Edith Dzieduszycka, LORO – poemetto – Un esempio di nuova ontologia estetica, con un Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa, La sceneggiatura dell’Inconscio che si esprime attraverso il fantasma

Giorgio Linguaglossa

«Loro erano comunque sempre lì»

 

Io sono nel posto in cui si vocifera che
«l’universo è un difetto nella purezza del Non-Essere»

J. Lacan – Scritti

E dove siete è la dove non siete.

T. S. Eliot – Quattro quartetti

Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

La sceneggiatura dell’Inconscio che si esprime attraverso il fantasma – Una esemplificazione di scrittura poetica della «nuova ontologia estetica»

Nella poesia di Edith Dzieduszycka assistiamo  ad una «rappresentazione scenica» dove l’Io è l’attore principale sottoposto alla persecuzione da parte di altri innumerevoli implacabili nemici: «Loro». In questa rappresentazione scenica abbiamo la messa in mora dell’io, il suo scacco ontologico. La posta in gioco di questa drammatica «sceneggiatura» è in quel rien cui continuamente è ricondotto l’io parlante, l’ex nihilo da cui proviene ogni phoné. Parlare diventa «mancare», la condizione invalicabile dell’esperienza di questo rien. La «rappresentazione» scenica ha come presupposto il «niente» dell’io, la sua «mancanza», il suo venir meno («il mio Schermo delle Meraviglie, la mia Scatola Magica, la mia Scacchiera di Fuoco»). Siamo all’interno di uno dei documenti più significativi del nichilismo contemporaneo. Ma per introdurci nelle segrete stanze delle «rappresentazioni sceniche» della Dzieduszycka dobbiamo fare un passo indietro e ritornare a Freud.

L’io per Freud assolve al compito di regolare, attraverso il principio di realtà la tendenza alla scarica proveniente dall’Es, che agisce sotto il dominio del principio di piacere. Ma l’io è anche un istanza corporea, legata al sistema percezione-coscienza, ad esso spetta, sul piano funzionale, «il controllo delle vie di accesso alla motilità», fine ultimo della scarica pulsionale.1

È l’io che fa i conti, se così si può dire, con il corpo, l’io è un io-corpo in quanto è ad esso che spetta il compito di assicurare la mediazione con il mondo attraverso la dialettica tra percezione, coscienza e inconscio. L’io, insomma, pur nello scacco di non essere «padrone in casa propria», mirerebbe alla padronanza, ed è forse questo tratto che crea la maggiore confusione. Mirare alla padronanza non significa «padroneggiare». L’io assolve, in maniera precaria, a un ruolo in cui, non si risolve. E questo perché ovunque vi sia un piano proiettivo, la rappresentazione che vi si proietta non assicura che essa non sia un miraggio, o quantomeno che tale proiezione non sia reattiva nei confronti di quanto «altrove», nello stesso apparato psichico, si compie ad insaputa dell’io. Ecco allora perché, una volta delimitato il ruolo dell’io, Lacan introduce la nozione di «soggetto», intendendo con ciò qualcosa che non si configura nell’argine posto dall’io, ma che dell’io assume anche la sua parte «oscura». Siamo alla soglia di una svolta importante. Per comprendere cosa sia il «soggetto dell’inconscio» e in che modo si distingua dall’io, per comprendere cosa significhi quella ciò che Lacan chiama «divisione del soggetto».

Giorgio Linguaglossa
L’io è in realtà un soggetto diviso e scisso

L’io è in realtà un soggetto diviso e scisso,

circondato da entità che lo minacciano, lo sovrastano, da presenze ingombranti, da «fantasmi», mostri, paure, inquietudini. All’improvviso, tutto crolla, l’io si rivela essere una fragilissima impalcatura di certezze, di istanze ordinatorie, rassicuranti. Ma cosa è che fa crollare questa mirabile e complicatissima impalcatura di certezze? Cosa è che minaccia l’io se non altri che l’io stesso per il mezzo dei propri sinonimi ed eteronimi? All’improvviso, l’io si accorge che non può più «padroneggiare» nulla, che il suo progetto di signoria e di padroneggiamento sul mondo è crollato come un castello di carte che un alito di vento ha dissolto. L’io è questa istanza che ha smesso di funzionare, non più in grado di razionalizzare il mondo sotterraneo delle pulsioni dell’Es, è una funzione immaginaria alla quale concediamo un credito eccessivo.

L’Es non è l’inconscio, sebbene in esso confluisca il rimosso. L’Es gioca un ruolo importante in rapporto all’Io, Io che sorge sulla base di un movimento reattivo, secondo una modificazione, dice Freud, per la diretta azione del mondo esterno. Ecco allora che appare chiaro che l’Es non essendo l’inconscio è quella parte dell’inconscio in cui confluisce il rimosso, ma con la differenza che in esso le Sachevorstellung sono accompagnate da Wortvorstellung. Se l’inconscio è muto, l’Es parla. «Ça parle». Ecco la provenienza del «Ça parle» di Lacan. Dunque, in questi componimenti di Edith Dzieduszycka non è l’io che parla ma è l’Es che si incarica di parlare al posto dell’io, e lo fa con mezzi («Loro») oltremodo convincenti.

Ecco che giungono all’io le «cose» che derivano da rappresentazioni rimosse, ecco che ritorna sempre di nuovo il rimosso, ecco i «fantasmi» («Loro»), ecco l’Es che bussa alle porte dell’io gettandolo nella disperazione e nell’angoscia. Chi sono «Loro»? Chi sono questi Stranieri? Adesso lo sappiamo, sono le proiezioni dell’io che ritornano indietro minacciosi, persecutori e vendicativi perché qualcosa è stato «Loro» fatto che non può essere silenziato con il rimosso, e che affiora alla coscienza sempre di nuovo.

L’inconscio è un inter-detto, esso non ha nulla dell’oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale feroce e muto. L’inconscio è sì muto, ma solo perché in esso sono presenti unicamente Sachevorstellung2. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. Ciò nonostante, sotto il dominio del Lustprinzip, l’inconscio non può non muovere alla scarica, ed è in questo movimento che lo spinge alla deriva che esso trova le sue parole, incontrando il Realitätprinzip, e cioè la sua dimensione propriamente linguistica. Lo vediamo, ci dice Freud, nei sogni: in essi si apre la «via regia» per l’inconscio, ma altresì vediamo come, nei processi di condensazione e spostamento, si manifestino quei meccanismi che Lacan riconoscerà appartenere alle figure retoriche basilari della metafora e la metonimia; lo vediamo in questo poemetto di Edith Dzieduszycka che si può definire un sogno, o meglio, un incubo ad occhi aperti.

L’inconscio non è l’inconoscibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni, presenze, allucinazioni; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io, lo coglie a tergo del suo discorso posizionale, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di introduttorio ma che lo investe nel suo stesso fondamento presunto, nella sua presunzione di «essere».

L’inconscio si esprime attraverso il fantasma («Loro») il quale nel suo manifestarsi esclude nella sua campitura l’io in quanto il fantasma è un montaggio, è l’allestimento della pulsione in funzione del desiderio al fine di sostenerlo, di sospenderlo un attimo prima che tutto svanisca, affinché, come Orfeo, non capiti di guardare il volto interdetto di Euridice. Dal punto di vista immaginario, il fantasma («Loro») presenta un aspetto scenico e, dal punto di vista simbolico, è una vera e propria sceneggiatura. Il fantasma («Loro») è quanto raccoglie dal linguaggio la rappresentazione scenica della caducità dell’io, un attimo prima che tutto svanisca.

La poesia di Edith Dzieduszycka sospesa tra il «nulla» e il «pieno» della scrittura: la crisi dell’io

L’inizio e il finale del poemetto di Edith Dzieduszycka hanno una precipua caratteristica, sono aperti. Ecco l’incipit:

È ovvio che le cose non possono più andare in questo modo.
Devo prendere dei provvedimenti.

Il primo verso si riallaccia a dei precedenti che, però, non sono scritti, presuppongono altre parole che, però, non sono state pronunciate. La poesia proviene dal vuoto di parole che la precede. Ecco una caratteristica della poesia della NOE: il vuoto precede il pieno della scrittura. Una volta aperto il rubinetto della scrittura, ciò che deve avvenire, avviene, si apre la «rappresentazione scenica», il monologo di un Attore: l’io, che si contrappone ai non-io, a «Loro». Voglio dire che, una volta apparsa la scrittura, tutto quel che ne consegue non può che seguire, deve necessariamente seguire. La scrittura poetica è una macchina inarrestabile che deve procedere sino alla fine. I segni di punteggiatura, come bene ha rilevato Gino Rago, sono dei segnali che tentano di trattenere il flusso di coscienza, il fiume di parole che l’io si trova a pronunciare. È un teatro maledetto quello che si apre, uno spazio scenico in cui opera uno psicotico, uno psicotico che ha un solo nome: l’io.

Gli ultimi due versi sono eloquenti, indicano che la partita non è chiusa. È un finale aperto. Ciò vuol significare che ci saranno ulteriori «atti» della rappresentazione, ulteriori prove sceniche. In fin dei conti, quella a cui abbiamo assistito è stata una mera rappresentazione scenica di ciò che avviene allorquando si infrange la barriera del «nulla»:

E morire felice. O forse no.
Chi può saperlo.

Dunque, la grande originalità della poesia di Edith è che lei mette in scena una crisi esistenziale come mai era avvenuto in precedenza nella poesia italiana del secondo novecento, se si fa eccezione per Helle Busacca con i suoi Quanti del suicidio (1972). Ed ecco che i conti tornano. La Dzieduszycka riprende dal punto in cui la Busacca aveva lasciato. Tutto quello che è avvenuto dopo la Busacca può essere messo nel ripostiglio delle parole a perdere, delle parole inutili. Qui, per la prima volta dopo la Busacca, vengono pronunciate delle parole «vere», «pesanti», la Dzieduszycka giunge, a suo modo e con il suo lunghissimo percorso, ad un punto di svolta della tradizione del monologo dell’io. D’ora in avanti la sua poesia rimarrà come stregata da quella scoperta, dalla scoperta che l’io è entrato in crisi inarrestabile, che la felicità del «nulla» è stata infranta perché sono intervenuti «Loro». Di qui il discorso poetico tipicamente dzieduszyckiano: con frasi brevi, secche, intervallate dai segni base della punteggiatura, la virgola e il punto, una successione paratattica che giunge fino al buco nero della significazione, fino al punto estremo della crisi dell’io.

A questo punto, parlare del distinguo: prosa o poesia è, a mio avviso, specioso. Arrivati a questo punto della crisi, non c’è più differenza alcuna tra la prosa e la poesia (intese nel senso convenzionale, convenzionalmente novecentesco). E qui si apre un nuovo discorso per la poesia contemporanea italiana. Questo poemetto di Edith ha un valore inaugurale (non in senso corrivo e usuale del termine) inaugura un nuovo modo di fare poesia. Questo per chi ha orecchi sensibili, per chi può intendere e volere. È una poesia che apre, non chiude….

Alcune digressioni sul concetto di «nulla»

Vorrei aggiungere due parole sul concetto di «nulla» da cui proviene la scrittura poetica della Dzieduszycka e quella della NOE in generale. Il nulla può essere «pensato» come uno stato di quiete (di equilibrio) delle forze elettrodeboli che possono diventare, in determinate circostanze, elettroforti. La scrittura poetica di questo poemetto ci richiama con forza verso il «nulla», ci fa avvertire la sua prossimità. Ad un certo punto, l’equilibrio elettroforte del «nulla» è diventato «debole» e si è prodotta la scrittura poetica della Dzieduszycka. La scrittura poetica come un Big Bang in miniatura. Semplice, no? – Ma che cos’è il «nulla»? Ma è ovvio che l’io si difende con tutte le forze dalla sua origine, che è lo stato immobile del «nulla», tutta la volontà di potenza dell’io si dispiega perché il «nulla» ha lasciato dietro di sé un piccolissimo varco, appena un punto, da cui si è originato l’io e la scrittura dell’io.

Il «nulla», dunque. Andrea Emo negli Aforismi de Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, pubblicati da Massimo Donà e Gasparotti nel 1989: “Il nulla è l’assoluto che si annulla, appunto perché il nulla è l’assoluto […] L’origine è il nulla, in quanto è l’origine che si annulla […], cioè è l’annullarsi dell’origine; l’origine è l’atto dell’annullarsi, del suo annullarsi […]”. 

Questo pensiero ci dice qualcosa di importante intorno alle vicissitudini del «nulla». Ha fatto ingresso l’ulteriore stadio del nichilismo. E la poesia italiana non poteva non prenderne atto.

Scriveva Andrea Emo nel libro citato:

«La presenza di tutto ciò che è presente è in realtà la presenza dello stesso Nulla originario […]. L’essere, cioè, non è al posto del nulla — non c’è l’essere invece del nulla. Bensì l’essere è la stessa presenza del nulla (il nulla non è presente se non come essere)»

La scrittura poetica della Dzieduszycka è un venire alla presenza, un distogliersi dal nulla per venire alla presenza di nient’altro che di se stessa, perché prima di essa c’è il nulla e dopo di essa c’è, egualmente, il nulla.

1 Si veda a proposito S. Freud, Entwurf einer Psychologie 1895, in Gesammelte Werke, op. cit., S. Fischer Verlag, Frankfurt a/M 1950; trad. it. a cura di Musatti C., Progetto di una psicologia e altri scritti 1892-1899, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 223-4.

2 J. Lacan, Livre VII, L’éthique de la psychanalise (1959-1960), Édition de Seuil, Paris 1986; L’etica della psicoanalisi, (1959- 1960), Einaudi, Torino 1994 a cura di G. B. Contri, Libro VII., p. 69-70.

Giorgio Linguaglossa
edith dzieduszycka diario-di-un-addio-sogno

Edith Dzieduszycka

 

LORO

 

[Versione in poesia di un originale scritto in prosa contenuto in Nodi sul filo 

(20 racconti - Manni, 2011)]

È ovvio che le cose non possono più andare in questo modo. 

Devo prendere dei provvedimenti. 

Devo correre ai ripari. 

Proteggermi dagli attacchi concentrici e sempre più ravvicinati che 

Loro 

stanno piano piano organizzando

per accerchiarmi, rovinarmi, annientarmi.

 

Non ho ancora capito chiaramente il momento esatto

in cui tutto questo ha preso inizio. 

Si sono mossi in maniera così impercettibile 

che ne voi ne io avremmo potuto accorgercene.

Poteva trattarsi di un sogno ad occhi aperti sul vuoto. 

Di un'impressione indefinibile e fuggitiva. 

Di un soffio leggero che tutto a un tratto 

ti sfiorava i capelli, o le spalle, e percepivi 

come una carezza dapprima quasi piacevole.

 

Ma si trasformava poi, lentamente, inesorabilmente, 

in un brivido sempre più intenso che ti correva lungo la schiena. 

Ancora un po’ e quel freddo ti avvolgeva 

come una lunga mantella scura e umida. 

Ti stringevi allora all'interno di te stesso, 

tiravi su il bavero della giacca e ci affondavi il collo e il mento. 

Ti guardavi le mani e ne scoprivi allibito le giunture, 

gialle e rigide come fossero le zampe di una vecchia gallina, 

mentre la tua pancia si contraeva in ondate gelide.

 

A volte invece ti sentivi attraversato da vampate 

calde e nebbiose che ti facevano salire il sangue alla testa, 

correre veloce, sempre più veloce il battito del cuore 

e ritmate le pulsazioni delle arterie lungo il collo. 

I radi capelli si appiccicavano

alla fronte, alle tempie, alle guancie,

gli occhi si arrossavano, 

la lingua si faceva così spessa e ruvida, 

simile a carta vetrata, 

da non riuscire nemmeno ad articolare, 

anche se non la smettevi, almeno così ti sembrava, 

di parlare, parlare…

 

Non ho capito, e ancora oggi non riesco a decidere, 

di quelle manifestazioni,

quali erano le più orripilanti e angosciose. 

Non si alternavano in modo sistematico o con regolarità. 

Imprevedibili e capricciose, spesso si dipanavano in serie analoghe: 

cambiava soltanto la loro intensità. 

 

Dopo un tempo che poteva sembrarti interminabile 

oppure brevissimo, 

smettevano brutalmente per venir sostituite da altre nuove, 

violente anche loro, che mano a mano diminuivano però d'intensità. 

Per cui te ne stavi rannicchiato, col respiro trattenuto, 

nella speranza che fosse tutto finito. 

E invece tutto ricominciava, in modo uguale o contrario, 

certe volte immediatamente, senza la minima pausa, 

altre con un intervallo del quale non potevi mai prevedere la durata.

 

Loro. 

Loro erano comunque sempre lì. 

Loro. 

Impalpabili.

Inafferrabili. 

Tu ne eri cosciente, come sentivi che anche 

Loro sapevano che tu li percepivi. 

E non potevi mai immaginare

né prevedere 

di cosa sarebbe fatto l'istante dopo. 

Cosa avrebbero inventato per mantenerti in quello stato

d'ansia perenne insopportabile.

 

***

 

Fino a questo punto erano rimasti silenziosi e muti, 

né udibili, né visibili. 

Soltanto ectoplasmi.

Impalpabili, senza consistenza né contorni. 

Forse non c'erano nemmeno, e li avevo immaginati. 

O forse 

- cominciavo piano piano a pensarlo, a supporlo - 

non c'era il minimo dubbio, 

stavano proprio lì, rimpiattati nell'ombra. 

 

E la loro strategia era una,

e una soltanto: 

riuscire a convincermi di non star bene. 

Di essere malato. 

E quando dico malato, voglio dire invece, fuori di testa. 

Io mi sento assolutamente tranquillo su questo punto: 

malato non sono, pazzo nemmeno, 

continuo a pormi una moltitudine di domande. 

 

Chi sono Loro? 

Cosa vogliono da me? 

Per quale motivo ce l'hanno con me ? 

Con me soltanto,

o anche con altri poveretti in circolazione intorno a me?

 

Mi guardavo intorno, 

e osservavo tutti quegli innumerevoli altri molto attentamente, 

ma anche discretamente,  perché non si accorgessero della mia indagine. 

Cercavo di capire dai loro discorsi, dalle loro parole

e perfino e soprattutto,

dai loro silenzi, dalle loro mosse ed atteggiamenti, 

da tutto il loro modo di comportarsi,

insomma, tentavo di verificare se qualcosa li turbava internamente

o modificava il loro aspetto.

Se gesticolavano o parlavano da soli.

Se avevano dei tic o gli occhi strabuzzati.

Se tremavano sotto i raggi del sole o se invece sudavano

e si asciugavano il viso e le mani nelle fredde giornate di febbraio.

Se le loro facce diventavano gonfie e rubizze

sotto la pioggia gelata di novembre.  

 

Ma non scoprivo niente di particolare. 

Gli altri avevano i loro soliti stupidi musi di sempre,

beati ed ebeti, o sospettosi e corrucciati.

Cambiava poco.

La geografia delle multiple espressioni che possono adottare

quelle maschere ridicole rimaneva nell'insieme invariata.

In quelle scialbe creature non notavo nessun pallore

o rossore eccezionali o anormali.

Non si scambiavano racconti lamentosi, oppure sì,

qualche volta, e mi sembrava allora di percepire il mio nome.

Ma nell'insieme rimanevano pateticamente identici a loro stessi,

imperturbabili nella loro rozza pochezza.

 

E così non ci poteva essere il minimo dubbio:

dall'alto di queste osservazioni meticolose e prolungate,

potevo e dovevo dedurre una cosa sola.

Una cosa che avevo in fondo sempre intuito, immaginato, indovinato: 

ero IO nel loro mirino.

Soltanto IO.

IO soltanto. 

 

E quel fatto enorme,

mescolato ad una sensazione di profonda sorpresa e angoscia,

diventava altresì per me, fonte quasi inebriante

di soddisfazione e di orgoglio.

Chi altro poteva giustificare un tale dispiegamento di mezzi?

Quale altro bersaglio era mai stato degno di tali e tante attenzioni?

Loro forse ci avevano pensato a lungo e molto bene.

Probabilmente avevano cercato disperatamente l'avversario

alla loro altezza e finalmente,

dopo ricerche più affannose di quelle destinate al ritrovamento

del Santo Graal, l'avevano finalmente scoperto.

 

Tanti contro uno. 

Loro contro di me. 

I Titani in azione. 

Una battaglia epica che si stava preparando. 

Ma IO ero pronto, in piedi, col gladio in mano. 

Non pensino mai di farmi paura. Mai.

 

Sarò il più forte. Sono d'altronde il più forte da sempre. 

Senza il minimo dubbio. 

Il loro astio non è che il riflesso e la coscienza della loro imperfezione.

Invidia. Rabbia. 

 

***

 

E poi è cambiato qualcosa.

Una sera di novembre.

Loro si erano tenuti finora ad una certa distanza. 

Non li udivo come non li vedevo. 

Sapevo con certezza che mi stavano intorno, muta silente e tenace. 

Sapevo che mi spiavano.

E' dunque successo una sera di novembre, 

me lo ricordo perfettamente, 

una di quelle sere in cui il buio e l'ombra 

ti piombano addosso senza preavviso, 

quando già volteggiano nell'aria gelida tante foglie rosse e ruggine

prima di cadere e formare un tappeto morbido

che scricchiola sotto i passi.

 

Stavo proprio pensando che non succedeva niente di particolare

o nuovo da un po' di tempo quando invece,

un po' alla volta,

ho cominciato a sentirli ronzare debolmente in lontananza.

Percepivo il loro affannarsi

che somigliava al volo delle api intorno all'arnia.

Le api operaie indaffarate e solerte intorno alla loro regina.

Regina o re, non cambia.

Un fruscio costante e monotono, che dapprima mi diede un sottile fastidio.

 

Ma poi capii.

Si trattava del loro modo di comunicare con me, di rassicurarmi.

Erano segnali per ricordarmi che non mi abbandonavano.

Che ero sempre al centro dei loro pensieri e della loro attenzione.

Che il loro odio nei miei confronti non era

né sparito e nemmeno diminuito.

Che potevo contare sulla loro costante premura.

E così mi rasserenò. 

Era quella la normalità. 

 

Avevo finalmente capito che si trattava di un ingranaggio 

ben congegnato, di un complotto sapientemente ordito 

finalizzato alla mia distruzione. 

Dovevo reagire, lottare, impedir loro di mettere in opera i loro piani.

Piano piano mi sto, direi, abituando, 

quasi affezionando a questo strano mondo oscuro 

e brulicante intorno a me. 

Mondo altroché affascinante e stimolante se confrontato 

a quello banale e consueto che tutti considerano ovvio 

e di cui quasi tutti si accontentano. 

Credo anzi che la diminuzione o sparizione della loro flebile litania 

mi turberebbe non poco. 

La loro presenza mi fa sentir vivo, combattivo, pieno d'inventiva. 

Devo ogni giorno programmare un giro di vite

per farli tacere, per smantellare la loro rete.

 

Conscio della loro presenza,

come Loro della mia, 

conviviamo, sempre all'erta, 

sacerdoti ferventi delle nostre strane liturgie. 

 

***

 

Ero convinto però che sarebbero rimasti a distanza rispettosa,

accontentandosi, in seguito ad un altro periodo di tranquillità

che mi fece temere di averli persi,

di ringhiare e mostrare in modo sempre più rumoroso

denti astratti, come cani arrabbiati intorno all'osso. 

 

Dopo tanta prudenza, accortezza, discrezione,

stavano invece modificando la loro tattica.

Dovevano manifestarsi, fare vedere al mondo

sordo, cieco e incosciente che esistevano,

che bisognava prenderli in considerazione.

E mi facevano quasi pena, quei loro vani patetici tentativi

per intimidirmi, mettermi paura, costringermi a stare zitto,

spingermi all'angolo del ring.

Ma era conoscermi male. 

 

Provavo quasi compassione per quei loro sforzi

di stare presenti sempre, sentinelle malvagie,

di non mollare mai, di apparire vigili, efficienti, forti.

Più forti di me. Però prudenti. Non si sa mai.

Ancora non sentivo sulla mia faccia il loro alito fetido.

Forse trattenevano il respiro.

O la loro distanza da me non era ancora tale

da consentire loro di raggiungermi.

I miasmi delle loro calunnie s'infrangevano

contro la salda barriera della mia grandeur. 

 

Sapevano che non li temevo.

Che li aspettavo, dritto, fermo,

deciso a non mollare, a respingere i loro attacchi.

Un soldato accerchiato pronto a vendere cara la pelle,

solo contro tutti, fiero e comunque sicuro di vincere.

Ma dico così per dire.

Perché la mia pelle non la venderò comunque Mai.

Mi è troppo cara.

È d'altronde obbiettivamente troppo cara. Infatti non ha prezzo. 

            Montagne d'oro sul piatto d'una bilancia non basterebbero 

            a compensare il mio peso.

Poi possiedo intorno a me le mie Amazzoni e i miei Gladiatori,

tutti fedeli e devoti, pronti a buttarsi nel fuoco per me.

Non sanno niente di Loro e delle mie battaglie contro di Loro.

E se per caso sanno, fanno finta di niente,

ma rinserrano i ranghi perché hanno sempre capito

che la mia sconfitta sarebbe anche la loro. 

 

E io sto zitto.

Non devono sapere, e nemmeno immaginare.

Questi sono fatti miei. Fatti miei e basta.

Loro, muta non più silente schierata intorno a me,

li devo combattere e sconfiggere da solo,

come San Giorgio fece con il Drago,

Jason protetto dal Velo d'Oro,

Ercole contro l'Idra.

Devo essere il Vincitore assoluto di questo conflitto epocale,

del quale si parlerà nei libri di storia

quando finalmente tutto verrà fuori alla luce del sole e della luna

e tutti capiranno l'importanza e l'ampiezza della posta in giuoco.

Del dramma che ho vissuto.

Del sacrificio che mi sono imposto

per il Bene di una comunità ingrata e neanche degna di me.

 

Sono IO il Difensore della Verità,

della Giustizia,

dell'Onore.

Sono anche il Difensore di Me Stesso,

simbolo vivente di quelle Virtù.

 

***

 

Oggi mi hanno agguantato. 

Il round finale si sta avvicinando. 

Ero finalmente riuscito ad addormentarmi, 

cosa ormai rarissima, quando mi sono rizzato 

con un soprasalto quasi mortale. 

Uno di Loro aveva piantato i suoi artigli maledetti 

nella mia carne viva e mi aveva morso al collo. 

 

So che oggi si trattava di uno solo di Loro. 

Ma prevedo che rapidamente si avvicineranno tutti gli altri

e che cercheranno di accerchiarmi.

Sarà la prova lampante della loro vigliaccheria.

Il branco si fa forte del suo numero.

Per questo so anche che non devo mai più

stare in mezzo alle piazze, né al centro delle arene,

ancora meno all'incrocio delle strade.

So che perfino i giardini e i parchi, le ville e i palazzi

si riveleranno ben presto pericolosi.

Sento su di me milioni di dardi puntati, di lance alzate,

di trappole aperte, di frecce avvelenate lanciate nell'aria sospesa dall'attesa.

 

Le mie palpebre si fanno pesanti. 

La bocca pastosa. I membri stanchi. 

Ma a questo punto devo stare vigile lo stesso. 

Non è tempo di rilassamento. 

Aspetto i Tartari. E so che sono vicini.

 

**

 

La mia arma principale è sempre stata e rimane la Parola.

Il Verbo. Il Giuoco. 

Al quale li costringerò a sottostare.

Mostrerò loro il mio Schermo delle Meraviglie,

la mia Scatola Magica, la mia Scacchiera di Fuoco.

Già li conoscono, ma questa volta ne rimarranno affascinati,

fermi, incantati, senza forze, ancora più di prima.

 

Devo però aspettare che si avvicinino un po' di più.

Ed è proprio questo l'attimo pericoloso per me.

Devo capire e valutare con una precisione diabolica

il secondo in cui potrebbero saltarmi addosso,

ma durante il quale avrò insieme la capacità di fermarli

sull'orlo ultimo e di respingerli e farli precipitare nel burrone spalancato.

 

I loro bisbigli e sibili stanno diventando degli ululati,

dei lamenti selvaggi e sconvolgenti.

Ne ho la testa colma.

Mi sembra a volte che stiano per scoppiarmi mente e cervello.

Ma devo resistere.

Fino in fondo.

Non è il momento di mollare.

Aver lottato fino a quel traguardo per lasciarmi trafiggere ora

sarebbe una sconfitta troppo clamorosa,

troppo enorme perché la possa sopportare. 

 

Mi aspettano ancora dei momenti dolorosi,

non so quanto lunghi, o intensi,

ma devo potermi vedere allo specchio.

Senza battere ciglia,

guardarmi dritto negli occhi e dirmi 

 

"Sei stato il più bravo. 

Il più coraggioso.

Il Più."

E morire felice. O forse no.

Chi può saperlo.

 

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

  Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte2007prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016);              Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus; Le sol dérobé, Memorie di Marcel de Hody, Editions des Paraiges, (2015)