Giorgio Linguaglossa:    LE   RAGIONI DETERMINANTI   DELLA   NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA SPIEGATE IN UNA PAGINA E UN COMMENTO A NEITHER DI SAMUEL BECKETT

Giorgio Linguaglossa
Samuel Beckett

Giorgio Linguaglossa

22 luglio 2017 alle 8:50

Come ha ben visto Lucio Mayoor Tosi,

la procedura di Adeodato Piazza Nicolai e quella di Julia Hartwig abitano luoghi distantissimi, sono due vie lontanissime l’una dall’altra, ma entrambe percorribili; la prima predilige l’accumulo di elementi frastici e la disseminazione, la seconda la riduzione delle varianti frastiche ad una sola invariante attorno alla quale si sviluppa il discorso poetico (è questa la via della Szymborska, di Herbert di Krinicki, Zagajevskij etc.). La prima procedura punta tutto sulla molteplicità e la disseminazione, la seconda sulla individuazione di uno sviluppo per invarianti (la via delle poesie di Beckett, tanto per intenderci). Non c’è dubbio che la «poesia» possa abitare e frequentare entrambe queste procedure, entrambe sono utilizzabili con ottimi risultati. Il problema non sono le procedure, tutte intercambiabili e sostituibili, il problema base non sono le metodologie, tutte ammissibili e tutte impiegabili, ma è pensare il discorso poetico all’interno di una «ontologia».

Che cosa significa questo punto? Significa una cosa che pochissimi hanno capito o intuito, significa che le procedure, le tecniche sono inessenziali (a parità di tecniche impiegate la differenza non c’è, o meglio, c’è differenza soltanto in chiave tecnica, ma si tratta di differenze secondarie, il poeta grande è quello che individua e adopera una diversa ontologia estetica). Ciò che è essenziale è cogliere che una ontologia si basa su alcuni concetti: la parola, il metro, il tempo, lo spazio, il pentagramma sonoro. È dal modo di concepire questi concetti che cambia la poesia. Ogni ontologia estetica ha i suoi concetti validati e su «quelli» va avanti, va avanti almeno fino a quando non interviene qualcosa (dall’esterno, dal mondo, dalla storia) che determina l’esaurimento di quel modo di concepire «quella» ontologia estetica. Ma, la fine di «una» ontologia estetica la determina la storia, non sono i letterati che la decidono. La storia va avanti. Ci sono epoche, come quella che va dagli inizi degli anni Settanta ad oggi, nella quale la poesia dorme il suo lunghissimo sonno epigonico, nella quale si è continuato a fare poesia sulla base di una ontologia estetica che si credeva valida su tutti i fronti (le differenze interne erano in realtà delle sfumature, e niente di più).

Per troppi decenni abbiamo pensato, in Italia, in termini di procedure, di tecniche; che fossero di accumulo o di demoltiplicazione come corollari di una libertà concessa alla scrittura poetica, non cambia il nocciolo della questione.

Facciamo un esempio. Un poeta che ha percorso la prima procedura in Italia è stato ed è, Pier Luigi Bacchini (scelgo lui come esempio di poeta che tutti conoscono), classe 1927.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Scrive Alberto Bertoni nella prefazione a Poesie (1954-2013) (Oscar Mondadori, 2013):

[ In Visi e foglie (1993) e in Scritture vegetali (1999) ]
«Bacchini disloca di frequente i segmenti di verso al centro o dalla parte del margine destro della pagina, creando un efficacissimo effetto di destrutturazione della linearità testuale e poi di montaggio della stessa su un piano altro rispetto alla frasticità “grammaticale” dei suoi enunciati: l’Io che parla risulta come polverizzato, disseminato e il suo punto di vista finisce non di rado per apparire capovolto e inabissato. Ma non è solo questo: gli spazi bianchi verticali e orizzontali, i passaggi frequenti “da un verso lunghissimo a uno stretto come un cola”, le lineette o i trattini che sono un’innovazione interpuntiva sistematica e progettuale tutta specifica di Bacchini, rispondono sì a un’esigenza di sottolineatura della parole e del contesto appunto metamorfico e drammatico, “situazionista” e spesso ansiogeno, in cui la parola è inserita; ma rispondono anche all’intenzione di “riprodurre quelle tavole biologiche che indicano le linee di evoluzione delle diverse specie”, che nascono tutte da una stessa origine, anche se “alcune nascono in ritardo e poi magari si spengono come le ammoniti».

Efficacissima spiegazione della «crescita» di un poeta, Bacchini, (ripeto, classe 1927), nell’ambito e all’interno di una determinata ontologia estetica. Il fatto è che con Bacchini le possibilità «interne» di sviluppo di «quella» ontologia estetica si sono esaurite. Voglio dire che non ci sono più possibilità di sviluppo «interno», se non come diramazioni minoritarie e laterali di un fiume che si è essiccato.
Prendere atto, capire, cogliere questo punto è dirimente, determinante. Chi non lo coglie, continuerà a fare poesia minoritaria, si accontenterà di scrivere piccoli ruscelli di parole. Chi lo coglierà farà (sarà costretto a fare) una poesia diversa, nuova. Forse più «brutta»? Non lo so, e neanche mi interessa, non è questo il punto.

Ecco spiegate in poche parole la nascita della «nuova ontologia estetica». Chi ne vuole sapere di più non ha da fare altro che cliccare sui numerosisssimi articoli che abbiamo postato su questa rivista.
Buongiorno.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Che cosa vuole comunicarci Beckett con la poesia NEITHER?
Ecco, questo è il punto. In tutto 87 parole con 9 a-capo.

Ecco la mia spiegazione. “Neither” significa, come sappiamo, «Né l’uno né l’altro». Quindi, una doppia negazione. Ma negazione di cosa? – Beckett ovviamente non lo dice, siamo noi che dobbiamo capirlo. Ma come facciamo a capirlo se l’autore non ci dà nemmeno una chiave di accesso per il suo significato profondo?

Credo che sia molto semplice. Neither significa né l’una cosa né l’altra, né io né tu, né noi né loro, né nessuno né nessuno. Con questa doppia negazione Beckett vuole chiudere il discorso e non riaprirlo mai più. Il significato a questo punto mi sembra molto semplice. Ed è spiegato una volta per tutte.

Beckett ci vuole dire che lui non sta né dalla parte del Sé né dalla parte della civiltà umana che l’io (o Sé) ha costruito. Questo punto mi sembra chiarissimo.
E qui finisce, non solo la composizione (chiamarla poesia è delittuoso, Beckett non aveva certo in mente di fare una poesia…) ma anche il discorso sul percorso di certezze che necessariamente deve guidare e accompagnare l’homo sapiens nel percorso di edificazione della civiltà.
Ecco, questa doppia negazione si riconnette a quell’altra duplice negazione espressa da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (opera iniziata nel 1942 e pubblicata nel 1947). I due filosofi tedeschi leggono il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non sentire il canto sinuoso delle sirene in questo modo: emettendo un giudizio di DUPLICE negazione: non stare né dalla parte di Odisseo né dalla parte dei suoi marinai (la società borghese creatrice dell’ideologia dell’illuminismo).

 

Giorgio Linguaglossa

 

Ripropongo qui una sintesi di Carla Maria Fabiani:

… la formazione e l’autoconservazione del soggetto borghese (del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea). Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale, che nella modernità culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano.

Odisseo rappresenta l’umanità che “ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo […].” Il canto delle Sirene cui Odisseo (l’io occidentale-borghese) deve resistere rappresenta il “passato; quel passato in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura, o meglio in cui non distingueva Sé dagli oggetti naturali. Lo sforzo di Odisseo di resistere al richiamo della natura-vita, rappresentata da quel canto, è necessario per conservare l’integrità dell’individualità personale dell’uomo borghese, ma soprattutto per mantenere quei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, ben rappresentati, secondo gli autori, dal mito omerico.

Sulla nave di Odisseo i suoi compagni hanno le orecchie tappate con la cera; il loro unico compito è quello di remare. “E’ ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. […] Essi diventano pratici. […] Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé […] ode, ma impotente, legato all’albero della nave […]. I compagni […] riproducono, con la propria vita, la vita dell’oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale”.

L’analogia istituita da Horkheimer e Adorno fra il mito omerico e la struttura della società borghese è tale per cui la soggettività di chi domina (il proprietario della terra, dei mezzi di produzione), sebbene consapevole di rivestire un ruolo sociale che lo obbliga ad avere un rapporto di dolore ed estraniato con la natura (le Sirene), sa altresì di non poterne fare più a meno, pena la mancata autoconservazione di sé e della sua proprietà (fuori dei rapporti borghesi di produzione non è consentito sopravvivere). D’altra parte il lavoratori (compagni di Odisseo) mancano forzatamente di consapevolezza e coscienza sociale (hanno le orecchie tappate); la loro unica occupazione è materiale, volta alla riproduzione di sé e del padrone stesso. Essi sono quella parte del genere umano asservita (inconsapevolmente) al dominio borghese.

Questo quadro assolutamente desolante e fortemente critico, viene però, secondo Horkheimer e Adorno, riscattato nella misura in cui la stessa ideologia borghese (l’Illuminismo della società contemporanea) rivela la sua interna paradossalità e inconsistenza teorica.

“Misure come quelle prese sulla nave di Odisseo al passaggio davanti alle Sirene sono l’allegoria presaga della dialettica dell’Illuminismo”. Ciò che sembrava la realizzazione della libertà, dell’emancipazione dell’uomo (come singolo e come genere), il trionfo della ragione, si presenta al dunque come la realizzazione più cruda e irrazionale di un’oppressione e coercizione dell’uomo su se stesso oltre che sulla natura. Il mito poi (in questo caso quello di Odisseo) è ciò che, paradossalmente, rappresenta meglio la logica interna dell’Illuminismo; di quel pensiero razionale che intendeva invece dal mito liberarsi definitivamente.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Excursus I. Odisseo, o Mito e Illuminismo

 

1- La dialettica dell’Illuminismo è testimoniata esemplarmente dall’Odissea nel suo complesso. Il nucleo originale è mitico, ma, organizzato dallo spirito omerico, si distacca da quella tradizione popolare da cui pure proviene.


C’è una contraddizione, secondo gli autori, fra ‘mito’ e organizzazione mitologica nell’epos, cioè fra mito tramandato oralmente e mito raccontato, scritto, rielaborato razionalmente: “[…] cantare l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese […].”


Come sappiamo, c’è un rapporto dialettico fra mito e Illuminismo: da una parte la ragione organizzatrice (rappresentata in questo caso dalla mano di Omero) mette a punto una ricostruzione scritta del mito che emancipa l’uomo (la civiltà occidentale) dalla “preistoria”, dall’assenza di un rapporto razionale fra uomo e natura; d’altra parte però l’inizio dell’Illuminismo risale proprio alla tradizione mitica più remota. Il passaggio dal ‘mito’ all’approccio illuministico segna anche un passaggio a forme di ‘dominio’ dell’uomo sulla natura che – come ha ben compreso Nietzsche – si presentano fortemente ambivalenti: è il progresso umano e civile dell’uomo che distrugge la vitalità del suo rapporto con le forze naturali. E’ un progresso distruttivo quello a cui l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea.”


Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo stesso itinerario del soggetto

(del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche. L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della società e dell’individuo come tale.

2- L’astuzia di Odisseo rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). “L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia.”

L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati. “Ecco il segreto del processo tra epos e mito: il Sé non costituisce la rigida antitesi all’avventura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega.” Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epico-mitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso. »*

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

 

Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in Dialettica dell’Illuminismo (1947):

 

“La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”.

 

Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti agli scrittori e ai poeti di oggi: loro sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…

 

È Odisseo colui che usa il linguaggio a fini propri,

cioè impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica», chiama se stesso «Udeis» che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa»; Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa) il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».

La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.


Ebbene, che cos’altro fa Beckett in queste poesie se non opporre UN RIFIUTO NETTO E TOTALE a questo impiego del linguaggio? Ecco il grande significato di questi testi poetici di Beckett, caro Claudio Borghi. Beckett con queste poesie rifiuta in toto qualsiasi ontologia estetica, questo è il punto geniale cui giunge l’irlandese!

Noi della «nuova ontologia estetica» in un certo senso vogliamo limitare l’arbitrio dei poeti di poter dire (almeno così loro credono) tutto quello che gli passa per la testa. Porre degli Alt, degli Stop a questa pessima abitudine, rimettere un po’ di ordine tra il «nome» e la «cosa», costruire una nuova e diversa «ontologia estetica», ricordandoci, però, che ogni «nuova ontologia estetica» passa per l’affondamento della «vecchia ontologia estetica» e per un nuovo impiego della «nuova ontologia pratica delle parole». Cioè, una nuova Etica, e quindi una nuova politica.

Con le parole di Carla Maria Fabiani:


«L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del “sacrificio” (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il linguaggio. Ma vediamo in che senso.

Notano gli autori che nell’epos omerico non vi sono descritti veri e propri sacrifici umani; vi è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio. “Se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono.”


Che cosa fa allora Odisseo di diverso dal sacrificio-scambio? Che cosa aggiunge a questa forma magico-mitica di inganno reso agli dèi? La vicenda a cui gli autori si riferiscono è quella descritta nell’Odissea a proposito del ‘falso’ sacrificio reso a Poseidone; mentre il dio viene accontentato da ingenti sacrifici nella terra degli Etiopi, Odisseo può fuggire indisturbato e mettersi in salvo. L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo vantaggio personale. “Ma inganno, astuzia e razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito.”


Ecco allora che questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo.

Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: “Nessuno!” rispose. “Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse.”

Secondo gli autori, questa ulteriore presa di coscienza, da parte dell’eroe mitico, lo solleva dall’immediatezza del rapporto con le cose, con gli oggetti e la natura. L’immediatezza con cui le parole vengono attribuite alla realtà viene definitivamente rotta e mediata, da quel momento in poi, dal pensiero. La coscienza di Odisseo comincia appositamente a separare le parole dalle cose, a rendere problematico il riconoscimento dell’uomo nel proprio nome. Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne.

Dall’astuzia di Odisseo “[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione.”