(Beckett, opere grafiche di Lucio Mayoor Tosi)
Noi, reduci del Novecento, sappiamo che il canto delle sirene conteneva una «verità»
che non abbiamo voluto udire, quella «verità» che Odisseo non ha voluto che i suoi marinai ascoltassero. E quel «non-detto», quella «parola non ascoltata», ci perseguita ancora oggi, si ripresenta con il suo volto di spettro e ci chiede udienza, chiede di essere ascoltata, di essere compresa.
Chi è Odisseo per noi reduci del Novecento? Che cosa rappresenta?
Per Marco Revelli ne I demoni del potere il Canto XII è quello centrale dell’Odissea. «Il gioco di Ulisse con le Sirene si risolve, nell’epoca del trionfo della tecnica, in una serie di atti mancati».
Il «secolo breve», il Novecento, è il secolo della distruzione di massa, il secolo, come i nazisti dicevano con un eufemismo, della «soluzione finale». Il Novecento ci ha insegnato che molto più temibile del loro «canto» è il «silenzio» delle sirene. Per noi, reduci del Novecento il «viaggio di Ulisse» ha cessato di produrre senso, conserva zone di indicibilità, di non narrabilità. La frattura di civiltà, il vuoto di senso è ancora una volta Auschwitz. Auschwtiz si può verificare ancora una volta, si può ripetere. La IV guerra mondiale, la guerra nucleare, si può verificare in qualsiasi momento.
Oggi il capitalismo globale ci ha «gettati» in un paesaggio spaesante. Noi che viviamo nella Pars Occidentale della produzione capitalistica, dobbiamo ritenerci «fortunati», viviamo nel mondo del benessere, della democrazia e della ricchezza. Loro, gli esclusi dal mondo del benessere, sono i reietti. Noi oggi non abbiamo un linguaggio adeguato, ci mancano le parole adeguate per rappresentare la nostra condizione di «fortunati».
Franz Kafka, in un raccontino paradossale del 1917 scrisse: «Le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio». Ulisse non si accorge del silenzio delle sirene, è ossessionato soltanto dal loro «canto». Per Kafka, se qualcuno raramente si salva dal canto delle sirene, nessuno si potrà mai salvare dal loro silenzio. Ma l’esperienza del Novecento ci ha insegnato che pari insidiosa nequizia è nascosta nel «silenzio» delle sirene, molto più temibile del loro «canto», temibile in quanto invisibile.
Ascoltiamo le parole di Primo Levi, un sopravvissuto ad Auschwitz, lui che ha ascoltato il canto delle sirene naziste, dei torturatori nazisti. Per resistere a quel «canto» Primo Levi si è tappato le orecchie con le ballate di Schiller. È stato questo lo stratagemma che gli ha dato la forza di restare in piedi per ore durante gli appelli mattutini da parte delle SS. Ed è sopravvissuto.
[…] Quando il tempo è dolore non si può far nulla di meglio che farlo passare, e ogni poesia diventa una formula magica. […] Le ballate di Schiller divennero le mie poesie dell’appello; grazie a loro riuscivo a stare in piedi per ore senza svenire, perché c’era sempre un altro verso da recitare, e quando un verso non ti veniva in mente, potevi pensarci, anziché pensare alla tua debolezza. […]
Tutt’intorno urla ripugnanti, angoscianti, che non accennavano a finire. Gli uomini che ci avevano fatto scendere dal vagone col loro «fuori, fuori», e che ora ci spingevano in avanti, erano come cani rabbiosi e ululanti. […] Quel tono carico d’odio, che scaccia […] e inchioda […] intendeva unicamente intimorire e stordire. […]
Nella mia poesia, Il ritorno di Odisseo, non v’è traccia del canto delle sirene, per Odisseo si è trattato di un evento senza importanza, che ha già dimenticato. Nella mia poesia Odisseo è preda dell’Oblio della memoria, non ricorda nulla di ciò che è accaduto, nulla della guerra di Troia.
Si gode gli ozi di Ogigia.
Che fretta c’è?
Per tornare dalla vecchia Penelope,
c’è tempo.
Odisseo non è più ai nostri occhi un eroe, è un «cialtrone», un «fuggiasco», un «disertore» che comanda una ciurma di altri «disertori», di «straccioni», di «naufraghi». Odisseo è un abile manipolatore di parole, colui che racconta gli eventi in modo poetico e mirabolante per gabbare gli ingenui ascoltatori. I suoi marinai
Sono fuggiaschi, disertori della guerra di Troia.
Omero non lo dice ma lo deduciamo noi
dalla lettura degli eventi.
Anche Omero è colpito dall’anatema di aver detto delle menzogne, di averci dato il ritratto di un uomo «astuto» inventando il racconto del cavallo di Troia, in realtà Odisseo è un miserabile «disertore» che ama la bella vita e gli ozi dell’isola di Ogigia. Anche Omero quindi è colpevole di aver detto delle menzogne e neanche lui può essere considerato degno di fede. Il discorso poetico è già diventato menzogna.
Giorgio Linguaglossa
Il ritorno di Odisseo
Sono approdati a riva i naufraghi, gli straccioni.
Un cialtrone di nome Odisseo li comanda.
Sono fuggiaschi, disertori della guerra di Troia.
Omero non lo dice ma lo deduciamo noi
dalla lettura degli eventi.
L’isola sembra disabitata. Sterpaglie, stoppie, erica.
Sbarcano i greci.
Entrano incauti nel Palazzo, insondabilmente agitano le spade.
Vi abita Circe,
sorella di Eete re della Colchide e di Pasifae
moglie di Minosse.
Siede sul suo trono di quarzo.
La maga Circe li ha mutati in porci, leoni,
cani, uccelli dal becco ricurvo.
Tranne uno: Euriloco, il più bello.
Come sappiamo dal racconto di Omero,
il capo dei disertori, Odisseo, l’acuto,
con un raggiro l’ha fatta franca
ed è diventato suo amante…
La faccenda durerà fino al prossimo inganno,
al prossimo tradimento.
Tra i banditi corre voce che mediti
una nuova fuga, l’ennesimo raggiro, un’altra volgare truffa…
Dicono che attenda il giorno fausto
[al momento, le stelle non sono favorevoli
ed il plaustro non soffia ad occidente],
e che presto riprenderà il largo nel mare ondoso
per una nuova avventura.
Per adesso, Odisseo si è sistemato nell’isola di Ogigia
e amoreggia con la ninfa Calipso.
Fonti d’acqua limpida, prati fioriti, viti cariche
di grappoli di uva,
farfalle multicolori, uccelli canori…
Il disertore si riempie il gozzo di fagiani arrosto
e fichi secchi.
Si gode gli ozi di Ogigia.
Che fretta c’è?
Per tornare dalla vecchia Penelope,
c’è tempo.
* un principe del Qatar ha comprato, per il prezzo stracciato di 5 milioni di euro, Oxia, una delle più belle isole dell’arcipelago delle Echinadi, ad appena 38 chilometri da Itaca.
Le sirene che cantano simboleggiano una Ding, una Cosa. La Cosa è l’irrappresentabile, ciò che resta fuori della rappresentazione,
e che deve continuare a restare fuori affinché si dia rappresentazione.
Odisseo quindi può fare l’esperienza della rappresentazione della Cosa (le sirene) proprio in quanto das Ding, la Cosa è fuori della rappresentazione. L’irrappresentabile fonda la possibilità della rappresentazione.
Quanto resta escluso dal processo di conoscenza dell’oggetto è das Ding. «Il Ding è l’elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua esperienza del Nebenmensch, come per sua natura estraneo, Fremde» 1], così Lacan.
Quando il soggetto si trova a vivere una esperienza, una parte dell’oggetto, o tutto l’oggetto cade fuori dalla rappresentazione; di esso non si dà alcuna traccia, nessuna Vorstellung, e questa parte dell’esperienza viene qualificata come inconoscibile. Das Ding si pone come perduta nella misura in cui è l’essenziale di ciò che è perduto. Tutto ciò che poi seguirà nell’ambito del linguaggio, sarà articolabile come Vorstellung proprio perché circoscritta dall’esperienza in perdita che la Cosa pone davanti al soggetto: e cioè quel passato/presente assoluto da cui essa fa la sua apparizione.
Se das Ding è fuori del campo della rappresentazione, è cioè irrappresentabile, esso è altresì insignificabile, cioè sfugge alla presa del significante, ponendosi come resto dell’operazione della conoscenza. Se inoltre il rapporto soggetto/realtà si modula intorno al sistema della rappresentazione, das Ding è quanto ne resta «fuori», escluso. Ma tale esternalità è assolutamente centrale: nel suo esser muto infatti, das Ding rimane separato ma come ciò intorno a cui gravita lo smarrimento del soggetto. Nello psichico non c’è una rappresentazione che corrisponda a das Ding; c’è solo la rappresentanza di una rappresentazione, una Vorstellung-repräsentanz. Ciò che si dà come rappresentanza di una rappresentazione è propriamente il simulacro di ciò che manca, di quanto svuota la vita del suo godimento finale.
Turando le orecchie dei suoi compagni con la cera, Odisseo sconfigge l’istinto di morte e introduce la ripetizione,
l’esperienza della ripetizione, il desiderio di riudire il canto delle sirene introduce la coazione a ripetere, l’istanza censoria che riproduce il desiderio all’infinito e, con essa, la rappresentazione. Attorno alle Vorstellungen ruoterà il sistema regolato dalle leggi del Lust e dell’Unlust, del piacere e del dispiacere, ciò che possiamo chiamare le prime apparizioni del «soggetto».
La Cosa è un momento esterno che sorge all’unisono con il sorgere del desiderio,
non è un in sé kantiano, non è un inconoscibile, quanto un inconoscibile nella misura in cui esso è sì fuori dall’ambito della rappresentazione ma non è un puro nulla, l’assolutamente negativo, un ideale di assenza. La Cosa piuttosto, dirà Lacan, è della sua assenza che brilla, che si pone come un «vuoto causativo» della nascita della soggettività occidentale.2]
Odisseo pone in essere un vero e proprio atto primario di censura-rimozione. Turando le orecchie dei suoi marinai e facendosi legare all’albero maestro della nave egli attua la rimozione primaria. Noi sappiamo che la rimozione è ciò che segna l’avvento nel sistema freudiano del soggetto dell’inconscio propriamente detto. Nella nozione di Vorstellung-repräsentanz vediamo così delinearsi quelle condizioni che fanno del significante ciò che rappresenta non qualcosa, bensì un soggetto per un altro significante. In altre parole, il soggetto nasce già alienato da una mancanza, dalla mancanza della Cosa.
1] Ibid. 190 Cfr., J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 64.
2] Cfr., L’etica della psicoanalisi. 192
Gino Rago
La coppia: Marina Cvetaeva- Giorgio Linguaglossa. Poesia del metodo mitico.
La bellezza di Elena è la ricompensa che Afrodite offre al giovane Paride per averla eletta la più attraente tra le dee. Sebbene la donna sia sposa di Menelao, durante l’assenza del marito si lascia vincere dal corteggiamento del figlio di Priamo; i due fuggono così alla volta di Troia. Tuttavia il re di Sparta, offeso dall’infame oltraggio, chiede aiuto a suo fratello Agamennone e insieme ottengono la solidarietà dei principi greci: così prende avvio la guerra, di cui l’Iliade, come è noto, racconta solo l’ultimo anno. Nei versi del poema si legge il rimorso che tormenta la giovane per essere stata la causa scatenante di una guerra decennale e dissennata. Ma Elena è davvero colpevole? Già gli antichi si pongono questo interrogativo: secondo il poeta lirico Stesicoro, per esempio, Paride non avrebbe portato con sé la sua amata, ma solo un eidolon, un fantasma, mentre la donna sarebbe rimasta per tutto il tempo in Egitto per volere di Era; la stessa idea è alla base della tragedia che le dedica Euripide in cui Elena resta fedele a Menelao, che dopo vent’anni non sa riconoscerla e si domanda che senso abbia avuto combattere per una ‘nuvola’.
Il mito è così popolare che innumerevoli autori si sono confrontati con esso, frequentemente per svelare la propria verità sulla questione. Spesso è l’autorevolezza di Omero a essere messa in discussione, proprio come accade in questi versi di Giorgio Linguaglossa e come a suo tempo accadde in una poesia di Marina Cvetaeva del 1924, Cvetaeva e Linguaglossa, due voci poetiche intense, ciascuna forte della propria sensibilità linguistica. L’assunto della scrittrice russa si basa sull’assonanza che esiste nella sua lingua tra il nome di Elena e quello di Achille. “Ci sono rime in questo mondo. / Disgiungile, e il mondo trema” – suona come un avvertimento il memorabile incipit della lirica: le rime che abbelliscono l’universo ne sono anche la colonna portante; se queste vengono scalfite, sarà l’universo stesso a rimetterci. Ma Omero è cieco e la notte che come una persiana gli oscura lo sguardo gli impedisce di vedere quanto Elena sia perfetta per Achille.
L’armonia che nascerebbe dall’unione dei due è costretta a ripiegarsi in caos e a generare infedeltà e distruzione: la cecità del cantore lo ha portato a scambiare la fortuna che aveva nelle sue mani per un rifiuto e a gettarlo via. Ecco che le rime composte nel mondo della poesia, divise in questo mondo, lo hanno fatto crollare. Ci si illude di non aver bisogno di armonia, e così non resta nulla della dolce bellezza di lei né della possente virilità di lui. Non resta nulla, se non il tenue mormorio delle foglie di mirto e il suono di una lira che, come in un sogno, continua a cantare.
Marina Cvetaeva fa ricorso al mito classico per mettere un punto a una questione che riguarda la sua vita privata. Questa sua poesia si configura infatti come una risposta a Boris Pasternak, con il quale la scrittrice intratteneva da tempo un carteggio: il rapporto platonico, seppur appassionato, che intercorreva tra i due avrebbe forse potuto risolversi in un sentimento reale, ma con queste parole la donna comunica la sua irrevocabile decisione e la presa di coscienza dell’impossibilità di essere amanti. Resta la convinzione del profondissimo legame spirituale che li unisce, una sorta di predestinazione che rende elettiva la loro affinità. Come Elena e Achille, essi incarnano la ‘coppia’ ideale (il titolo del ciclo di poesie in cui questa è contenuta recita infatti The Pair), ma la loro passione non sa reggere il confronto con la realtà: se in un mondo fatto di parole essa è valida, in questo mondo l’armonia è destinata a sgretolarsi.
Marina Cvetaeva, da The Pair
Ci sono rime a questo mondo…
Ci sono rime in questo mondo.
Disgiungile, e il mondo trema.
Eri un uomo cieco, Omero.
La notte sedeva sulle tue sopracciglia.
La notte, il manto del tuo cantore.
La notte, sui tuoi occhi, come una persiana.
Un uomo vedente non avrebbe forse unito
Achille a Elena?
Elena. Achille.
Datemi il nome di una coppia meglio assortita.
Perché, a dispetto del caos,
il mondo fiorisce sulle armonie.
Eppure, disgiunto (in armonia
con la sua essenza) cerca vendetta
nell’infedeltà coniugale
e nell’incendio di Troia.
Eri un uomo cieco, aedo.
Hai gettato via la fortuna come fosse un rifiuto.
Quelle rime sono state composte in quel
mondo, e non appena le dividi,
questo mondo crolla. Chi ha bisogno
di armonia? Invecchia, Elena!
Il miglior guerriero degli Achei!
La dolce bellezza di Sparta!
Niente se non il mormorio
del mirto, il sogno di una lira:
“Elena. Achille.
La coppia tenuta separata.”
Nelle opere di maggiore risultanza espressiva (Kafka, Beckett, Celan, Char, Rosselli) nichilismo e misticismo si fondono e trascendono conservando le oscurità semantiche e le aporie ineludibili d’un agnosticismo disperatamente irreligioso, che non si alimenta di astrazioni e paralogismi, ma si rappresenta nell’immanenza esistenziale, in cui l’eclissi del sacro si riflette non solo nella reificazione, alienazione e involuzione etica e assiologica, ma soprattutto in una tangibile disfunzione e degradazione relazionale ed emotiva, una sorta di lucida ed implacabile diagnosi dell’abisso ontologico e della paralisi emotiva che attanaglia l ‘umanità che ha fatto dell’oggettività materialistica il proprio idolo, e ne esperisce la tragica illusorieta’.
Gli scenari assurdi e indecifrabili di Kafka sono l’impietosa trascrizione dell’assenza divina, l’esatto contrario della ghignante e folle visione nicciana.
I personaggi di Beckett formano spesso delle coppie reciprocamente dipendenti o vincolate da ragioni eteronome, ma sempre prive di ogni legame affettivo e da qualunque prospettiva soteriologica. L‘ultimo nastro di Krapp, una delle opere più illuminanti e ricche di pathos, sembra violare il consueto codice sommerso e anti ermeneutico, consegnandoci il segreto rammarico dell’autore, di aver trascurato il richiamo erotico per la sopravvalutazione del lavoro intellettuale.
Il carattere controverso e paradossale dell’esperienza mistica, che tenta di relazionarsi ad un assoluto che si sottrae ad ogni rappresentazione, fino a confondersi con il nulla, è tematizzato in una delle più celebri e laceranti poesie di Paul Celan:
Paul-Celan
SALMO
Nessuno ci impasta più da terra e argilla,
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro a Te.
Un nulla eravamo, siamo
rimarremo fiorendo:
la rosa di Nulla,
di Nessuno.
Con il pistillo animachiara,
lo stame cielodeserto,
la corona rossa
della parola purpurea che cantammo
su, oh
sulla spina.
L’innegabile sentimento di ribellione di questo paradossale inno nichilista, l’incapacità evidente di rassegnarsi ad essere una rosa che fiorisce incontro al nulla, sono rafforzati dagli accenti criptocristiani del finale (il mantello di porpora e la corona di spine del Crocifisso) che inseriscono un’inaudita ma implacabile speranza di salvezza.
Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo, dove “ormai solo un Dio ci può salvare” (Heidegger).