Rosa Pierno POESIE SCELTE da coppie improbabili, Pagine d'Arte, 2007 con una divagazione di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Rosa Pierno è nata a Napoli nel 1959 e ivi laureata in Architettura, vive a Roma. Dal 1993 fa parte della redazione della rivista di ricerca letteraria “Anterem” diretta da Flavio Ermini, Verona. Cura la rubrica Tangenze per la rivista d’arte “Il Libretto”, edizioni Pagine d’arte, Svizzera. Ha curato per tre anni il blog “Trasversale” (2011-2014). Suoi testi sono presenti nelle riviste Anterem, Poesia, Musica/Realtà, Next, Malavoglia, Almanacco, Bloc Notes, èlites, Semicerchio, Il Segnale, Formafluens, l’Ulisse, Equipèco. E’ presente con la sua cospicua attività critica nei seguenti siti e riviste: Mannieditore, Tellusfoglio, VicoAcitillo, Carte allineate, Anterem, L’Immaginazione, Malavoglia, Lietocolle, Lucreziana 2008, Il Segnale, PoetryInTime, Rebstein, Lietocolle, Leggendaria, Milanocosa, I fogli, TestualeCritica.

 

Ha pubblicato:


“Corpi” Anterem, Verona, 1991,
“Buio e Blu” Anterem, Verona, 1993,
“Didascalie su Baruchello” Roma, 1994,
“Interni d’autore” Edizioni Joyce & Company, Roma, 1995
“Musicale” Anterem, Verona, 1999
“Arte da camera” edizioni d’if , Napoli, 2004
“Trasversale” Anterem, Verona, 2006 (Premio Feronia Città di Fiano 2006 Sezione Poesia)
“Coppie improbabili”, Milano, 2007 Edizioni Pagine d’arte
“Artificio”, Robin, Roma, 2012

E’ presente nelle antologie:
“Akusma” edita da Metauro edizioni (2000)
“Poesia in azione” a cura di Vaccaro e Guidetti, , Milano, edito da Milanocosa,
“CIRPS” (antologia multimediale) curata da Francesco Muzzioli (2001)
“Verso l’inizio. Percorsi di ricerca poetica oltre il Novecento” Verona, Anterem, 1999
“Parola plurale”Luca Sossella editore, Roma 2005
“Monti Lepini” con Davoglio, Hajdari, Pierno, Theophilo a cura di Filippo Bettini, Quaderni del Capanno2008
“Calendario della poesia italiana”Alhambra publishing, Belgio, 2010
“Blanc de ta nuque” di Stefano Guglielmin, 2012

Suoi testi sono presenti nei seguenti libri e cataloghi d’arte

 

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Ora, se considerate il vaso come oggetto fatto per rappresentare l’esistenza del vuoto al centro del reale che si chiama la Cosa, questo vuoto, quale si presenta nella rappresentazione, si presenta appunto come nihil, come nulla. Ed è per questo che il vasaio, proprio come voi a cui sto parlando, crea il vaso attorno a questo vuoto con la sua mano, lo crea proprio come il creatore mitico, ex nihilo, a partire dal buco […]. Con l’introduzione di questo significante plasmato che è il vaso, 

si ha già tutta la nozione di creazione ex nihilo. 

E la nozione di creazione ex nihilo è  coestensiva all’esatta situazione 

della Cosa come tale.

 

(Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti, p. 313)

 

L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità [...] veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi [...] il tutto è falso [...] non si dà vera vita nella falsa.

 

(T.W. Adorno Teoria estetica, 1970)

 

Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. 

Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparlo o sconcertarlo, 

lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. 

Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola. 

Lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto [...] 

Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso 

e non avrebbe alcun valore senza questo rischio

 

(Jacques Derrida)

 

Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse

(Tadeusz Różewicz)

 

Giorgio Linguaglossa

 

Le citazioni a mio giudizio  servono a indicare, a sviare e ad avviare, in modo indiretto, il lettore verso l'operazione perseguita da Rosa Pierno, quella di rappresentare in poesia l'opera di maestri della pittura. Quello che mi colpisce è la matematica calibratura della presentazione linguistica: da una parte gli «oggetti» raffigurati, dall'altra la rappresentazione linguistica. Le due cose, ovviamente, non si equivalgono, non c'è contiguità, semmai c'è specularità: poesia e segno pittorico sono due specchi che si specchiano l'un l'altro; in tal senso intendo la loro specularità, appunto in speculum et in aenigmate. Nella sua essenza, lo specchio specchia in modo mirabile il vuoto che c'è attorno agli oggetti, che aleggia nelle cose, dentro le cose. È il vuoto, credo, che attira qui l'attenzione dell'autrice verso le opere pittoriche, la capacità di far vuoto attorno agli «oggetti» raffigurati e di rappresentarli linguisticamente in esso vuoto. 

Come è noto, dopo la seconda guerra mondiale è avvenuto un fenomeno che non era nuovo, che si era già manifestato agli inizi del novecento, ma che nel corso degli anni del secondo novecento è diventato visibile a chiare lettere. Quelle «forme» di cui ci ha parlato Tadeusz Różewicz, «spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue / si sono spezzate e disperse», quel verso libero, o meglio il verso a-metrico, figlio bastardo del nichilismo e dell'epoca tecnologica, è diventato il nostro regolo, la nostra incerta ed instabile dimora, la moneta corrente del poeta di oggi. In Rosa Pierno è ben visibile questo «ritirarsi» dalla «scrittura», questo «ritirarsi» dalle forme consunte del poetico...

 

(Giorgio Linguaglossa)

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Filippo De Pisis

 

Colore, invecchiato come vino, che corrompe gli oggetti, li ammanta di andato, di speso e, però, resta a imperituro ricordo dell’attimo. 

 

La vista del corpo nudo è visione d’eterno. Occhi contornano e scorrono sulla pelle, mani solcano il foglio che accoglierà il reperto. Se è andato via, era qui prima, e si è fatto rapire da un disegno. 

Pezzi di pane e anemoni sono testimoni che non durano più di un giorno. La bottiglia è già quasi vuota e la tavola e i fondali sono sporchi, trascurati dal male dell’amore. 

 

Un piccolo altare votivo nell’attesa che tu bussi alla porta, mentre non ti aspetto. Una mela gialla, un uccello morto, un ventaglio e una tabacchiera per propiziare la tua presenza. Pittorico evento. 

 

Aringhe dorate, intarsiate d’argento, accanto a un limone, quasi una presenza esotica, su una credenza grigia, e una foto: la casa delle vacanze con la madre. 

 

Gigantesca aragosta agita le chele al centro del quadro, mentre nessuno passa e il vento incita baracche e barche ad abbandonare l’arenile, a sollevarsi in volo. 

 

Valve di conchiglie su cui si può leggere solo che il futuro è uguale al passato. Tempo non è che riproposta infame e ha il colore del catrame temperato dall’indaco. 

 

Niente di più lussuoso che immortalare un granchio fra resti di telline e un limone contro un fondale marino che sa di irraggiungibile riva. Naufrago sulla terra. 

 

Conchiglie ammucchiate, reperti di tempi arcaici che sono stati rinvenuti in una giornata ventosa, passeggiando sulla spiaggia. Vita priva di alcunché è vita ricca.

 

Un improbabile guanto accanto a un tralcio di foglie per rendere più distante la fila di ombrelloni. È il vento che occupa la mente e che rende volatili i colori. 

 

Nessun racconto può darsi con questi astrusi elementi: una mela verde, una conchiglia gigante – più grande della cabina sulla spiaggia – e un ombrellone chiuso o cipresso, da qui non si vede bene. 

 

Con colori narra di un’esistenza sublime spesa a raccogliere ciottoli e mitili, come fossero i frammenti perduti del passato che siamo stati. 

 

Cozze o cipolle non sono più tali se adagiate sul piano che interseca il mare. Sull’esofago grava una pressione verde che trasmuta. Parole non rendono colori e quadro trasfigura oggetti. 

 

Fiori come uno scherzo della natura: ancora vivi, declamano poesie mortali. È malattia dell’anima il corpo che può essere solo guardato. 

 

Il corpo è colore e odore, ma non è un oggetto simile agli altri. Raccoglie ombre ed emette onde calde che echeggiano sulla coperta zebrata. 

 

Questo olezzo che emana da pesci morti e da beccaccini a un passo dalla marcescenza si trasmette all’angolo buio della stanza: una frenesia da virus, da malattia d’amore, quando il corpo è perso. 

 

Incendio del cuore è incendio del piano e del fondale su cui appaiono pere e pane, bottiglia e bicchiere: ultima cena - giura - da solo. 

 

Non si lascerà cogliere impreparato dalla mondanità dell’esistenza. Raduna pipa e profumo e calice con fiori per essere pronto a ogni evenienza, a ogni incontro. Spettrale è la sera al lume di candela. 

 

Sontuosa residenza se il ventaglio è azzurro e il vaso contiene una rosa. Bagliori d’oro e riflessi verde acqua provengono dalla finestra a diversificare la fine d’una giornata uguale. 

 

Tacche di colore su eventi improbabili – il gabbiano morto che precipita ai nostri piedi, il carciofo sulla rena – fremono come se all’improvviso la realtà potesse venire meno, sfaldarsi al contatto col pennello. 

 

Altre volte, lo spazio è saturo e l’aringa assume il significato di un intero mondo. Un mondo che si presenzia perché convocato. 

 

 

Giovanni Battista Piranesi 

 

C’è una sozzura di altri tempi e di odierne ore sui monumenti antichi: per il denso fumo che ha reso la materia carta annerita, per gli alberi che ne scuriscono le ombre, per le erbacce che ne confondono il disegno. Archi e mattoni resistono come cariati denti nel tessuto cittadino e ambiscono a esserne la corrotta cifra. 

 

Quel che si rafferma sulla carta non è volatil segno, ma pietra erosa, masso traballante. Pur nell’esser decaduti dall’uso c’è di che sperare: un nuovo illuminato modo di essere impiegati, di perdurare. 

 

Foresta accoglie i resti. Rocchi scheggiati e vasi torreggianti. Dai basamenti si staccano busti, e gambe si stirano per le assunte eterne posizioni prone, mentre pampini e viticchi s’avvoltolano su capitelli e colonne sgravate dalle trabeazioni. 

 

Fantasie eccitate, al galoppo, rimestano nel calderone culturale e traggono dal cilindro della storia un toro alato, una palma e un elmo, un arco di trionfo e una colonna da riposizionare su un ponte crollato o un arco a sesto acuto riabbassato. 

 

Tra foglie d’acanto e pergamene, la mano passa con segno omologante. È ciò che dell’umano resta: un sogno infranto. 

 

Relitti, sballottati dalle correnti della storia, testimoniano di atti morali e disegni criminali. 

Nuvolaglie increspano la visione razionale. La linea evolutiva delle forme è una chimera da registrare su fogli numerati. 

 

Rocchi gettati tra erbe ornamentali servono da seduta ai mendicanti. Medesimo è l’uomo che costruisce mura e distrugge imperi. 

 

Emergono dai flutti del terreno, colonne con capitelli e trabeazione. Scoscesi dirupi nascondono in parte archi diroccati che attendono dissepoltura. A volte il cielo si dissipa cancellando un angusto orizzonte. Storia non è fatta per sguardi senza slarghi di veduta. 

 

Statue, in niente dissimili agli umani, indicano e implorano, evocano e additano storie similari. 

Gente scava o discorre indifferentemente. Se medita, l’uomo lo fa seduto su un pezzo di marmo decorato. 

 

Il tempo incatrama le vie per cui si giunge al presente. Raggi d’ombra ammorbano la visione del reperto. Indietreggiando non si risale il corso del tempo. 

 

Fuori di scala è l’uomo. Figurante da commedia dell’arte o ladro o mendicante resta il pusillanime abitante di pietre a misura di gigante. 

 

Misura umana non è rapportabile alle sue fabbriche e il cielo si tortura per accordarsi a tali mura. 

Se sotto le alte arcate si affastellano vasche di porfido e statue, alati tori ed elmi giganteschi, vuol dire che dalla storia non si esce. Che tocca ripassare per gli stessi luoghi, le medesime empie azioni, le funeste imprese.

 

Storia non è posizionamento di archi in prospettiva: azioni equivalenti trovano finali irriducibili. 

Lettere gigantesche si stagliano su marmi candidi per recitare al visitatore delle patrie rovine ciò che non è possibile smarrire.