La Fenomenognomica di Roberto Bertoldo. Domande di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa


Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia
Mimesis, Milano, 2013 pp. 330 € 26


1. Sulla «fenomenognomica»

Roberto Bertoldo inizia il suo ponderoso libro con una affermazione assiomatica e sintomatica del suo filosofare: «Non posso che essere d’accordo con il fatto che la totalità non corrisponda al tutto (…) la filosofia, se mira esclusivamente alla totalità mettendo da parte, pur solo momentaneamente, la contingenza e i suoi prodotti oggettuali e concettuali, è condannata alla trascendenza della coscienza, come Husserl dimostra, o ad un vuoto gnoseologico per perdita dell’immanenza» (pp. 9-10). Con queste premesse individua «tre degli attuali nemici dell’umanità: il nichilismo, il capitalismo e la fenomenologia» (p. 9). Tra una filosofia diventata vuota trascendenza e le scienze logico-matematiche Bertoldo si schiera, sia pure solo preliminarmente, in favore di queste ultime. E c’è un perché, in quanto ogni pretesa alla totalità sacrifica la «singolarità», la vera chiave di volta del pensiero bertoldiano della «fenomenognomica», già indagata in alcuni dei suoi precedenti libri (in particolare: Principi di fenomenognomica, Guerini 2003). La «singolarità» e la «sensazione» sono le idee guida della fenomenognomica; dunque, un volontario passo indietro rispetto alla posizione di Husserl e di Heidegger, un passo indietro fruttuoso perché consente al pensiero bertoldiano di svilupparsi lungo la direttrice pre-fenomenica del «darsi» di ogni «ente» singolare alla «soggettività» considerata come individualità.
E qui si sviluppa una articolata indagine per chiarire che cos’è la «singolarità», quali siano i suoi elementi distintivi. Innanzitutto: la «singolarità» è transitiva, è essa che ci mette in contatto con il mondo: gli «oggetti» esistono (e quindi sono) non soltanto nei «concetti» entro i quali noi li cogliamo ma anche in se stessi.

Domanda: Ti chiedo: questa accentuazione della «singolarità», non è forse un riflesso della crisi di ogni posizione immanentistica?

Risposta: Se la intendi nel senso che io voglia porre un argine alle posizioni trascendentalistiche, la risposta è sí. Husserl e Heidegger, nella ricerca della cosa in sé, hanno dimenticato di partire dal mondo e il mondo è composto da tante individualità, infinite nel tempo infinito. Hai colto un punto essenziale della mia protesta: la critica alla totalità, della cui fondazione epistemologica il primo colpevole noto è Galileo Galilei, la critica insomma alla totalità e alla sua evanescente determinazione, e il sostegno al tutto; in altre parole è la differenza che c’è tra la moltiplicazione, che può permettersi di evadere dal concreto, sia pure per tornarvi, e l’addizione, che è sempre strettamente connessa agli addendi.

Ogni individuo possiede un’essenza conforme alla propria esistenza. È la differenza e non la somiglianza con le altre individualità a determinare la nostra essenza. Questa singolarità è stata sempre troppo castigata dalle scelte politiche e la filosofia ha spesso foraggiato questo modo di fare, almeno tanto quanto la religione. Ci chiediamo perché la fenomenologia, nelle varie forme da Husserl in poi, ha avuto così tanto successo nel mondo accademico? Primo, perché anche chi non pensa può aderirvi, e quindi tutti i senza idee che occupano più facilmente, depotenziando senza rimorsi la propria intelligenza, gli scranni dell’insegnamento; secondo, perché è abilissima a schierare le individualità e farle marciare al passo.
La posizione libertaria della fenomenognomica, la sua natura immanentistica, è invece fastidiosa, perché cerca di preservare e, quando è il caso, rianimare la singolarità e il suo ‘darsi’. Un darsi nullistico, ossia vitalistico e titanico, continuamente attento, dall’alto della sua fenomenizzazione scrupolosa – mediante il lavoro, lo studio, la conoscenza scientifica, la coscienza dei propri limiti, la tolleranza, il dialogo, ecc. –, allo stretto legame tra la propria natura ontologica, questa sí anche “somigliante”, e il suo riflesso fenomenico. La non sopraffazione dell’una sull’altro è il carattere dell’autenticità.

Domanda: Tu scrivi: «cosa significa “essere”? Io sono un uomo, il muro è di cemento, ecc: “essere” è ciò che permette a una cosa di esserci. “Essere” è ciò che fa “esistere”, addirittura “essere” ed “esistere” sono etimologicamente una sola cosa. L’Essere è un predicato, non un sostantivo. L’Essere è Esistenza, la dona». Vuoi spiegarci questo, diciamo, passo indietro rispetto alla posizione heideggeriana sull’«Essere»?

Risposta: Esatto. L’Essere, la sua natura ontologica, è il predicato fondamentale dell’Ente. Qui sorge il principio basilare della fenomenognomica. Come Cartesio cerca una verità inconfutabile, la fenomenognomica, proprio per il suo temperamento scettico, assume una verità confutabile ma scientifica. L’umiltà della fenomenognomica come Weltanschauung consiste nell’aderire alla conoscenza fenomenica pur sapendo che essa è, come dicevano i positivisti, solo adeguata agli strumenti conoscitivi in nostro possesso. La fenomenognomica, dunque, oggi è materialistica. Per essa, semplicemente, l’Essere è Materia.

Domanda: Tu in altri tuoi precedenti libri hai chiamato la nostra epoca il «post-contemporaneo». Vuoi spiegarci quali sono i termini filosofici di questa categoria?

Risposta: Te lo riassumo citando, per comodità, da uno dei miei libri: «La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e cioè indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età odierna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».

Insomma, ho usato questo brutto termine a causa dell’abuso storicamente documentato del termine postmoderno e la confusione volgare d’esso con postmodernismo e postmodernità. Quindi, il postmoderno storico è successivo alla svolta paradigmatica tra Ottocento e Novecento e il vero postmoderno filosofico è il postmoderno forte ossia antidecadente, nullistico.

Domanda: Tu scrivi: «La filosofia come fondazione di un pensiero critico è inevitabilmente fallimentare. Come metafisica, la filosofia è ancora utile perché interpreta i risultati delle scienze, anche se questi risultati e le ipotesi derivabili non conducono a verità essenziali e infallibili».
Non nascondo che per me, educato alla filosofia della Scuola di Francoforte, questo assunto mi suona come un campanello di allarme. Vuoi spiegarci in che termini la filosofia non può più essere «fondazione di un pensiero critico»?

Risposta. La filosofia più pratica è quella intuitivo-ipotetica, quella fondata sulla scienza per intenderci. Una filosofia a misura d’uomo non può anteporsi alla prassi, dunque agli strumenti che analizzano il mondo. La dialettica a cui si rifà la fenomenognomica ribalta quella hegeliana, come fece Marx. Hegel spegne la capacità critica, in più la sua logica è tradizionale, attualmente non in linea con i nostri fondamenti scientifici. La scuola di Francoforte presenta molte tesi, anche il suo ritorno ad Hegel non è poi così acritico, anzi mi pare che in pensatori come Adorno ci fosse la coscienza del pericolo ideologico.

Domanda: Come definiresti la tua filosofia nell’ambito del cosiddetto «pensiero debole»?

Risposta: Il «pensiero debole» è ancora connesso al moderno, si sostanzia di quel nichilismo a cui giungeva il pensiero assolutistico dell’età moderna. Riguardo a quanto mi chiedi, è indicativo il fatto che in un saggio spagnolo la mia filosofia del nullismo sia stata messa in opposizione al pensiero debole di Vattimo. È corretto. Il nullismo non sostiene il nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica integrale, e proprio in virtù di questo scetticismo supera quel nichilismo assiologico avallato dal pensiero debole. È lo scetticismo integrale, quello che giustappunto nell’avvalorare il proprio statuto ontologico inficia la verità a vantaggio della storicità dell’accertamento, a riscattare il postmoderno. Non dobbiamo accettare il nichilismo, ma andargli oltre, perché accettarlo significa acquisire una nuova fede. Le nostre costruzioni non sono “deboli” ma adeguate e quindi, piuttosto, “instabili”, come sostiene Lyotard. Non si tratta di dover imparare a «convivere con il niente», come sostiene Vattimo, ma di combattere, senza speranze, contro il niente. Quindi la mia filosofia è leopardiana, esprime cioè un pensiero forte senza illusioni, persegue un senso, il senso, ossia “vivere”, senza uno scopo trascendente.

Domanda: Qual è a tuo avviso il posto dell’arte nell’ambito del «post-contemporaneo»?

Risposta: Il postmoderno forte, o postcontemporaneo, si forma sulla rivolta di Camus e, prima di lui, sulla virilità di Leopardi. Una resistenza alla Rieux, de La peste. L’arte è una forma di resistenza, non però come evasione o fuga, non alla Pascoli o alla D’Annunzio, ma come lotta, come ricerca della libertà, e come comprensione del reale. Una comprensione che si compie mediante l’immanenzione fenomenognomica, o intuizione emotiva del darsi fenomenizzato compiuta partendo dalla conoscenza fenomenica. Il posto dell’arte nel postmoderno forte o nullismo richiede la coscienza della complessità del reale e l’adesione ad una visione fenomenognomica, di mente estesa, di rifiuto del nichilismo assiologico mediante il recupero dei valori vitali. Richiede insomma un’adesione politica, sociale, psicologica, culturale, in una parola ‘mentale’. Il discorso diviene, così, complesso, e infatti ho dovuto elaborare questa filosofia nei vari campi del sapere prima di ritornare alla questione estetica, alla quale ho ripreso a lavorare adesso. Ma non mi trovo in una posizione diversa riguardo l’arte, semplicemente ora mi trovo in una posizione rafforzata. Ora ho la conferma che la letteratura è utile, anzi necessaria. Necessaria alla nostra crescita intellettuale ed emotiva e al miglioramento delle nostre potenzialità espressive e quindi comunicative.

Domanda: Ho l’impressione che la tua filosofia sia un tentativo di dare una risposta alla Crisi della filosofia, alla Crisi della Storia e alla Crisi delle Scienze. Il problema dell’arte nel tuo libro è appena sfiorato. Che cosa significa ciò, che il problema dell’arte nel «post-contemporaneo» è un non-problema?, ovvero, che l’arte sia qualcosa che sta come sulla cresta di un’onda, qualcosa di cui possiamo serenamente farne a meno?

Risposta: Sí, in questo libro il problema dell’arte è abbastanza accantonato, come del resto nei saggi sull’amore e sull’anarchismo, ma solo in attesa, come dicevo, di tornare a trattarlo, riprendendo in mano il soggetto centrale dei miei due lavori sul nullismo e sulla fenomenognomica. Ora so che l’arte non è una sovrastruttura e che la sua connessione alla scienza è ancora più forte, inestricabile. Del resto non cercavo di dare una risposta alla crisi della filosofia, della storia e delle scienze; io sono dell’idea che tutto sia sempre in crisi e quindi cercavo solo di trovare un modo per salvaguardare i bisogni dell’essere umano nell’assurdità della sua condizione.

Domanda: Tu scrivi: «L’emozione è un istinto dotato di memoria». E ti chiedo: allora l’arte potrebbe essere definita come «un istinto dotato di memoria»?

Risposta: Sí. L’arte, come l’emozione, è un sentimento e ogni sentimento si compone sulla memoria di sensazioni, che sono la forma preliminare della nostra realtà. Ma il sentimento artistico non convoglia su di sé, come invece l’emozione, soltanto la fisicità, è invece un fenomeno molto più complesso, che convoglia in sé la mente in tutta la sua estensione. Esso si nutre perciò di sensazioni di varia origine, anche proveniente da altre idee e altri sentimenti, e le realizza artisticamente. Nessuno è “autore” senza una composita visione del mondo.