grafica di Lucio Mayoor Tosi
Donatella Costantina Giancaspero
Una Poesia (letta al Castello di Sorci il 26 agosto 2017)
Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi
Una febbre lieve mantiene sospeso l’oggi.
I minuti oscillano sul medesimo punto interrogativo.
Di scorcio, una parete a quadri spalanca la finestra,
che dà ormai sul giorno fatto. Il punto cade giù, nel vuoto.
Tutto è rimandato, compresa la perturbazione da Nord-Ovest
e chi ascolta da un’altra direzione. Ma non sa la stanza
come si trascina fino alla porta, se la mano traccia il segno della resa.
Alle spalle, una campitura di rosso pompeiano
vigila il corpo contratto dentro un quadrante senza numeri.
La lancetta spezzata.
Un ritmo cieco batte a tentoni negli angoli.
Commento di Lucio Mayoor Tosi
Queste io le chiamo poesie della percezione. Sono rare, sono un avvertimento anche per chi ne scrive, sono il modo in cui avviene la comprensione delle cose. Procedendo con questa comprensione, senza sostare troppo nell’intellettualità, le cose ci arriverebbero dentro con il loro particolare “essere” e ci toglierebbero dall’angoscia. Complimenti a Donatella, è una bellissima poesia.
Commento di Mariella Colonna
è una poesia esemplare per la NOE… gli oggetti diventano “cose”, eventi, diventano te, Donatella, per quello di te che riesci a riversare sulle cose, sulla quotidianità: e poi quel punto interrogativo che cade nel vuoto! Immagini molto nuove, originali.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Acutamente Lucio Mayoor Tosi definisce la poesia di Costantina «poesie della percezione». Le poesie sono la prosecuzione degli occhi, sono delle sonde gettate nel mondo di cui avvertono i minimi trasalimenti, le minime fenditure… in tale accezione sono poesie psicologiche in senso moderno, che avvertono il lettore e l’autore di un agguato imminente, di «un punto interrogativo» sospeso «nel vuoto»; è anche una poesia ontologica, che scandaglia l’essere dell’esserci… una sorta di periscopio che osserva e vigila… dal di sotto, ciò che appare e accade sopra l’orizzonte del mare aperto…
Quello che noi scorgiamo al di sopra dell’orizzonte, non è la «realtà» ma è il «reale» che noi abbiamo costruito con il nostro immaginario e il nostro simbolico e in base al quale distinguiamo e interpretiamo la «realtà». La cosiddetta «realtà» la vediamo sempre «di scorcio», non è possibile la percezione frontale della «realtà». La poesia ci consente di girare attorno all’oggetto, di investigare sulla natura della «realtà» e di tradurla in «reale», di comprenderla:
Di scorcio, una parete a quadri spalanca la finestra…
Ma questa comprensione è opera dello «sguardo», della posizione di chi guarda che è posta di sbieco, a latere rispetto alla «realtà»; ma, è paradossale, è proprio grazie a questa postazione s-centrata che è possibile avere uno «sguardo». Il «reale» che noi vediamo è quindi il prodotto di uno «sguardo» s-centrato. Non potrebbe essere diversamente, e la s-centratura interviene nel momento in cui agisce il significante: la metafora. Infatti, nella poesia non è detto che è «la finestra [che] spalanca una parete», ma il contrario. Il contrario appunto in quanto l’atto dello «sguardo» è s-centrato. Il «reale» ricoperto dall’immaginario dà il senso di realtà alla «realtà» ed Essa è precisamente l’effetto di questo ricoprimento immaginario del reale. La castrazione originaria rende possibile il significante originario, il significante del Padre, e quindi l’accesso alla realtà. La «realtà» non è il «reale» per Lacan. La realtà è il «reale» coperto dall’immaginario e dal simbolico. La freccia che va dall’Immaginario al Simbolico è la freccia del senso. La dimensione della verità implica il rapporto tra immaginario e simbolico. La verità si dà come simbolizzazione dell’immaginario. Ogni volta che accade la simbolizzazione dell’Immaginario c’è effetto di verità, c’è processo di disidentificazione. Ogni volta che mettiamo in evidenza le identificazioni inconsce che governano la vita di un soggetto l’effetto di questa interpretazione è un effetto di disidentificazione. In tal senso le poesie di Donatella Costantina Giancaspero sono una rete fittissima di segnali semaforici, segnali che lampeggiano e danno evidenza agli ordini semantici dei significanti; ordini di Alt, Verde, Giallo; ordini di divieti e di permesso. Ordini minacciosi, intimidatori che angosciano. Il simbolico di questa poesia è costellato di ordini, di divieti e di censure, sono le metafore che zampillano in fibrillazione continua…
Gino Rago
31 agosto 2017 alle 19.22
Sei dipinti numerati. Da uno a sei.
(Sembrano moti di un passo di danza).
La prima figura è protesa verso l’esterno.
La seconda verso l’interno.
Una si schiaccia si può dire a terra.
L’altra si libra senza peso verso l’alto.
La quinta si rilassa. La sesta si erge in piedi.
(…)
Per anni l’arte ha tentato la stasi.
Ora cerca di mettere tutto in movimento.
I sei dipinti ornano i sei pilastri
della sala da pranzo d’una azienda.
Figure fluttuanti. Distesa di cielo
visibile appena dalle finestre alte della sala.
(…)
«Siamo tutti coscienti del fatto che…»
L’amministratore delegato non risponde.
Ignora l’artista: «Siamo tutti coscienti del fatto
che se la polpa cade la conchiglia si svuota?
Chi o cosa riempirà questo vuoto…»
Emilio, Edoardo, Armando.
(…)
Da un angolo della sala aziendale rispondono:
«Se la polpa fugge la conchiglia resta vuota.
Quel vuoto può riempirlo la parola nuova del poeta».
L’amministratore delegato non si scompone.
Pensa da solo soltanto al profitto.
La conchiglia spolpata rimane vuota.
Giorgio Linguaglossa
C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. Il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime (quale suo luogo naturale) in metafore e immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana, ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Rammento che circa alla metà degli anni novanta a Milano venne redatto un «manifesto», stilato, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).
pop art, Twiggy, Andy Warhol
Giorgio Linguaglossa
31 agosto 2017 alle 9:34
posto qui una poesia di una poetessa molto diversa da Villa Dominica Balbinot, Luigina Bigon, con una sua poesia paesaggistica, en plein air. Non siamo certo all’interno della «nuova ontologia estetica», Luigina è impegnata in una poesia di stampo tradizionale nel migliore senso della parola:
Luigina Bigon nasce a Padova, dove risiede. Ha svolto attività nell’ambito della progettazione dell’ornato artistico dell’Alta Moda della calzatura femminile. Sue creazioni sono esposte nella Saletta Egizia del Museo della Calzatura d’Autore di Villa Foscarini Rossi di Stra (VE). Ha pubblicato le raccolte “Barattare Sogni”, Clessidra 1989; “Lucenenèra”, Maseratense 1995. “Cercando O”, Panda 2001 e “Diacronicità, ponte Sottomarina / Cina”, Cleup 2009, entrambe tradotte in inglese da Adeodato Piazza Nicolai. Ha ideato e curato “Vajont, Padova e i suoi artisti”, Imprimenda 2003, e altre antologie. È membro direttivo del “Gruppo letterario Formica Nera” e del “Gruppo poeti Ucai” di Padova, di cui è stata fondatrice nel 1989.
Notturno londinese
Questa notte Londra è più lugubre del solito
con quei suoi angeli neri,
li ho visti volare dappertutto
poi scendere con il paracadute.
Le sirene gridano lungo le corsie di sinistra
le auto saltano sui corpi morti degli sbirri,
un ton-ton che sferra l’asfalto
e lo ingrigisce più delle catene.
È un labbro opaco che si sporge
una carezza di corvo l’ala
un gracchio di rana il canto.
Le auto roteano incurvandosi
insieme alle bow windows vittoriane
un barocco quasi quasi cimiteriale
con i giardinetti pieni di sterpi
e cose vecchie. Londra dei gentelmen
riposa sontuosa intorno a Piccadilly Circus
là dove tutto è massimo fulgore, ma qui
in questo quartiere riposa il terzo mondo
che ancora sorride e fa pena.
Chissà dov’è la verità, forse a Brixton
insieme agli afro così poveri, ricchi di dignità.
Anche la mano si è fatta nera, fa paura.
La testa si sgretola come un vaso di cotto
il corpo si ritrae istintivamente.
La notte è lunga.
Francesca Dono
1 settembre 2017
siamo davanti al fiorista. Le auto vergano chilometri di bitume
al quinto secondo di un anno mancato. Così folto il vivaio irrigato.
Addirittura una cartomante vicino al bouquet di rose.
Ho infilato la mano tra le foglie di cordalyn black .
Pure gli Angeli nel poster del rimpasto.
Il Matto in fila è nudo. Intanto un vaso muta . Oggi la prima ora
di nuovo ripetuta. Sul banchetto il presagio
dei tarocchi secondo l’atterraggio delle carte. Mi sono
ferita con le spine congelate che volavano dall’insidia naturale
dei lunghi steli. Scimmie cosmopolite a pezzi.
(Prendi i migliori colori appassiti. Fai una smorfia per la borsa difettosa.)
La papessa rovesciata milioni di volte.
Poi tu dici in un minuto : abracadabra e lei sparisce.
Serenella Menichetti
La regina è nuda
Niente gabbiani né tramonti adamantini
nel plumbeo cielo.
Sospesi sopra un mare di pece
spelacchiati corvi neri.
Dal ventre sterile della terra
s’alzano flebili lamenti.
Tutto ammorbato e infetto intorno.
Tronchi d’ulivo cupi e anchilosati, piegati
su se stessi come vecchi artritici.
Con il gelo nel cuore:
ascolti i rantoli delle stremate palme.
Mentre coaguli d’angoscia ti ostruiscono le vene
Il lugubre rintocco della campana del silenzio
batte i suoi colpi.
-La morte si è infiltrata ovunque- mi racconti.
-La senti, è lei che ulula.
Adesso la fa da padrona –
-Vecchio, tu stai delirando-rispondo
-Non voglio ascoltare le tue fandonie-
Concludo.
Mi copro le orecchie con le mani e fuggo.
Mi fermo, quando la tua sagoma rimane
ai miei occhi, solo un minuscolo bruscolo nero
che non c’è verso di scacciare.
Vado alla ricerca di farfalle,
e gabbiani.
Niente, non riesco a trovare più niente
di ciò che c’era prima.
I lunghi tentacoli della piovra che avviluppano
la vita, cercano di spegnere il mio canto.
La campana del silenzio continua a muovere
il suo batacchio con sordi rintocchi di morte.
Sfinita, delusa mi addormento.
Un risveglio senza gabbiani,
un foglio accartocciato.
Una poesia
scabra.
Né trucchi
né orpelli.
La regina è nuda.
*
The Queen is naked
No seagulls nor adamantin sunsets
in the steelgrey sky.
Hanging above a sea of tar
black featherless crows.
From the sterile belly of the earth
Rise up feeble moans.
All around is pestiferous and infected.
Dark and twisted olive trunks, bent
on themselves like artritic old men
with ice in their heart:
You hear the rantle of exhausted palm trees.
As knots of anguish obstruct your veins
the funereal sund of the bell of silence
beats its notes.
-Death has filtered in everywhere- you tell me
-Do you hear it, it is she who moans.
Now she is the boss .
-Old man, you stand in delirium- I answer
-I don’t want to hear your lies
I conclude.
I plug closed my ears with my hands and run off.
I stop, when your shape remains
in my eyes, only a tiny black mole,
there is no way to trow it away.
I go searching for butterflies,
and seagulls.
Nothing, I can no longer find anything
that was there like before.
Long octopus arms are wrapping up
life, trying to put out my song.
The bell of silence keeps on moving
the striker with stupid sounds of death.
Exhausted, deluded, I fall asleep.
(traduzione di Adeodato Piazza Nicolai)
Commento di Giorgio Linguaglossa
cara Serenella, ma questa è la poesia che un poeta colto e raffinato come Gino Rago definisce “adamitica”!, si avverte la tensione verso un nuovo linguaggio, la sintassi franta, la paratassi, lo stile nominale…
l’idea di tutti i poeti adamitici è scrivere nel linguaggio delle api «in cui un linguista non può vedere altro che una semplice segnalazione della posizione dell’oggetto, in altre parole una funzione immaginaria più differenziata delle altre» «Ma una tale comunicazione non è mai trasmissibile in forma simbolica» (Lacan, Scritti, I Einaudi, 1970, p. 15)