concittadini,
alla radiostazione “L’eco di Mosca”
dopo la tragedia di Londra!

La cannonata delle telefonate trionfava:
“Così imparano!
Così imparano!”

L’invidia non si nasconde negli angoli –
e’ felice delle altrui sventure:
“Magari gli andasse male, anche se sarà peggio per noi …
Così imparano! Così imparano!”

La nostra rozza Roma staliniana
ha cancellato la parola misericordia;
puntando nell’arena il pollice verso:
“Così imparano! Così imparano!”

Negli animi – lo sfregamento delle seghe dei gulag.
Tutti noi siamo contaminati dal terrore
e ad odiare gli altri con gioia maligna
abbiamo imparato sui nostri.

L’anima della Russia misericordiosa non si e’ esaurita
come una lampada segreta,
temo soltanto che di nuovo risusciti
il bosco felice delle mani accusatrici:
“Così imparano! Così imparano!”

Sono esplosi il nostro paese ed il destino,
e’ esploso il mistero russo.
Forse tutti noi – siamo brandelli
esplosi irrimediabilmente.

In che consiste la colpa degli Inglesi?
Se ringhiano arruffati
i nostri mugugni , la nostra teppaglia:
“Così imparano! Così imparano!”

Le patrie possono essere diverse
ma di fronte alla guerra ed al terrore
non dovrebbe forse unire
una patria comune – il dolore?
Al dolore apriremo l’un l’altro le porte.
Forse non abbiamo cantato anche noi “Tipperary”? (9)

Forse non hanno versato donnette incolte
lacrime vedendo il film “Lady Hamilton”?
Ascoltando i fatti di Stalingrado, gli Inglesi
un tempo si toglievano il cappello in silenzio.

Forse al suono della musica dei Messerschmitt
non facevano breccia i loro mezzi a Murmansk?
E, come nelle tombe, i caduti nelle battaglie
tra gli iceberg erano parenti dei futuri Beatles …

E non saremo forse condannati alle pene dell’inferno
per questo vergognoso “Così imparano!”?

18-25 luglio 2005

 Nello stato di nome “SEMBREREBBE”*

Negli ultimi due/tre anni nella lingua parlata russa e’ entrata strisciando e si è diffusa per tutto il paese l’espressione ambigua “sembrerebbe”, che sembrerebbe mettere in dubbio ed al tempo stesso, con il suo sorrisetto beffardo, sembrerebbe calmare sembrerebbe la nostra coscienza … ma a che pro?

Io vivo nello stato di nome Sembrerebbe,
dove, per quanto può sembrare strano,
non c’è una via Kafka,
dove sembrerebbe che leggono anche Gogol’
ma sembrerebbe anche Charms,
dove a volte sembrerebbe che amano
ma sembrerebbe non senza cafonaggine.
“E’ vero che tutti bevono
nello stato di nome SEMBREREBBE?”
C’è chi sembrerebbe che non beve
e, credetemi, nemmeno un goccio ….
“Ma che popolo sarebbe questi vostri SEMBREREBBINI”?
Sembrerebbe del tutto gentile
ma a volte ci sono sembrerebbe ladri e sembrerebbe assassini.
A grandi linee, tutti noi sembrerebbe che siamo felici
e sembrerebbe rispettabili.
Tutti noi siamo per la pace
ma a volte sembrerebbe che ci sono guerre.
In tanti cucinini – sembrerebbe la Cecenia –
dove avvengono massacri, come con i nemici ,
con gli stivali,
i coltelli da cucina e i ferri da stiro.
Il nostro “SEMBREREBBE” – è dovunque
come una pazzia quotidiana.
Nel processo sembrerebbe giudici,
sembrerebbe pensatori nella Duma. (10)
Una donna SEMBREREBBINA mi ha svelato
Il suo piccolo sembrerebbe segreto:
“Io sono innamorata di voi sembrerebbe per sempre.
Vi leggo e sembrerebbe che mi sciolgo tutta ………..”
Io voglio presentarmi dinanzi a Dio
come sono
e non come sembrerebbe,
non come se –
Spero di non diventare “sembrerebbe felice”
come “sembrerebbe nella vita”
come” sembrerebbe nella libertà”.

17/09/2004 – Talsa

Note al testo

(1) In russo la parola “Kolbasa” significa salame (ndt)
(2) Repubblica della Russia Asiatica (ndt)
(3) Capitale della Repubblica della Carelia (ndt)
(4) Famosissima opera di Puskin (ndt)
(5) Viktor Stepanovic Cernomyrdin (1938-2010), poltico russo noto per i suoi ottimistici aforismi (ndt)
(6) Opera 119 – cantata per baritono,coro misto e orchestra scritta nel 1964 e rappresentata per la prima volta nello stesso anno nella Sala Grande del conservatorio Cajkovskij di Mosca (ndt)
(7) Poema epico anonimo della letteratura russa scritto in antico slavo orientale, risalente apparentemente alla fine del XII secolo (ndt)
(8) Cittadina dell’Ossezia divenuta tristemente nota per il massacro di bambini avvenuto nel settembre del 2004 (ndt)
(9) Canzone irlandese (It’s a long, long way to Tipperary) molto popolare tra I soldati della prima guerra mondiale (ndt)
(10) Duma (ramo del Parlamento russo) dal verbo “dumat’” – pensare. (ndt)