Lucio Mayoor Tosi, Composition
Lucio Mayoor Tosi, poeta a tuttoggi inedito, nasce in un piccolo paese circondato da vigneti, nei dintorni di Brescia. Ha studiato arte alla scuola di pittura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. E’ pittore, grafico, pubblicista, artista digitale e poeta. È da molti anni discepolo di Osho, Maestro spirituale indiano, scomparso nel 1990 – da qui il nome Mayoor, Swami Anand –. Trascorre anni facendo pratica di meditazione, si sottopone ed estenuanti terapie psicanalitiche; si interessa di Zen, lo pratica in pittura e, anche grazie all’esercizio dei Koan, inizia seriamente a scrivere poesia. Presente in varie antologie, tra queste: Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016), i Quaderni Erato, Limina mentis. Sue poesie sono state pubblicate su blog letterari, oltre a L’Ombra delle parole, La presenza di Erato e Poliscritture e sulla rivista telematica http://mariomgabriele.altervista.org/
Lucio Mayoor Tosi, Composition
Dichiarazione di intenti di Lucio Mayoor Tosi
Queste mie poesie vorrebbero essere il modesto contributo di un autore inedito a quanto si sta dicendo in merito alla Nuova Ontologia Estetica (NOE).
Frammenti e composizioni di un mondo che è sempre stato in guerra. Quel che si può fare con pochi legnetti, piegando un filo di ferro, spianando un fazzoletto di terra per farci una valle. Nel deserto. Una formica in cerca di salvezza.
L’universo della mia poesia comincia qui, da composizioni di mattoncini Lego; tante finestre, messaggini con emoji e trasmissioni Londra-Stazione V (Venere) dove una signora, bontà sua, durante la pausa del pavimento traspirante si concede per una trasmissione dati, come si direbbe oggi. Così il tempo si ferma per entrambi e facciamo conversazione.
Si direbbe una fantasia sfrenata, e invece è vita in ricostruzione. A demolire ci pensa la guerra, quando c’è e quando non si vede. Se non la si vede è perché è domenica: i Cattolici vanno alla messa, i Buddisti fan ruotare le preghiere, i Muezzin salutano Allah e alle 8:30 aprono i supermercati. Macerie. Ben illuminate e con le scale mobili, ma sempre macerie sono. E anche la poesia sonetto non sonetto, come darsi appuntamento – oh «Ma non c’è più nessuno! Dove se ne sono andati tutti?».
Scrivo frammenti perché ho la mente scomposta. Non mi sono preso la briga di scoprire quale sia il disturbo perché ho capito presto che il problema non sta dentro di me. Per i fortunati come me, quelli a cui non sono bastate le gite domenicali per illudersi che possa esistere la felicità – tantomeno direi salendo su un barcone mare-azzurro e terra di salvezza oltre l’orizzonte. Ma almeno non c’è merda umana sui marciapiedi e ci sarà pure una casa, lì dove ce n’è tante – l’unica soluzione è cominciare da zero.
Ecco che la signora, nel suo quartiere blu, trasalendo e sospirando manda carezze. « Noi per arrivare in ufficio facciamo la strada più lunga, perché è la più bella. Non ce ne sono altre». Del resto, mi spiega, la vera novità dell’epoca dove vivo io che sto scrivendo, non sta nell’informatica ma nell’aver inventato la televisione a colori! L’informatica sarebbe tecnologia auto reggente, utile, sì, ma non bella abbastanza da perderci il sonno.
Ci sono altri poeti nella NOE, come Giorgio Linguaglossa e Gino Rago, che viaggiano nel tempo, ma si vede che loro hanno fatto il Classico e l’Università a Lettere e Filosofia. Hanno confidenza con il passato, Giorgio addirittura pare che s’inventi i nomi. Io no, sono pittore, ho studiato a Brera e a questo punto posso dire che la maggior parte della vita, o la più importante, l’ho trascorsa facendomi trapassare la mente e il cuore in estenuanti terapie psicoanalitiche; non perché pensavo di essere pazzo ma perché sapevo di essere a rischio. Come tutti ma io no. Basta entrare in un grill sull’autostrada durante il periodo estivo per rendersi conto di come stanno le cose. E perché i terroristi, oggi islamici, son come le zecche all’ora del dessert. Comunque via, basta dire che sono rimasti in pochi ad avere ancora il senso del denaro.
Gino Rago, Ubaldo de Robertis
A me fa piacere leggere le storie di Odisseo come le scrive e racconta Gino Rago ma, come volevo dare a intendere poc’anzi, io mi sento come arrivassi dal futuro. Ho trovato armonia stando nel mezzo, tra Tranströmer e Philip Dick. Il mio frammento l’ho trovato scrivendo versi in giustezza d’immagine, come se sopra ogni verso ci fosse un’immagine, un riquadro. La base del riquadro corrisponde alla misura del verso. Può sembrare una soluzione macchinosa, ma serve principalmente per la verifica, che si può fare leggendo la poesia dalla sua fine andando all’inizio. Però non sono tanto scrupoloso, so che il mio labor limae non è perfetto. In pittura si tiene in gran conto l’errore, nella pittura zen è perfino indispensabile… come se bisognasse lasciar respirare l’erba, la natura. Ma si risolverà.
In questo periodo sto imparando molto dalle poesie di Mario M. Gabriele. Mi convince la compattezza, la mancanza di fronzoli (corsivi, punti di sospensione, spaziature). D’altra parte, ho in mente Tranströmer e certe solitudini del verso le sento ancora necessarie. Poi devo stare attento alle elencazioni, perché questo è il pericolo che si nasconde nell’uso frequente del punto. L’elenco, il nudo accadimento, non dà tempo all’immagine per formarsi. E talvolta, mi sembra, Giorgio Linguaglossa ci cade. Però, mi dico, lui ha una mente, diversa dalla mia, ha un’altra velocità. Nelle poesie che potete leggere qui sotto se ne trovano un po’ di questi passaggi; infatti non ne sono del tutto contento perché mi sembra che non tutti i riquadri sopra il verso sono stati riempiti a dovere. Alcuni di questi riquadri non hanno immagine; questo accade perché sono parole soltanto, ma son quelli che mi sono più cari… dove l’immagine sottostà alla poesia. Ma ne scrivo pochi, penso infatti che nella composizione di poesia ce ne dovrebbe essere poca. Altrimenti non la si ricorda.
Vi ringrazio e vi voglio bene. Non siate troppo severi, non è sempre facile inventarsi.
Giuseppe Talia, Mario Gabriele
Lettura di Letizia Leone
Lucio Mayoor Tosi tra frammento, fotogramma e colore. Undici poesie inedite per una Nuova Ontologia Estetica.
“Il mio frammento l’ho trovato scrivendo versi in giustezza d’immagine, come se sopra ogni verso ci fosse un’immagine, un riquadro. La base del riquadro corrisponde alla misura del verso”: così Lucio Mayoor Tosi colloca la propria ricerca poetica sotto lo statuto della visibilità chiarendo i modi dell’organizzazione spaziale del suo verso, un verso che inevitabilmente prende la misura del “frame” o fotogramma se incornicia l’avvenimento catturato dall’immagine dentro i limiti lineari e metrici di un “riquadro”. Una sorta di forma-icona.
Un modo di procedere sperimentale sul contrappunto ritmico di sequenze-frammento che come speciali inquadrature cinematografiche traggono forza enunciativa dall’immagine. O per meglio dire: la scrittura di Tosi si muove nell’ambito della visione, del colore, della resa iconica, una speciale “grammatica del vedere” e ciò in coerenza con la sua ricerca formale di artista figurativo che ha grande familiarità con la forma, lo spazio e la sostanza del colore.
In questa scrittura che sembra seguire la logica compositiva di un modello cinematografico entra in gioco anche la dimensione pittorica quando visione e percezione coagulano la potenza espressiva del dire sul puro valore cromatico.
Il tempo della pittura irrompe con le coordinate del colore, con la fissità apodittica di un pigmento, ad esempio un blu, anticipato da grandi circonferenze di nero nell’esempio seguente:
Lei volse altrove
gli occhi grandi suoi neri.
E io fui accanto a mia madre.
Una signora blu.
In quest’ultimo verso l’effetto di spaesamento è assicurato come in una freddura. Mettere il punto all’inquadratura con un episodio cromatico (qui il blu) significa aprire la strada alle possibilità della rappresentazione informale. O perlomeno è lo sbilanciamento verso una dimensione ulteriore. Il lapsus o l’“errore” (elemento importante della composizione come ci informa Tosi) dove il “puro accadimento” entra in corto-circuito con l’indicibile, si fa portatore di una “contra-dizione”.
E non era Yves Klein, artista del tema monocromo del blu, che parlava di “estasi ipnotica del blu”? “Il blu è la verità, la saggezza, la pace, la contemplazione, l’unificazione di cielo e mare, il colore dello spazio infinito, che essendo vasto può contenere tutto. Il blu è l’invisibile che diventa visibile.” Il blu è investito “di una pluralità semantica che si esalta nel colore puro”.
«Una notte blu. – Decisamente fuori commercio».
Oltre la notte misurata del tempo cronologico, qui il senso epifanico del blu, colore freddo che precede il nero evoca un non-tempo, espressione altresì dell’idea del vuoto. L’impianto formale dei testi ha spossessato il poeta di ogni cedimento enfatico o sentimentale cosicché, là dove l’obiettivo cattura atmosfere asettiche, il colore si fa portatore neutro e trasversale di pathos. Sembra aleggiare la lezione di Kandinskij sulla “Prospettiva patica” del colore. Oppure come non rievocare il Wittgenstein delle “Osservazioni sui colori” quando parla di “osservazione percettiva” là dove i “colori stimolano alla filosofia”?
Ma analizziamo come una poesia di Lucio Mayoor Tosi crei un effetto destabilizzante sul lettore:
Nel vuoto con gli occhiali.
Guardando con sospetto
il giaccone appeso di fronte
giorni andati a male.
Come scendere in cantina
tra i sepolti vivi.
T. Tranströmer e I. Brodskij
Qui troviamo quell’arte della concentrazione tanto cara a Tomas Trantstömer, eppure così vicina all’antica poesia giapponese dello haiku, dove concisione e rivelazione vanno di pari passo. Apparentemente il poeta non crea la profondità della prospettiva, si muove in superficie, accavalla una serie di azioni “in presa diretta”, senza filtri e/o montaggio, il set non è costruito, le scene spoglie. Eppure il vortice di un buco nero potrebbe risucchiare ad ogni passo l’ignaro lettore. Eventi normali intessono una trama illusoria sulla vertigine del vuoto. Oppure l’esperienza del trascendente, i massimi sistemi, gli altari filosofici come Tempo, Spazio, Vuoto vengono disinnescati da un geniale cortocircuito epistemologico: “Nel vuoto con gli occhiali”.
I dettagli tranquillizzanti (il giaccone appeso, lo scendere in cantina, gli occhiali, i giorni) innescano l’assurdo di una situazione esistenziale, si fanno correlativi metonimici/metaforici di eventi paradossali. Scriveva Paul Klee nei suoi Diari: “il diabolico farà capolino qua e là e non potrà venir represso. Poiché la verità richiede una fusione di tutti gli elementi”. (Diari 1079) Le operazioni della coscienza o i flussi dell’inconscio si “automanifestano” dal modo in cui vengono mostrate cose e situazioni ambientali. Visibile e l’invisibile, all’improvviso, si danno simultaneamente. L’uso in un’accezione estensiva della metonimia/metafora, il dislocamento dell’astratto nel concreto o viceversa, i “giorni andati a male” in correlazione isotopica con “i sepolti vivi” in cantina, ad esempio, fanno sì che nell’apparente nitore delle sequenze l’oggetto diventi oggetto mentale, “anello che non tiene”, e apra il varco al pensiero e all’intuizione. A frammenti di realtà deformata.
È evidente che con Tosi siamo ormai lontanissimi da certi paradigmi poetici novecenteschi come quei meccanismi testuali azionati dal propellente del soggettivismo lirico sentimentale e minimalista. La sperimentazione investe la qualità dei frammenti- fotogrammi che sapientemente permettono di incrociare un altro livello della realtà. Che sia il sottosuolo dell’inconscio o il magazzino-cantina delle visioni o dei rifiuti della letteratura ‘alta’. Non a caso Tosi stesso si colloca tra due scrittori totem quali Tomas Tranströmer e Philip Dick, poeta laureato Nobel della letteratura l’uno, geniale scrittore “cervello di gallina” della cultura trash l’altro, ma ambedue impegnati nell’allestimento di mondi e dimensioni parallele, nella perforazione della realtà, nello sguardo distopico. Talvolta certi imprevisti surreali o iper-reali cominciano a esprimere la realtà. Disvelano. Anche Valéry, a tal proposito, ha osservato che la maniera più organica di esprimere la realtà è l’assurdo.
Eppure questa poesia espone fondamentalmente una condizione di “gettatezza” (“Il carattere dell’esistenza per cui noi siamo in un certo stato d’animo di cui ci è oscura l’origine, per cui l’essere c’è ma rimane oscuro, lo chiamiamo “l’esser gettato” dell’uomo -dell’Esserci-nel-mondo”). Qui c’è l’uomo dentro l’ingranaggio della realtà, in un originario esser-gettati-nel mondo (Geworfenheit) cosa tra le cose, ente tra gli enti, e a questo punto il lettore entra in una situazione emotiva di profonda angoscia:
Mondo visto dalle fessure di un armadio chiuso. / Un camion parcheggiato. Il volto addormentato di due persone /anziane.
***
A piedi nudi sulla plastica di un tappeto grigio trasparente.
Da sotto il tappeto si osserva l’andirivieni di una coppia. Devono aver litigato.
***
Raccolgo una poesia caduta.
Il silenzio fischiò al passare del treno.
Il freddo apparire delle cose.
***
Ogni tanto un verso / si lascia cadere nel vuoto.
(Qui, Lucio Mayoor Tosi)
Lucio Mayoor Tosi eFrancesca Dono
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Precetto della nuova ontologia estetica: liberare le «cose» dai loro luoghi, dall’ergastolo inflitto alle «cose»
Lucio Mayoor Tosi sa benissimo che abbandonarsi supinamente alla «costruzione eufonica» implica necessariamente l’accettazione di una costrizione (quella dell’eufonia, di una certa stilematica, della sintassi proposizionale, del verso unilineare etc.). L’oggetto in poesia, nel romanzo, in pittura etc. è sempre costruito, anzi, l’oggetto è dato dalla costruzione dell’oggetto, dalla sua costruzione linguistica, esso è il risultato della accettazione del principio della conformità ad una norma. Ma la norma uccide l’oggetto. Affinché io lo possa vedere di nuovo, devo infirmare la norma, falsificarla. Ad esempio la poesia di Anna Ventura parte dal principio di adottare una «distanza tra noi e le cose».
Lucio Mayoor Tosi parte dal principio di liberare le «cose» dal luogo in cui si trovano, solo che quel luogo è un luogo linguistico, quindi Lucio è costretto a liberare le «cose» dalla conformazione linguistica che li vuole rappresentati, tradizionalmente, in un certo modo convenzionale, convenzionale in quanto accettato dalla comunità letteraria. Lucio in questo modo può percepire come per la prima volta le «cose» di cui parla nelle sue poesie. Le «cose» hanno delle qualità che noi non vediamo almeno fino a quando non le abbiamo liberate dalla asfissiante determinazione che le vuole così, in primo luogo dalla sintassi proposizionale maniacalmente sommessa alla concezione scientifica della misurabilità di tutte le «cose». Per la semplice ragione che in arte, e in poesia le «cose» non sono misurabili. La sintassi adoperata in modo acritico e normativo dalla poesia che conosciamo è considerata alla stregua del principio scientifico «science is measurement». Solo che la poesia non può essere misurata con il regolo del calibro, a suon di millimetri di eufona o di anti eufonia. Lucio Mayoor Tosi spezza la candida eufonia, la manda in frantumi e riutilizza quei frantumi come materiali di risulta; i veri materiali della sua poesia (come anche della sua pittura) sono questi materiali di risulta, dei frammenti riadattati in «compositions».
Per rispondere a Simone Carunchio (Enomis) dirò che il bello della «nuova ontologia estetica» è che non c’è alcun precetto normativo che ti dica come devi scrivere o come devi fare pittura, ciascun poeta o pittore o scultore può, anzi, deve interpretare la nuova sensibilità secondo i nuovi e diversi modi di concepire certe categorie. Anche la parola, il verso, il metro sono categorie, dei principi non fissi e stabili nel tempo ma concetti che possiamo anzi dobbiamo utilizzare in modo libero e critico. Ecco perché non c’è alcuna «contraddizione» all’interno della rete concettuale della «nuova ontologia estetica», perché essa è una ricerca in divenire, non è una cosa acquisita in partenza.
Ieri ho postato una intervista a Massimo Donà (che consiglio a tutti di ascoltare) nella quale il filosofo parlava delle «cose». Il filosofo citava un aneddoto raccontato da Giorgio De Chirico. Il pittore italiano disse un giorno che scoprì la sua pittura metafisica un dì camminando per una piazza di Firenze quando vide la statua di Dante da sola in mezzo ad una piazza con dei porticati ai lati nel sole meridiano. Il pittore disse che aveva visto quella «cosa» come «per la prima volta». E ne rimase sconvolto. Ecco il punto centrale: la scoperta delle «cose» è più straordinaria della scoperta dell’America. Dobbiamo ri-tornare a scoprire le «cose» di nuovo, questo afferma la «nuova ontologia estetica», e lo afferma con forza e convinzione. Scrivere in un modo che le «cose» si vedano per la prima volta…
Condivido la posizione di Lucio Mayoor Tosi: nessun cedimento al «dolore» di cui è straricca la poesia italiana di tutte le latitudini, dal Nord (dai lombardi) al Sud (compreso Sinisgalli). E voltiamo pagina.
Ci sono in queste poesie degli spunti che vanno oltre Tranströmer. In un certo senso Lucio ha segnato un punto per la poesia del Dopo Tranströmer, ha mostrato quale spazio espressivo vi sia nel Dopo Tranströmer. Leggiamo questo verso:
L’aria s’accomoda le vesti color latte
è un verso di straordinaria leggerezza, sembra abitare una atmosfera di gas leggeri. Chi scrive un verso del genere ha digerito la lezione della poesia europea e ha messo nello sgabuzzino la poesia italiana da Ennio Flaiano in giù fino ai nostri giorni. Io consiglierei ai giovani poeti di leggere con attenzione queste 11 poesie perché qui c’è qualcosa che non troveranno in nessun altro poeta contemporaneo: quella libertà espressiva, quella leggerezza delle metafore che nella poesia italiana extra NOE sembra essere scomparsa. Sono poesie fatte di cartapesta, leggere e friabili, castelli di carta che un soffio di vento potrebbe spazzare via in un attimo, castelli di parole come di specchi che riflettono il vuoto e l’azzurro inquinato dei nostri cieli. Sono poesie fatte con un’ottima stoffa nichilistica.
Lucio Mayoor Tosi
Poesie brevi
Battendo le mani sulle ginocchia, vestito col camice
per ammalati terminali-che-non-lo-sanno, si alza.
– E’ così.
Mai stato meglio!
L’infermiera controlla le gocce della flebo
dà una pacca sull’ago ben inserito.
*
Nel vuoto con gli occhiali.
Guardando con sospetto
il giaccone appeso di fronte
giorni andati a male.
Come scendere in cantina
tra i sepolti vivi.
*
Il vecchio zio del sacerdote
spegne le candele elettriche.
Il nipote si è sposato, non vive più lì.
La gente del nord Europa
verrà per turismo a vedere
le impressionanti reliquie
dei Santi.
*
Arrotolando del tabacco:
– Ho in mente il ritratto di Emilio Salgari.
Offeso nel suo onore di scrittore. E penso ai poeti
sognatori che non credono alle favole. Parte I°.
Tra le lenzuola ruvide dell’ospedale e il frinire dei grilli.
L’estate finge un passo in avanti poi batte tacco e bastone.
Estrae due libri dal cappello a cilindro: Mompracem
o L’isola del tesoro? La sinistra.
*
Sopra un divano-letto abitato da segretarie.
– Vorrei dare al mondo una ragione per vivere.
*
Sono diventato ricco, mi accendo una sigaretta.
Tanto ricco da non aver bisogno di nulla.
*
Cielo immenso, stellato con gusto. Nuovo.
Una notte blu. – Decisamente fuori commercio.
Ma lei gli mostrò le spalle il collo, la pelle.
E lui passò dalla notte all’infinito. Quel che avrebbe detto
agli extraterrestri. Perché non siamo soli nell’universo.
*
Ho fitte alla testa.
Luce soffusa di un bosco capovolto.
Il pensiero di un coniglio.
Mi sto affezionando alla flebo.
*
Lei volse altrove
gli occhi grandi suoi neri.
E io fui accanto a mia madre.
Una signora blu.
*
Raccolgo una poesia caduta.
Il silenzio fischiò al passare del treno.
Il freddo apparire delle cose.
*
Facevo il piattello.
Senti-mentale.
Oltre la siepe una fontanella di voci.
Non intorno, né sopra né sotto. Da qualche parte nella testa.
Verde fantasma di primavera. Vuota una brezza di vento.
Parole rigide come legnetti. Di seguito: volti che si girano
riflessi nel senza luce piccole ustioni. Impronte chiare
di palazzi persi abbandonati come piroscafi navigando
senza orizzonte. Luoghi di molte paure.
Alcune amiche.
Si fingeva di uscire.
Trepidanti.
Ombre di tutti i colori.
Fuori, in cortile sono stato per qualche minuto in compagnia
della bambina di due anni che abita nella casa di fronte.
Abbiamo comunicato a gesti. Ci siamo molto divertiti.
D’improvviso il buio si accende di limoni. Sorride il conducente.
Se ne va piano piano la luce.
Non vedo le carezze.
Mi si strangola dolcemente.
Ti bacio sul becco.
Dow Jones.
Il sempre presente sa battere a macchina.
La scrivania è piena di vecchi robot.
Giocattoli mai messi in ordine.
– Ci sono difetti strutturali nel linguaggio.
Si potrebbe dire che le parafrasi appartengano
tutte all’io. All’io bravo e all’incapace.
– Non vedo altro che cose intorno a me.
A tu per tu con il vuoto, dovendo affrontare
il comune pensiero di morte. Lunga pausa.
Interviene il biberon di un neonato sul pacchetto
delle sigarette. – Un fragile tentativo d’incanto,
amici miei cari barattoli.
Nei mercati finanziari sale il prezzo del pesce.
– Il vostro linguaggio mi sta mandando in confusione.
Urge modellare una poesia confidando nel tempo.
Tempo e luce. Primi passi di libertà:
L’atmosfera è un composto di tempo.
La fine è annunciata, Dow Jones!
Versi rossetti (didascalie).
A fine mese
topi maligni e oneste ruberie.
Presto dimenticate.
Gesti di solidarietà
che mandano avanti.
Fuori tempo.
Bianche navicelle
come tanti capelli
di malattie.
Camion
lasciati al parcheggio
per l’eternità.
Casette con l’albero
cieli sospesi e niente nel mezzo.
Nel vicolo stellare
è sempre quel giorno.
Non è stagione d’accoppiamenti
dice Brucaliffo. Tutta la notte qui e là
chiedendo di te.
Voci diverse
spaiati endecasillabi.
Poesie con molto spazio
e spreco di lampadine.
A notte fonda
come davanti al camino, amici
uno su tre gli stessi a capo.
A volte immagino con timore
il poeta Milosz che mi fulmina
con lo sguardo.
Vivrei a Parigi.
In Italia sul terrazzo
di un comodino.
Mi complimento con lei
per i tanti capelli e la scollatura
cara signora Signora.
Le coup de fudre
scaturì dalla specchiera
in anticamera.
Se lo lasci dire
dal libro chiuso della conoscenza:
tocco e so.
Mezzanotte passata con largo anticipo.
Il serpente si trasforma in drago.
Versi sciamani
e tanti segnamenti davanti alle edicole
di Santi Poeti.
Scrivere al ritmo
rude ma cadenzato
del comò.
La bicicletta preferisce
i versi chiari del fiume.
Nelle giornate col cappello.
il suono dei corni
(avanza con la barca
il riflesso di luna).
Santa Maria piena di grazie.
Di ciliegie
bocca e berretto.
Scattano sulle molle curvi pensieri.
La stanza gira gira.
Nello zero assoluto
flettersi domenicale
di un verso fattorino.
Ed è subito mezzanotte.
Amore.
Noi abbiamo la percezione fisica del cosmo.
L’abbiamo nel corpo, il cosmo.
L’attimo che dura mezz’ora, s’imbriglia nel cosmo e dissolve in particelle.
Quel che vediamo nell’atomo è fibrillazione, tempo che non si rassegna
e danza.
Nel respiro autunnale, quando bruciano i rovi e brucia la terra
l’andirivieni delle navicelle.
Cosmo dice che ti dovresti allacciare meglio le scarpe.
Metterti in ordine, renderti presentabile.
Il tempo non ama scadere.
Scrivi: il nulla è solo continua dimenticanza.
Senza collisione è sicuro ogni naufragio; così senza una supernova
nemmeno noi ci saremmo incontrati.
Nel dubbio di non piacerti sarei caduto, foglia su altre foglie.
Un soffio di vento. Due necrologi in città diverse.
Fan ridere i cimiteri.
Koan.
Uno scrittore di battute:
NON POSSEGGO NULLA
Problema, svolgimento.
Ho troppe cose.
Sparse ovunque
invadono la stanza.
Lupo dubbioso, annusando l’aria
che non sa di steppa.
– A quest’uomo gl’importa solo
di fumare sigarette.
Scrittore(.)com
musica annessa.
(Le immagini al di fuori nel ritaglio
non verranno considerate)
L’esposizione d’arte si terrà al coperto
dentro una casetta artificiale
rivestita con sacchi riempiti di paglia.
Id Verification V7 [ XXXXX59 ]
Si prega senza sentimentalismi
all’ora sesta del pomeriggio.
Ogni giorno. Malgrado gli sguardi
non sentitevi estranei. Atei si diventa
ma se ne può parlare. Relatore
I-am MPS (mega prodotti stellari)
in cerca di verità.
Qui giunti
dopo la sigla […]
– Devo tener conto della mia mente
che non ce la fa.
– Pagherò il prezzo della mia rinuncia.
Un giorno saremo tutti illuminati.
La Terra si sentirà al sicuro.
– Cara Principessa, il vuoto che ci accompagna
è un regalo del cielo.
L’uomo depositò sul tavolo
un lento sospiro.
– Dimentichiamo sempre che la mente
è madre di ogni nostra ossessione. Amen.
Una mente rilassata sa fermarsi
sa osservare, ascoltare.
[Famous group XXXZ12]
Un altro uomo entrò dalla porta a vetri.
Perfetto bianco argentato
non una nota fuori posto. Come va?
– L’imbecille sta cercando
di farmi pronunciare una battuta esilarante.
Prego Dio che mi assolva –
Piove nella dimora del tempo.
Piove sul glicine, sull’argine ondoso
che ti vide fanciullo inorridito
mentre speravi in qualcuno
che ti venisse a salvare.
Una fine in decolté.
Ambra. Nella cella di una geisha
aspettando primavera.
Dick.
Dopo anni di infortuni
la tigre si innamorò come morendo
sul braccio disteso di un oleodotto.
Nella sala si osservò un rispettoso silenzio.
Oggetto del suo amore
fu la lingua maleodorante di un pellicano.
Sensazioni mai provate.
Il piccolo Jones decise di muoversi in fretta
per arrivare in tempo all’allenamento.
Il muso della tigre giaceva sognante.
Pomeriggio lungo. Stazione metropolitana.
Imbratto con parole una colonna di fumo.
L’amato.
La bocca ti bacia
sola tra le parole.
Resta nei paraggi anche
se ha molto da fare
anche se pensa ad altro.
Nella confusione
la riconosci sempre.
Alla fermata dell’autobus
con gli occhi chiusi.
Sai che dovresti partire.
La città è sconosciuta
ma nel locale le persone
sono amiche; un istante
prima eri al freddo
sulla curva aspettando
senza destinazione.
All’orecchio di un’altra
sussurravi una rauca
parola vera. Qualcosa
nel tempo. Aiutami.
Il suo corpo
si modellò al tuo.
Ora nell’abbraccio
vi riconoscete.
Alita nei polmoni il colore
rosa di una specie
senza nome.
Chiudi le città, rimanda
ogni appuntamento.
Resta sulla traiettoria
del bacio.
Nel buio nuovamente
vestito a sera.
Sei l’amato, il benvenuto.
L’Imperatore.
Una comunità di nani, detti nanetti
nel bosco dove è sempre giorno.
Uno di loro, attraversando la piccola radura,
mi viene incontro. S’apre la giacca, mostra
l’arsenale pieno di carte colorate: scegli.
Quelle a righe argento e oro…
L’occhio del vecchio divenire è alla finestra.
Nanetto chiude la sua scatola di latta.
L’aria s’accomoda le vesti color latte. Intorno
ma come dietro una balaustra, è bufera.
Passi sulla ghiaia. Si sentono tuoni, l’Imperatore tossisce.
Un’astronave veloce tesse la ragnatela del tempo.
Tutti guardano in alto tranne i gatti. Sulla tastiera
in punta di dita affila, il nodoso pensiero di molte
persone, tra cui il medico, la sua bella segretaria,
la gente nei palazzi dell’inps, i palazzi stessi;
le case dove nessuno vorrà tornare, le teste
sbattute contro i muri. Le carognate.
Quello non sa che sta per ammazzare
il primo nella lista dei funerali.
Scende dal cielo l’esatta economia, posa il piede
sui sassi del campetto sportivo e rimbalza:
Londra, New York, Tokyo. A volte son carte di spade
capelli ben pettinati. Dove capita è una rovina.
Mi vedo nello schermo di una finestra solitaria
in cima alla torre. Appeso, i denti serrati sulla cartolina
d’invito alla presentazione di “Amorose rime”
datato ieri, 16 febbraio 2940.
Eco.
Danzano le porte, i calamai,
le carte scritte fittamente.
Pasternak, il famoso poeta russo,
guarda triste dalla finestra.
Neve infelice.
Lei scrive per lui Canzone della giacca marrone
un brano da cantare pensando, appena svegli.
Sole alto. Lo sguardo va alla finestra.
Parco senza gioia di cortile.
Ci sono figure nascoste nei tronchi degli alberi.
Le loro parole pigne fiocchi di polvere. Quella matita
sola sul davanzale.
Ci si abbottona. Berretto da gatto.
Vedi? Troppo grande e larga
è la vecchiaia.
Colori.
Dalla stampa giapponese si alza un volo di pettirossi.
Ora stan li, affacciati alla finestra. Guardati dalla luna.
Il respiro di un bambino addormentato. Ogni tanto un verso
si lascia cadere nel vuoto. Prolungato lamento.
A piedi nudi sulla plastica di un tappeto grigio trasparente.
Da sotto il tappeto si osserva l’andirivieni di una coppia. Devono aver litigato.
Ora il riflesso di due finestre. Tempo in lenta carrellata.
Se non accade nulla il quadro si spegnerà entro quarantotto ore.
E così la coppia, chissà dove sono adesso. La casa sembra deserta.
In una giornata di pioggia vista dai vetri sporchi di un fanale.
Sul tapis roulant gustando un gelato in controluce.
– Senza quegli orrendi cimiteri si morirebbe con maggior discrezione.
Il corpo giaceva in una pozzanghera. Era tutto finito.
– Puoi scegliere quali immagini mettere dentro lo specchio.
Disegni rupestri su antichi monitor. Il cuore pulsante e tratteggiato
di una macchina, simile a quello di un cane che abbia corso
al rallentatore. Sul pavimento di plastica si riflette capovolta
l’immagine di un uomo col cappello militare. Sta salutando.
Stelle alpine e stalattiti. Mondo visto dalle fessure di un armadio chiuso.
Un camion parcheggiato. Il volto addormentato di due persone
anziane.
Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all'università "La Sapienza" con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l'UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l'Università "La Sapienza". Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell'antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Collabora con numerose riviste letterarie e organizza laboratori di lettura e scrittura poetica. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)