Per una ontologia relazionale – Poesie di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mariella Colonna – Dialogo tra Franco Campegiani e Giorgio Linguaglossa – La verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla – La verità è diventata posizionale

 

Giorgio Linguaglossa
Grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

 

Mario M. Gabriele
2 agosto 2017 alle 12:23

 

Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.

Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.

 

 

Lucio Mayoor Tosi
2 agosto 2017 alle 12:33

 

Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.

 

 

Mariella Colonna

Carolyn è una creatura perfetta:

alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.

Giorgio Linguaglossa

 

 

Giorgio Linguaglossa

2 agosto 2017 alle 15:19

 

 Leggendo la poesia di Mario Gabriele mi è tornato in mente un pensiero di Adorno: «Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano».

 Penso che la poesia di Gabriele, ma questo vale per tutti i poeti di un certo valore, il tema centrale è: perché la felicità?, perché l’infelicità? – A pensarci bene è incredibile come, nonostante tutti gli sforzi dell’umanità per creare un mondo che dia spazio alla felicità, invece siamo riusciti soltanto a creare degli ostacoli (insormontabili) alla felicità. La poesia ha senso se ci dice qualcosa di questa gigantesca problematica che ci sta a cuore, che sta a cuore di tutti… tutto il resto, le battute di spirito sono opera di letterati…

La poesia di Gabriele è un vero museo dell’innocenza (Pahmuk), un museo di citazioni, di affiches, di manifestini, di biglietti da visita, di ricordi, un museo dell’orrore di quello che è stata la storia del novecento e degli ultimi secoli di storia europea. Tuttavia Gabriele ha la mano leggera, così come anche Mariella Colonna (londadeltempo), entrambi hanno il tocco felice, sanno divagare, andarsene per le strade laterali, perdersi per poi ritornare, ritrovarsi.

In Gabriele c’è un obiettivo distacco, una capacità di non concedere mai alibi al lettore e a se stesso, sa essere vigile contro ogni sentimentalismo e buonismo, sa ritrarsi dalla scrittura, sa lasciare parlare la scrittura quasi che l’io, il suo io non esistesse… ma anche Mariella Colonna in queste ultime poesie inedite che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima, è riuscita a lasciar parlare la scrittura, a lasciarla andare, non inseguirla, a perderla…

T.W. Adorno Negative dialektic, Surkampf, 1966 Dialettica negativa, 1966 tra. it. 1979, Einaudi p. 365)

 

 

Giorgio Linguaglossa

2 agosto 2017 alle 16:00

 

 «Se un disperato, che si vuole suicidare, chiede a chi cerca benevolmente di dissuaderlo, quale sia il senso della vita, il salvatore è perduto e non sa nominarne alcuno; appena ci prova, può essere confutato, eco di un consensus omnium, che porterebbe il conforto al suo nocciolo: l’imperatore ha bisogno di soldati. Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione.» 1]

Analogamente, chiedere a una poesia che avesse senso, è un atto barbarico, la poesia non ha senso alcuno almeno nel senso di chi è pieno di senno e di senso. Tutta la poesia che ha senso va respinta al mittente con uno sberleffo.

Analogamente, chiedere a una poesia di non aver senso, è un atto incomparabilmente più barbarico, perché denota una aperta disistima e disprezzo del senso… E non c’è modo di uscirne, la poesia deve continuare ad oscillare tra questi due estremi sbattendo la testa di qua e di là…

Forse a un disperato che si vuole suicidare dovreste dare in un foglietto una poesia di Hölderlin o di Leopardi se voleste salvarlo in qualche modo…

Adorno Dialettica negativa Einaudi, 1970 p. 340

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Giorgio Linguaglossa

5 luglio 2017 alle 18:57

 

Per una «ontologia relazionale» (verso cui ci stiamo muovendo) entro la quale trova posto la «nuova ontologia estetica» facciamo riferimento ai limiti entificanti, che in fisica, sono lo spazio di Plank che è lo spazio minimo del singolo quanto di spazio, la velocità della luce, che è la velocità massima di propagazione di qualcosa nello spazio, la costante di Planck che quantifica l’unità di misura dell’informazione dei quanti, il diametro massimo dell’Universo che è 10 elevato a 120 volte la lunghezza di Planck: L’infinito.

Leopardi era molto scettico sul concetto di «infinito», anzi, pensava che l’infinito non esiste. Anch’io sono di questo avviso, esso concetto è un nostro concetto mentale che attribuiamo al mondo di mondi di fuori. Quello che possiamo dire è che posto un inizio possiamo continuare a numerare e numerare all’infinito. Ma questo, signori, non è l’Infinito, è un qualcosa che si muove all’infinito. Cosa molto diversa.

L’ontologia relazionale è un sistema dinamico che contiene al suo interno una molteplicità di sistemi dinamici in interrelazione…

 

 

Franco Campegiani

20 luglio 2017 alle 6:26

 

Caro Giorgio,
attendevo altri commenti, ma non sono arrivati, ed è per questo che ho fatto passare qualche giorno prima di esprimerti i miei ringraziamenti per l’attenta lettura e per la stimolante intervista di cui mi hai fatto dono. Tirando ora le somme – ma questo un po’ lo sapevamo – mi sembra di poter dire che diversa è la nostra visione del mondo, pur con affinità interessanti su cui a me ha fatto bene meditare. Amo l’aspetto scintillante ed enigmatico del tuo mondo poetico e di quello dei poeti che tu più stimi e senti vicini. A differire sono le nostre idee sul Nichilismo, che tu senti come destino irreversibile ed io invece come passaggio da vivere e superare. Indubbiamente nessuno si può porre fuori dalla cultura in cui vive, ma il mondo cambia e per essergli fedeli fino in fondo bisogna anche seguirlo e aiutarlo nel suo necessario cambiare.

Di Nichilismo siamo indubbiamente intrisi fino al midollo, ma resta il fatto che in qualche modo ci si deve muovere, non ci si può impantanare. E qual’è lo scoglio da superare? a parer mio il Razionalismo, di cui il Nichilismo è e resta un’appendice fondamentale. Sono movimenti consanguinei del pensiero, nati in parto gemellare. Tali movimenti stanno nel nostro dna e noi non li possiamo allegramente ignorare. E’ da lì che indubbiamente deve partire qualsiasi tentativo di superamento culturale. Forse qualcuno potrebbe dirmi: come si fa ad andare avanti tornando indietro, verso le origini, verso il passato? Ebbene, non è la prima volta, nella storia, che questo accade. Penso all’influsso del Primitivismo sull’Avanguardismo artistico del secolo passato. Tuttavia il ricorso che io sponsorizzo a facoltà prelogiche del pensiero (ma non per questo irrazionali), non deve esser visto come ritorno al passato, bensì come riscoperta e riappropriazione di facoltà che ci appartengono e che indebitamente noi abbiamo abbandonato. Trovo che la NOE sia molto interessante per questo. È un’esperienza, come già detto, “ricca e affascinante”, che io vedo in viaggio verso quel guado.

 

 

Giorgio Linguaglossa

20 luglio 2017 alle 8:41

 

la verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla

caro Franco Campegiani,

tu scrivi: «A differire sono le nostre idee sul Nichilismo, che tu senti come destino irreversibile ed io invece come passaggio da vivere e superare». Il fatto è che io non mi pongo il problema del superamento, questa è una categoria hegeliana che Marx impiegò applicandola alla filosofia politica ingarbugliando la storia del novecento in modo tragico, sancendo lo scacco dell’esperienza del comunismo che avrebbe dovuto superare, nel pensiero della successiva filosofia marxiana ortodossa, la società del capitalismo. Forte di questa terribile esperienza del novecento, io nel mio pensiero ho espunto la categoria del superamento sostituendola con quella della abitazione. Io mi limito ad abitare il mio tempo, del resto cos’altro potrei fare? Mi pongo continuamente delle domande, non ho nessuna “certezza” quella la lascio volentieri a chi ne ha.

Da stessa «nuova ontologia estetica» io l’ho desunta dai poeti che apprezzo e analizzo, poeti che anch’essi, credo, in modo conscio o inconsapevole, accettano di “abitare” il mondo. La poesia deriva da questo forse: abitare il mondo poeticamente… ma già questo lo dicevano Hölderlin e Leopardi per abitarlo si è accinto al dispendiosissimo oceano del pensiero disseminato e dissolto nello Zibaldone. Io ho sempre guardato con tenerezza ai poeti «ingenui e sentimentali», come li definiva Schiller, i «poeti di fede» come li ha ironicamente definiti Berardinelli riferendosi ai poeti che vedranno la luce nella sua antologia Il pubblico della poesia (1975), i poeti «sacerdoti», gli impiegati della cultura, direi più severamente io.

Tu poi scrivi un pensiero sul quale anch’io mi batto da sempre: Il ritorno alle Origini. In primo luogo: alle origini di se stesso. Ma il me stesso è la mia epoca, io non posso sfuggire alla mia epoca. E qui si ritorna daccapo… è un circolo vizioso dal quale non si può uscire… Cmq, il nostro dialogo è utilissimo, serve per approfondire i problemi. Un poeta che anche lui abita queste pagine, Claudio Borghi, seguito da un filosofo, Davide Inchierchia, hanno individuato, a loro giudizio, delle «contraddizioni» nella «nuova ontologia estetica». Ma il fatto è che la «nuova ontologia estetica» non è un monolite, non è un pensiero dogmatico, non è stata generata il lunedì e finita il sabato come nel Genesi, è un pensiero continuo, un pensiero che pensa se stesso e che si mette in discussione, un pensiero che avanza in mezzo a scogli e contraddizioni e che, certo, ha in sé moltissime contraddizioni… ma questo che significa? Non significa nulla…

 

 

Una riflessione sul nichilismo

I romanzi tradizionali e la poesia tradizionale assumono il modello frontale: l’io che osserva sta al di fuori dell’osservato e dell’oggetto. Con l’inizio del novecento si verifica un cambiamento del modello o paradigma. Il soggetto è dentro l’atto della osservazione, diventa autoreferenziale, contempla l’inclusione del soggetto osservatore nel circolo della osservazione. Per questa via si entra in un circolo magico, ovvero, in un circolo vizioso. Non se ne esce che con un’arte che descrive l’atto della osservazione e la traduce in rappresentazione, come se quest’ultima fosse perseguibile mediante una serie di proposizioni correlate che hanno un inizio ed una fine. Orbene, questa concezione piramidale di porre la questione della rappresentazione non tiene nel debito conto che da Le demoiselle d’Avignon (1907) di Picasso il soggetto è scentrato rispetto alla rappresentazione, e la rappresentazione ha cessato di essere prospettica, è diventata posizionale, è una tra le tante, ogni posizione del soggetto può essere sostituita da altrettante infinite posizioni.

La verità è diventata posizionale, la verità della rappresentazione non c’è più, è subentrata la posizione della verità al posto della verità. Ora, questo indebolimento della verità si rivela essere una vera e propria detronizzazione. La verità diventa una questione proposizionale e posizionale. E se all’ultima proposizione della catena proposizionale scoprissimo che dopo di essa c’è il nulla? E che prima della prima proposizione c’è il nulla? Non resterebbe altro da fare che sostituire la verità con il nulla, assumerci la responsabilità di prendere atto di questa sostituzione, il nulla diventerebbe la posizione valoriale di base della catena proposizionale, il vettore della catena proposizionale. Allora comprenderemmo la massima di Wittgenstein, «dove debbo tendere davvero, là devo in realtà già essere [dort wo ich wirklich hin muß, dort muß ich eigentlich shon sein]. 1)
Infatti, noi siamo già in una posizione, il soggetto è una posizione tra infinite altre, non gode di alcun prestigio ontologico, e la rappresentazione ha solo valore posizionale.

Per una «ontologia relazionale» (verso cui ci stiamo muovendo) entro la quale trova posto la «nuova ontologia estetica» facciamo riferimento ai limiti entificanti, che in fisica, sono lo spazio di Plank che è lo spazio minimo del singolo quanto di spazio, la velocità della luce, che è la velocità massima di propagazione di qualcosa nello spazio, la costante di Planck che quantifica l’unità di misura dell’informazione dei quanti, il diametro massimo dell’Universo che è 10 elevato a 120 volte la lunghezza di Planck: L’infinito.

Leopardi era molto scettico sul concetto di «infinito», anzi, pensava che l’infinito non esiste. Anch’io sono di questo avviso, esso concetto è un nostro concetto mentale che attribuiamo al mondo di mondi di fuori. Quello che possiamo dire è che posto un inizio possiamo continuare a numerare e numerare all’infinito. Ma questo, signori, non è l’Infinito, è un qualcosa che si muove all’infinito. Cosa molto diversa.

L’ontologia relazionale è un sistema dinamico che contiene al suo interno una molteplicità di sistemi dinamici in interrelazione…

1] Ludwig Wittgenstein Vermischte Bemerkungen, Ricerche filosofiche, trad. it. di Renzo Piovesan e Mario Trinchero, a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, 22

 

 

Franco Campegiani

23 luglio 2017 alle 20:40

 

Caro Linguaglossa,
trovo anch’io utilissimo questo dibattito e le tue parole mi incoraggiano a continuare. Ebbene, premesso che tutto ciò che ha a che fare con l’idealismo, in maniera diretta o indiretta, esula dalla mia visione del mondo, non è alla storia o alla società che penso quando parlo di “superamento”, bensì all’uomo singolo, al suo modo di “abitare” il tempo. Ci sono tanti modi per abitare il tempo, giacché un conto è “vivere”, un altro è “lasciarsi vivere”. Se non si prende in mano la propria esistenza, a prescindere dal ruolo svolto socialmente, è inevitabile che la “dimora” si trasformi in “tomba”. “Superare”, pertanto, a mio avviso, significa semplicemente mantenere fede a se stessi, non farsi rubare a se stessi. Non direi che questa sia ingenuità. L’uomo di fede, se autentico, così come il “poeta di fede”, non è un fideista plagiato dall’”ipse dixit”, bensì un problematico, un uomo che s’interroga sapendo che la macerazione è dubbio e fede nello stesso tempo. La fede vera, come il vero dubbio, è fusione di certezza ed incertezza.

Sono i due piani di ogni singolo essere, uno universale e l’altro razionale, che si scontrano e si incontrano tra di loro. Possiamo anche parlare di “finito” ed “infinito”, purché il secondo termine non venga inteso in senso spaziale, visto che ogni spazio è finito e circoscritto. L’Infinito può avere un senso non come “mondo di fuori”, ma come “mondo di dentro”. E’ quel divino di se stessi che la deflagrazione dell’”io” promossa dalla cultura contemporanea è destinata a far affiorare inequivocabilmente. Sta qui il grande merito del Nichilismo: nell’aver disintegrato l’”ego”, nell’aver disfatto la corazza del Razionalismo. Le schegge esplose dell’Io fanno finalmente apparire lo sfondo: quel vero e profondo volto di noi stessi di cui parla Borges nei versi finali dell’Elogio dell’ombra: “Dovrebbe impaurirmi tutto questo / e invece è una dolcezza, un ritornare. / Posso infine scordare. Giungo al centro, / alla mia chiave, all’algebra, / al mio specchio. / Presto saprò chi sono”. Il senso più compiuto della propria identità giunge nel momento altamente creativo del fallimento dell’Io, perché più si abbassano le difese dell’ego, più si fa spazio all’Altro che vive in noi, all’essere alare che costituisce la nostra più vera e profonda identità, la nostra dimenticata essenza universale. “Conosci te stesso” diceva Socrate. Gli fa eco Rimbaud (lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871) scrivendo: “Je est un autre”, “Io è un altro”. Non “Io sono un altro”, ma “Io è un altro”. Identità come alterità, il Sé come Altro da Sé. E viceversa. Tuffandosi in questo insondabile mistero, l’uomo non smarrisce se stesso, ma ritrova se stesso, o meglio l’allineamento con se stesso e dunque la concordanza universale. Ed è ciò che accade, sul finire del XXXIII canto del Paradiso, all’autore del viaggio ultramondano, laddove riceve la visione divina: “Dentro di sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effigie / perché ‘l mio viso in lei tutto era messo”.