Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of
his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …
Domanda: Tu hai scritto: «“Il cosmo è tutto un fremito, un gran vibrare”. Così Ubaldo de Robertis, a riprova che la sua poesia frammentaria non intende porre fuori gioco l’universale, quanto piuttosto scorgerne la luce frammentata in ogni tessera dell’immenso mosaico. Sono a tutti noti i suoi interessi scientifici professionali e i riferimenti alla fisica subatomica, nel suo caso, sono quanto mai appropriati, ma i veggenti di ogni luogo e tempo hanno sempre definito quegli elementi invisibili ed impalpabili “coscienza universale”. A parer mio, è giunto il tempo che la cultura riscopra quella sapienza arcaica, quella conoscenza che ha sempre alimentato le sorgenti più remote (e sempre attuali) del mito. Non sto dicendo di tornare alla mitologia (quella è aria fritta), ma di attingere a quel serbatoio mitopoietico».
Condivido questo punto, infatti la Nuova Ontologia Estetica è interessata a valorizzare la funzione mitica, cioè una poesia che sia un sistema simbolico e non soltanto un sistema segnico, di significanti che suonano o collidono tra di loro; non mi riferisco ai tentativi di riproposizione di una poesia che si rifà alla mitologia dell’antica Grecia, perché non avrebbe più ragion d’essere, ma di un’altra cosa. Penso ad esempio alla poesia più recente di un Ubaldo de Robertis, alla poesia di Gino Rago, penso alla poesia della Szymborska e, in Italia, a quella di Anna Ventura, e anche, se me lo consenti, a certi miei esiti mitopoietici che si riallacciano alla poesia di Kjell Espmark, Lars Gustaffsson, Zbigniew Herbert…
Risposta: La Grecia classica ereditò, snaturandoli, i miti sorti nel substrato più arcaico della cultura greca. L’avvento del razionalismo pose fra parentesi, pur senza riuscire a inaridirle, le radici misterico-sapienziali della fase precedente, facendo degenerare la mitopoiesi in mitologia. L’ostilità dei Presocratici nei confronti dei poeti e degli artisti, è sintomatica di quel degrado in senso feticistico che condusse gradatamente il mito allo smarrimento delle intuizioni originarie, dissolvendosi in una molteplicità di storie vuote e sterili, di retaggi favolistici ripetitivi. Ma i Presocratici, come momento di passaggio fra l’età della Sapienza e l’età della Ragione, da un lato favorirono lo strappo (Pitagora, Parmenide) e dall’altro (Eraclito e Scuola Ionica) tentarono di impedirne il cammino. I filosofi successivi (razionalisti) furono molto più determinati e disinvolti nell’inaridire le sorgenti del Mito. A ben guardare, questo è un processo comune ad ogni cultura, così come ad ogni singolo essere umano. Durante le fasi della crescita fatichiamo terribilmente a portarci dietro il bambino che è in noi, il sapiente che è in noi, e il più delle volte finiamo per perderne memoria con seri danni per il nostro equilibrio. Purtroppo diveniamo adulti adulterandoci, ossia creandoci illusioni, ma c’è sempre un risveglio possibile al di là dell’oblio, e a quel punto il mito risorge, l’arte e la poesia tornano a giuocare ruoli fondamentali, riportandoci alla nuda interiorità di noi stessi, all’Equilibrio e allo Zero iniziali da cui riparte sempre l’avventura della cultura e della vita. Sta lì il serbatoio dell’arte, in quell’humanitas che ci vive dentro e che, essendo eterna e immutabile, è sempre viva e attuale. Trovo che la NOE sia un’esperienza ricca e affascinante. Potrà essere foriera di novità interessanti se saprà aleggiare sulle sabbie mobili dell’ideologia. Ben vengano tutte le proposte, da qualunque parte provengano, se sapranno evocare gli archetipi, l’essenza segreta e sfuggente, il bambino imbavagliato che sanguina dentro di noi.
Domanda: Tu hai scritto: «Emblematica la polemica di Eraclito nei riguardi di Omero, laddove questi scrive: “Possa la discordia sparire tra gli dei e gli uomini”. Risponde il filosofo greco: “Omero non sa che prega per la morte dell’universo, giacché, se fosse ascoltata la sua preghiera, tutte le cose perirebbero“. La guerra (polemos) è per Eraclito la madre di tutte le cose, il grembo che le abbraccia e le affratella, la radice dell’armonia universale».1
La avversità di Eraclito verso la poesia e l’arte ha una radice antichissima, che contiene il recondito pensiero che la poesia (e l’arte) con il suo rappresentare il polemos sia pericolosa per la compagine sociale di una comunità perché inneggerebbe ai valori di distruzione dei valori piuttosto che a quelli della coesione dei valori. Non credi tu che anche oggi gravi sul pensiero filosofico questo recondito pre-pensiero secondo cui la poesia (e l’arte) sia segretamente nociva per la coesione dei valori (estetici e non) sui quali invece deve costruirsi una comunità?
Risposta: L’antico pregiudizio greco, secondo cui la poìesis, il mythos, sarebbe il campo per eccellenza del soggettivismo umano, mentre l’epistéme, la verità, si manifesterebbe nel logos, peraltro confuso con l’intelletto razionale, ha permeato e inquinato l’intero percorso della cultura occidentale fino ai nostri giorni, divaricandosi dal substrato più arcaico della grecità, che fu profondamente misterico prima dell’insorgere del pensiero razionalistico. Io credo che le cose si diano così come sono al nostro intelletto, senza manipolazione alcuna, soltanto nell’attività mitopoietica, ovvero nel mito allo stato sorgivo (ovviamente non parliamo di mitologia manieristica, aride e ripetitiva). Quando Eraclito – che è anche poeta (così come lo è Platone) – nomina la maestà del logos, contrapponendolo al favolismo della mitologia, in realtà non fa che esaltare la potenza della mitopoiesi, che allo stato sorgivo non manipola un bel nulla, trovandosi appunto nelle mani del logos ed essendo divinamente ispirato dalle Muse. Sta qui il carattere universale ed epistemico della poesia (se epistéme significa “ciò che sta sopra”), di contro ai particolarismi della ragione schematica, sempre partigiana. La ragione è per sua natura doxa (opinione), e vano risulta qualsiasi tentativo di trasformarla in epistéme, laddove il mito, come rivelazione che viene dal Profondo, o dall’Ignoto, prospera in territori estranei al soggettivismo umano. Non è affatto vero che lo sguardo del mitopoieta autentico sia distratto dalle variazioni del molteplice, che si perda nella frivolezza del mondo esteriore. Al contrario, egli ha sguardi tutti puntati sull’unità del molteplice (o, se si preferisce, sulla molteplicità dell’uno). Ciò che gli interessa è di immergersi nel mondo fenomenico per prendere contatto con la radice da cui la vita viene. E’ la cosa in sé a catturare le sue attenzioni: quell’inseità che giustamente Kant dichiara inaccessibile alla ragione, ma che è alla portata dell’esperienza creativa immersa nei processi della creazione universale. Quando Omero si augura che possa svanire la discordia non credo pensi all’estinzione della lotta (ciò è impossibile per un poeta epico), bensì alla sua funzione ineliminabile nei progetti dell’armonia. Io trovo ciò molto più vicino ad Eraclito di quanto lo stesso Eraclito possa pensare. E’ Orfeo, in realtà, e non Omero, il poeta che rifiuta l’armonia dei contrari. Lui vorrebbe un mondo pieno di incanti e statico, dove le armonie siano date in dono. Poeta mellifluo, crede di poter incantare gli dei, ma diviene disperato e tragico quando s’accorge che Euridice scompare. Nell’Orfismo è anticipata l’intera vicenda razionalistico-nichilistica della cultura occidentale, tendente alla volontà di potenza, alla prevaricazione e al dominio. Il polemos di Eraclito (ma io dico anche di Omero) è tutt’altra cosa. Non è distruttivo, ma costruttivo. Tende all’unione, non alla separazione. Vede il frammento come tessera di un immenso mosaico, anziché come dispersione dell’armonia. Il suo obiettivo è la coralità, la cooperazione che non può non presupporre attori distinti e opposti tra di loro.
Domanda: Tu sai che la «Nuova Ontologia Estetica» è molto attenta ai nuovi indirizzi di pensiero della fisica, della filosofia e della psicologia contemporanee. Detto in termini molto semplici, abbiamo sostenuto in questa rivista la necessità di una poesia e di un’arte che si aprano al quadri dimensionalismo, che la «parola» e il «metro» non sono delle entità statiche che vivono in una dimensione euclicea, ma enti complessi, problematici, mutageni dotati di autonomia e variabilità ontologica, e che occorre trarre le conseguenze anche in sede estetica della prassi poetica da questi assunti, che dobbiamo rifondare il linguaggio poetico secondo una visione ontologica del reale molto diversa da quella copernicana della fissità delle orbite planetarie della vecchia ontologia estetica. La parola e la lingua non sono dei pianeti in corsa secondo orbite fisse e stabili e calcolabili ma entità mutagene che si muovono in un multiverso mutageno.
Considero del tutto naturale che queste nuove concezioni dello spazio-tempo della «parola» e del «verso» abbiano causato delle miscomprensioni, delle ostilità, dei rigetti, ma sono convinto che la «nuova poesia» non può che nascere da questa nuova impostazione concettuale. E condivido l’indirizzo di fondo della tua ricerca psicofilosofica che è recettiva di questo nuovo modo di pensare.
Tu nel tuo volume citi un libro di Francesco Facchini edito da Armando, Psicologia quantica, dove l’autore «postula la presenza nella persona di una struttura sovramentale identificata con il Sé-ontologico (Onto-Sé), che relaziona con la mente ed il corpo secondo una sequenza gerarchica. E postula altresì che l’individuo sia compreso all’interno di una matrice sovraspaziale e sovratemporale denominata essere: sostanza infinitesimale di natura eterna ed immutabile chiamata da Bohm coscienza-informazione. David Bohm, ricordiamolo, è un fisico tra i più autorevoli e accreditati su scala mondiale, mentre altri riferimenti – fra i tanti – il Facchini fa alle teorie del Nobel W. Pauli e del non meno eminente E. Laszlo».
E tu commenti: «Ovviamente tutto è discutibile, ma di certo la tesi è degna di particolari attenzioni. Noi siamo abituati a credere che il pensiero sia tutto nella scatola cranica. Il che, ritengo, è vero solo in minima parte, perché la macchina pensante è molto più complessa e include la scatola cranica al suo interno… C’è una vasta letteratura sull’argomento, diffusa soprattutto all’estero, che non è più possibile ignorare e che pone sostanzialmente l’accento sul pensiero che ci pensa, dal quale siamo pensati e che è in fondo il nostro stesso pensiero extracorporeo, sovra-razionale. Un pensiero diverso dal pensiero che noi pensiamo e che scaturisce da noi, dalla nostra scatola cranica, eminentemente razionale».1
Risposta: Gli antichi Sumeri, quasi seimila anni fa, sembra sapessero che la Terra è un pianeta che, assieme ad altri pianeti, ruota intorno al Sole. Non avevano altra scorta che il Mito. Anche gli Egizi, gli Indiani e i Cinesi fecero ampio ricorso al Mito per descrivere eventi astronomici. In tempi più recenti, ma comunque remoti, sia i matematici greci che quelli arabi erano perfettamente a conoscenza che la Terra è una sfera. Il greco Eratostene, nel III sc. a.C., ne calcolò addirittura la circonferenza con ottima approssimazione (40500 km., anziché 40000), facendo delle semplici triangolazioni. In seguito prevalse la teoria di Tolomeo, secondo cui la Terra è piatta, e questo fu un clamoroso, antistorico capovolgimento della verità operata dalla scienza in contrasto con la sapienza antica. Copernico tornò all’ipotesi eliocentrica proposta da Aristarco di Samo più di mille anni prima, così come le odierne scoperte della fisica sembrano confermare ciò che i mistici del Tao avevano intuito tremila, o forse più, anni or sono: l’interdipendenza di tutte le cose, la loro complementarità in un progetto di cooperazione universale. Mi piace il parallelismo tra scrittura poetica e ricerca scientifica. Nel Mito, in nuce, c’è tutto: poesia, arte, religione, filosofia e scienza non ancora entrate in competizione per smanie egemoniche e in perfetto accordo tra di loro. Il tutto espresso in formule apparentemente complesse, ma in realtà semplici, elementari, dall’aspetto magico e semioracolare, ma al tempo stesso complesso e problematico, ispirato da quel pensiero che ci pensa che non è Dio, ma il nostro stesso pensiero extracorporeo, sovra-razionale. Ed ecco la Musa: una sorta di alterego, di doppio ultrafisico, di daimon o di angelo, di spirito custode. Onto-Sé lo definisce lo psicologo Francesco Facchini nei suoi studi straordinari. Direttamente di Antimateria parla invece il mio amico medium Mario Silvestrini. La poesia, sciamanica per costituzione e nascita, ha mantenuto questa impronta nel suo dna in ogni luogo e tempo, nelle sue manifestazioni più significative e originali. Anche a dispetto degli indirizzi razionalistici imposti dalla cultura.
Domanda: Tu scrivi: «La logica razionalistica (“o è questo o è quello“) è fondata sul principio di non contraddizione, e dunque sul principio di similarità. A ben guardare, questa è anche una logica della separazione radicale (“ciò che è bianco non ha nulla a che vedere con ciò che è nero“), e dunque dell’incompatibilità. I processi analogici della similitudine (armonia dei simili) sono il rovescio della medaglia dei processi logici dell’inconciliabilità (disarmonia dei contrari). Entrambi i processi (logici e analogici) appartengono alla logica tradizionale della non-contraddizione. Altra cosa è la logica relazionale, fondata, come la logica quantistica, sul principio di complementare contraddittorietà (armonia dei contrari, appunto) secondo il quale il bianco non esiste senza il nero, e viceversa.
Già il matematico von Neumann si era focalizzato sul problema dell’impossibilità, per il linguaggio usuale, di rappresentare un quanto, una particella subatomica, che non è una cosa specifica, visualizzabile come un puntino, ma un insieme di relazioni. Successivamente Bohr, per risolvere tali difficoltà della logica, avanzò l’ipotesi dell’uso di suggestioni analogiche e restò particolarmente colpito dal simbolo del Tao e dai principi basilari del pensiero cinese: yin e yang, le opposte polarità che, unendosi, danno origine al mondo».2
Mi fa piacere questo tuo ribaltamento dell’assunto hegeliano, «il reale è razionale», nel suo contrario: «il reale è irrazionale», già asserito dal filosofo Bruno Fabi nel 1952. È esattamente questo l’assunto base della Nuova Ontologia Estetica, il principio della auto-contraddittorietà dell’incontraddittorio, o della «contraddittorietà della contraddizione» per dirlo con il filosofo Vincenzo Vitiello.
La nuova ontologia estetica è particolarmente attenta a questa nuova problematica.
Leggiamo due versi di Tomas Tranströmer:
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
È ovvio che la poesia di un Tranströmer non può essere compresa e apprezzata se ci si muove in un pensiero logico-positivo e deduttivo che esclude l’assunto centrale della Nuova Ontologia Estetica secondo cui il principio di contraddizione e il principio della mutageneità generale di tutti gli enti (soggetto, oggetto, parola, metro, lingua, tempo, spazio, etc.) costituiscono l’orizzonte posizionale della «nuova poesia». La poesia italiana contemporanea è ancora attestata in modo acritico e copernicano su una presunta e acritica concezione della stabilità ed invarianza della «parola» e del «metro», del «soggetto» e dell’«oggetto», del «tempo» e dello «spazio» che i recenti sviluppi della fisica, della cosmologia e della filosofia hanno da tempo messo da parte. La poesia italiana è ancora tolemaica, pensa ancora al soggetto al centro dell’universo della lingua.
Risposta: Ripeto quello che ho detto: la poesia è sapienziale e sciamanica per sua costituzione. Rivela sensi segreti dell’esistenza, rinnovandola dal profondo e tornando continuamente agli albori. Ciò non significa che essa esuli dalla ragione, se la ragione è sana, ossia alleata del mistero, anziché sua nemica mortale. Il razionalismo è un conto, la ragionevolezza un altro. Il buon senso non è che un sinonimo del sesto senso. E (perché no?) anche del sesto e dell’ottavo.
1 Franco Campegiani Ribaltamenti. (Democrazia dell’arché e assolutismi della dea ragione) Ed. David and Matthaus, 2016 p.38
2 Ibidem p.83
Franco Campegiani è nato nel 1946 e vive a Marino, nei Castelli Romani. Si occupa di un’azienda agricola secondo modelli di coltivazione biologica e scelte di vita il più possibile alternativi. Ha pubblicato in campo poetico, nelle collane di Mario dell’Arco, i testi: L’ala e la gruccia (1975) e Punto e a capo (1976). Al 1986 risale Selvaggio pallido (Carte Segrete, Rossi & Spera). Nel 1989 ha pubblicato Cielo amico (Ibiskos) in una collana inaugurata da Domenico Rea, e nel 2000 Canti tellurici (Sovera Multimedia). Del 2012 è Ver sacrum (Tracce Edizioni), prefato da Ninnj Di Stefano Busà. In campo filosofico, nel 2001, ha pubblicato La teoria autocentrica (Armando Editore). E’ antologizzato in L’evoluzione delle forme poetiche (Kairòs, 2013), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo. Ha promosso manifestazioni artistiche e letterarie, eventi multimediali ed iniziative ecologiche, dando fra l’altro impulso a svariati cenacoli e movimenti culturali. Nel 2005, insieme allo scrittore Aldo Onorati e al sociologo Filippo Ferrara, ha dato vita al Manifesto dell’Irrazionalismo sistematico ispirato al pensiero del Maestro Bruno Fabi. Nel 2008 il Progetto Athanòr gli ha conferito una laurea honoris causa in filosofia.