Digital art (l’ente)
Leopardi nella lettura della «nuova ontologia estetica»
Non c’è dubbio che il pensiero e la poesia di Leopardi siano usciti fuori dall’orizzonte di lettura delle ultime quattro decadi della cultura poetica italiana. La poesia italiana si è mostrata reticente e restia ad affrontare l’eredità poetica del recanatese e a ricollegarla alla sua filosofia critica; il recanatese è così diventato un grande estraneo, uno scomodo e ingombrante poeta pensatore, ad avviso di Severino il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Addirittura, di recente una poetessa alla moda lo ha inserito tra i poeti «minori».
La «nuova ontologia estetica» ritiene invece che occorre al più presto rimettere Leopardi nel posto che gli spetta, come il primo e più grande poeta pensatore europeo che pensa la crisi come ente dileguantesi nel nulla, l’unico ente dotato di autocoscienza. La nuova poesia europea dunque parte da Leopardi. La «nuova ontologia estetica» si è occupata a più riprese del «problema Leopardi», e ha rimesso al centro della propria ricerca la questione dell’ente, e quindi la questione del nichilismo nella sua fase attuale di sviluppo e del peculiarissimo «stato psicologico» proprio della nuova poesia ontologica. In questa accezione, la NOE non poteva non occuparsi della critica del recanatese alla civiltà del suo tempo e si è mossa in direzione della fondazione di una nuova poesia ontologica che ripartisse da una critica radicale dell’economia estetica e filosofica degli istituti stilistici del secondo novecento e dei giorni nostri. Ma già parlare di «istituti stilistici» significa dimidiare e fuorviare la impostazione che la «nuova ontologia estetica» dà dell’ente. La «nuova poesia» è quell’ente che designa lo stadio attuale degli altri enti ricompresi nell’orizzonte della crisi che quegli enti impersonano e prospettano. Direi che l’apertura verso gli altri enti è l’aspetto fondamentale della «nuova poesia ontologica», ente prospettico per eccellenza.
Occorre porre un alt all’economia curtense delle ultime decadi del pensiero poetico italiano. La «nuova ontologia estetica» col suo rimettere in piedi la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia intende riprendere, per reinterpretarla in base alle mutate esigenze della odierna età della tecnica, la lezione del grande recanatese.
grafiche di Lucio Mayoor Tosi
Porre la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia,
è questa la chiave di accesso che usa Leopardi per attraversare i linguaggi petrarcheschi degli ultimi secoli della poesia italiana e ristrutturarli in un linguaggio poetico integralmente espressivo che nulla concedesse alle sinapsi petrarchesche della tradizione italiana.
Concordo con quanto sostenuto da Emanuele Severino sul «pensiero» di Leopardi. Il filosofo italiano legge il recanatese come il primo poeta filosofo del nichilismo, colui che si è posto come critico radicale dell’«età della tecnica». Il recanatese scopre che l’assunto fondamentale dell’età della tecnica è il nichilismo, quel pensiero soggiacente, non detto, dell’Occidente, quel «solido nulla» che costituisce il reale inteso come esito transitorio, passaggio di un ente dal nulla al nulla. Cioè nichilismo.
Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, scrive: «La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento».1]
Leopardi pensa il divenire in termini ontici e ontologici,
poiché fa coincidere il divenire con la storia degli uomini e la loro infelicità nel dolore. Il pensiero poetante per sua natura non ha semplicemente il ruolo di rilevare il senso ultimo dell’ente e di porgerlo all’uomo, il pensiero poietico è un pensiero fondante, un pensiero che dà la misura del mondo, fonda gli ambiti di comprensione dell’ente visto nel divenire come permanente produzione e distruzione dell’ente. Leopardi affida alla poiesis un compito arduo ed estremo, quello di porgersi in posizione di ascolto dell’ente.
È ovvio che un pensiero così abissale non poteva e non può essere accettato dalla poesia italiana del tardo novecento, rimasta sostanzialmente petrarchesca, scettica, acritica, conformistica e priva di un pensiero filosofico.
Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa»,
così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.
«Il secol superbo e sciocco»
Il pensiero filosofico di Giacomo Leopardi mette a nudo la realtà dello stato di cose presente in Europa scaturito dal trattato di Versailles (1815). Il problema intravisto dallo sguardo acutissimo di Leopardi è il fondamento minaccioso del «nulla», del «niente» che sta alla base della costruzione della civiltà europea. Questo pensiero, sconvolgente per la sua acutezza e per l’anticipo di settanta anni con il quale viene formulato prima di Nietzsche, ci fa capire la grande potenza del pensiero filosofico di Leopardi, il suo aver percepito con estrema chiarezza, in anticipo sul proprio tempo, che il presente e il futuro dell’Europa sarebbe stato il Nichilismo. È un risultato sconvolgente quello cui giunge il pensiero di Leopardi se pensiamo che ancora oggi siamo all’interno delle determinazioni che l’età del nichilismo riserva al pensiero europeo dopo Heidegger. Il pensiero debole di Vattimo e il pensiero parmenideo di Emanuele Severino si muovono nell’orbita tracciata a suo tempo dal filosofo di Recanati. E, probabilmente, la civiltà europea dovrà anche nel futuro fare i conti con il pensiero filosofico di Leopardi, d’altronde espresso con una chiarezza e precisione lancinante.
Rispetto al pensiero dell’Illuminismo, Leopardi fa un passo indietro, ritorna al pensiero dei greci, mette a punto l’apparato categoriale che gli serve per scoprire e mettere a nudo la vera essenza della civiltà europea. «Il secol superbo e sciocco», che credeva a quell’800 romantico ed idealista, e credeva nelle «magnifiche sorti e progressive», viene irriso dal poeta di Recanati il quale si cimenta in un pensiero che riparte dal punto zero, dal pensiero di un «corpo» che si muove nel «nulla», fonda il modo di pensare ontologico della civiltà europea. Il paradiso della civiltà della tecnica è destinato all’angoscia, in quanto la logica della scienza sulla quale esso è fondato è una logica che poggia la sua costruzione su ipotesi auto evidenti, sprovviste però di fondamento nell’épisteme su una verità immutabile e definitiva. Questa suprema felicità che il paradiso della tecnica può dare all’uomo sarebbe quindi, in ultima istanza, una felicità effimera, precaria, falsa e falsificabile.
Zbigniew Herbert
«Il corpo non si può comporre di non corpi»
Scrive Giacomo Leopardi nel 1921: «Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che non è; né da questo si può progredire a quello o viceversa… non v’è scala, gradazione, né progressione che dal materiale porti all’immateriale, come non v’è dall’esistenza al nulla. Fra questo e quello v’è uno spazio immenso, ed a varcarlo v’abbisogna il salto che da’ leibniziani giustamente si nega in natura. Queste due nature sono affatto separate e dissimili come il nulla da ciò che è». (P 1636)
Per Leopardi tutti gli essenti escono dal nulla e ritornano nel nulla, in ciò seguita la tradizione del pensiero greco di Eraclito e di Stratone di Lampsaco filtrato attraverso il libro IV della Metafisica di Aristotele. Gli essenti sono «sciolti» dall’«infinito» a cui essi sono collegati in base alla volontà di esistere, che è volontà di infinito e di eterno, per cui gli essenti sono esposti, abbandonati al divenire. La Ragione per Leopardi «non è né impotente né debole», infatti essa è meravigliosamente potente e porta a compimento la verità ultima delle cose. Ma, una volta raggiunta tale potenza, ecco che l’essente è incapace a trovare una soddisfazione nella cosa: «Basta che l’uomo abbia veduto la misura di una cosa, ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne le parti o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente ed egli ne rimane scontentissimo» (P 246-47).
Auden
«La ragione è acutissima, non è né incompetente né debole»
Annota ancora Leopardi:
«Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà, che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto meglio e più finalmente vede. Così ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perché gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione (benché gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione). Perciocch’ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista» (P 2942-43).
Per Leopardi l’ana-lisi è il metodo che consente di vedere l’«essere delle cose», perché ogni ente è «sciolto» dal tutto, dall’infinito, dalla «grandezza» – cioè è ana-litico – e quindi è finito e, in quanto finito è esposto alle incursioni del nulla, appunto in quanto «determinato» (circoscritto, finito, definito). Mediante l’analisi la ragione vede nella materia parti sempre più piccole e tenderebbe verso il nulla, ma non le monadi leibniziane sono l’elemento ultimo dell’essere, perché affermare che l’essente ha carattere analitico significa dire che l’essente, appunto, in quanto «sciolto», separato dall’infinito, sporge temporaneamente dal niente, e il divenire ne è la evenienza. Le più piccole parti di materia possono essere divisibili in parti sempre più piccole, ma le singole parti «saranno sempre materia». Al di là non troverete mica lo spirito, ma il nulla». (P 1635) Splendida e icastica affermazione.
Per Leopardi è chiaro: «il nulla è negli oggetti e non nella ragione». E qui chiude la discussione introducendo la identità tra l’essere e il nulla, essendo l’essere quel non-niente che esce per un momento dal nulla e vi ritorna.
Giacomo Leopardi
«Il Nulla verissimo e certissimo delle cose»
Scrive Leopardi: «chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose… sarebbe pazzo assolutamente… e tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia». Parole quanto mai eloquenti in quella affermazione circa la assoluta certezza: «il nulla verissimo e certissimo delle cose» che non lascia scampo al pensiero che voglia tenere fermo il principio, il punto nevralgico del suo pensiero ontologico, secondo cui il «nulla è negli oggetti e non nella ragione», «la sola cosa ragionevolissima e verissima» (ibid.) che conferma il principio assoluto di non contraddizione di aristotelica memoria, «contraddizione evidentissima e formalissima» secondo cui la contraddizione non può stare in natura ma si trova nell’ente, nell’uomo, il quale possiede la «ragione» la quale è in contrasto con la «natura». Per cui la ragione, se si spingesse al massimo grado nella investigazione della natura, vedrebbe il minimo, cioè il nulla appena dietro la più piccola parte di essere. La «ragione» per Leopardi «vede tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e o può mai esser visibile a qualsivoglia vista». Cioè la «ragione» è la vista di tutti e di ognuno, essa vede ciò che può essere comprovato dalla vista di tutti. Ma il paradosso è qui, che la capacità di vedere della ragione è tanto più forte quanto più indebolisce il proprio contenuto e chi la possiede.
La «tendenza» dell’età presente verso la ragione
La «tendenza» dell’età presente verso la ragione significa la tendenza verso la «distruzione» e l’«inazione», verso la potenza della tecnica e delle «macchine al cielo emulatrici» (Palinodia), dell’assetto sociale delle moderne società basate sul calcolo e sul pensiero razionale-matematico. Ma la potenza della tecnica è destinata a fallire in quanto la nullità dell’essente annienta la volontà di agire. «E l’azione presente non può essere se non effimera e finirà nell’inazione, come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente e sostanzialmente e primordialmente all’uomo». (P 522, 18 gennaio 1821)
«Appuramenti, … circoscrizioni, … esattezze, … strettezze, … sottigliezze, … dialettiche, … matematiche non sono in natura e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perché la natura effettivamente non le ha seguite» (P 582).
B. Pasternàk
Il pensiero di Leopardi nella lettura di Emanuele Severino
Severino ci ricorda che la parola ποίησις significa originariamente pro-duzione, ossia portare fuori dal niente, condurre la cosa dal non-essere all’essere. Ma è solo nell’epoca attuale che la ποίησις è veramente un condurre qualcosa dal non-essere all’essere. Il poietès è dunque colui che porta qualcosa dal non-essere all’essere. La ποίησις, dunque, è l’atto nichilistico per eccellenza, e i poietès sono coloro che dimorano stabilmente nel nichilismo.
La parola ποίησις per i greci indica l’atto del pro-dursi, del portarsi fuori. Ma fuori dove? Fuori nell’apparire, mostrando le cose pro-dotte nella propria luce. Questo mostrarsi è appunto il fenomeno.
Heidegger e Severino, giungono ad una comunanza d’intenti pur partendo da due punti diversi.
Entrambi questi pensatori si sono rivolti alla poesia per comprendere l’essenza dell’Occidente, Heidegger, Trakl e Hölderlin, Severino a Leopardi. Entrambi hanno considerato l’arte poetica quale luogo privilegiato per una comprensione più profonda dell’Occidente. Per Severino Leopardi fonda la dimensione irriducibile del nichilismo, diventa il primo e più profondo pensatore-poeta del senso nichilistico dell’età della tecnica.
Secondo Severino la struttura sotterranea dell’Occidente
si fonda sull’evidenza della nientità di tutto l’essente e, quindi, sull’evidenza che qualsiasi principio dell’eterno non può riscattare l’esistenza dal nulla. Lo stesso Nietzsche non comprenderà appieno il pensiero di Leopardi, considerandolo solo un grande poeta e prosatore. Quando Leopardi nel pensiero 72 dello Zibaldone afferma che «Tutto è nulla al mondo», non vuole affermare che l’essere è nulla, ma che tutti gli esseri escono e ritornano nel nulla. Affermando ciò si porta nella prossimità del baratro dell’Occidente che, nel proprio inconscio, identifica l’essere col nulla. Infatti, se anche non detto esplicitamente, Leopardi afferma che «il nulla è negli oggetti», ossia il nulla è nell’essente, nell’essere, indica l’identità degli opposti. Dire che il nulla è nell’essente, significa dire che il ni-ente è ente.
Leopardi, afferma Severino, anche intravedendo questa identità, non coglie la «follia» di quest’ultima asserzione, non comprende l’assurdità di affermare l’identità degli opposti, degli assolutamente non identici. Egli, quindi, scorge il sottosuolo dell’Occidente, ma non ne avverte la follia, perché il suo pensiero vive e si alimenta all’interno della follia dell’Occidente e, come tale, non può coglierla come follia, ma come la cosa più evidente. La sua grandezza sta quindi nell’aver raggiunto la coerente follia del divenire nichilistico, al di là di qualsiasi rimedio sovramondano. Riesce ad intravedere il baratro che sta sotto tutta la storia dell’Occidente, anticipando di mezzo secolo tutta la speculazione nietzschiana sul nichilismo, annunciata dalla sentenza nicciana: «Dio è morto».
L’affermazione della nullità di tutte le cose nel pensiero di Leopardi appare già prima del 1820. Al termine del pensiero 72 dello Zibaldone, Leopardi dice: «Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vôto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi».2].
L’affermazione è netta e non lascia dubbi: «Tutto è nulla», le «cose esistenti», i modi d’essere, gli essenti nella loro totalità sono «nulla».
Roberto Bertoldo
Leopardi afferma che le «cose esistenti»
in quanto esistenti non possono essere nulla, altrimenti non sarebbero «esistenti». Leopardi chiarisce il senso dell’affermazione: «Tutto è nulla» e quindi che anche le «cose esistenti» sono «nulla», con il pensiero 72 dello Zibaldone. Tra le «cose esistenti» che sono nulla vi è anche la disperazione e il dolore: «È vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà». Questo «dolore» certamente finché esiste non è nulla, ma dovendo diventare nulla, quando cioè quella cosa esistente diventerà nulla, sarà nulla; e la stessa cosa esistente che prima di essere è nulla, portandosi nell’esistenza, porta con sé il suo essere stato nulla. La cosa esistente diventa nulla, si identifica col nulla; quell’essente che in quanto essente “è”, diventando niente, è ni-ente.
Chiosa Severino: «Raramente il pensiero occidentale si porta in una trasparenza eguagliabile a questo passo di Leopardi. Si tratta della trasparenza del linguaggio che esprime ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle “cose esistenti”. Questa trasparenza estrema mostra la grandezza estrema del pensiero di Leopardi e, insieme, la fedeltà estrema di questo pensiero all’essenza dell’Occidente. Che le “cose esistenti” (“le cose che sono”) siano nulla è l’evidenza originaria, appunto perché è l’evidenza del divenire».3]. Leopardi mostra quello che tutto l’Occidente pensa nel suo inconscio: nel divenire l’ente esce e ritorna nel nulla, ma se l’ente diventa nulla e il nulla diventa ente, allora l’ente è nulla.
Agli occhi di Leopardi e di tutto l’Occidente,
di cui il recanatese è per Severino il più coerente interprete, l’identità delle cose esistenti col nulla non è contraddizione. Nel pensiero 3784, Leopardi afferma che «le contraddizioni evidentissime e formalissime sono escluse dal ragionamento assoluto». In riferimento a ciò che Leopardi chiama «ragionamento assoluto», il pensiero 1341 dice: «nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere». La «ragione assoluta» è appunto il «ragionamento assoluto» da cui le «contraddizioni evidentissime e formalissime sono escluse». Il testo dice che non c’è una «ragione assoluta» in base a cui le «cose esistenti» non possono non essere, ossia essere nulla. Affermare che un essente può essere nulla non è una contraddizione. Concordemente con l’affermazione di Leopardi, Kant afferma che se «nego soggetto e predicato assieme, non nasce contraddizione, visto che non c’è più nulla con cui entrare in contraddizione».4]
Petr Kral
Ecco quello che dice Severino in una recente intervista:
«Nietzsche, a Schopenhauer, a Wagner, e, per quanto riguarda la cultura italiana, a De Sanctis. Nonostante che negli ultimi tempi il pensiero filosofico di Leopardi sia andato incontro ad una consistente rivalutazione, rimaniamo tuttavia ancora ben lontani dal comprendere la sua eccezionale potenza e radicalità. Personalmente, sostengo che si tratti del maggior pensatore della filosofia contemporanea. Leopardi ha infatti posto anticipatamente le basi di quella distruzione della tradizione occidentale che sarà poi continuata e sviluppata – ma non resa più radicale – dai grandi pensatori del nostro tempo, da Nietzsche, da Wittgenstein e da Heidegger.
Purtroppo, si deve riconoscere – pur non volendo ora sottovalutare i meriti di questa attività culturale – che la critica letteraria ha contribuito a mettere in ombra l’importanza filosofica di Leopardi. Il critico letterario si è mosso nelle pagine di Leopardi senza rendersi conto che il loro autore è in un grande colloquio con il pensiero greco, ovvero con la grande tradizione filosofica dell’Occidente».5]
1] G. Leopardi, Operette morali, ed. Garzanti, Milano 1984, p 129
2] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. Mondadori, Milano 1990, vol. I, p. 71.
3] E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, ed. Rizzoli, Milano 1990, pp. 38,39.
4] I Kant Critica della ragion pura trad. it. TEA, 2000, p. 444
5] http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=36