Antonio Riccardi POESIE SCELTE da Gli impianti del dovere e della guerra (Garzanti, 2004) Con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

[Antonio Riccardi è nato a Parma nel 1962. Per la poesia ha pubblicato: Il profitto domestico, 1996; Gli impianti del dovere e della guerra 2004; Acquarama e altre poesie d’amore, 2009. Ha curato il volume di saggi Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami, cimiteri e vecchie zie rimaste signorine, 2015]

 

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

 

 Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, si profila l’Epoca della stagnazione stilistica

 

Come è noto, dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia italiana diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi allo stato molecolare, il tutto legittimato dall’imprimatur del governatorato dell’io; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso, si ha in mente un senso implausibile ed effimero, come se il senso non sortisse fuori da una ricerca del senso; si scommette sulla facile semantica che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi. Sarà questa la via verso la de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Subito si spalanca davanti al lettore la «mantica», la cosa fatta di semantica: la poesia dell’io e delle sue problematiche nel quotidiano. Accade così che si diffonde a macchia d’olio una poesia fatta di esternazioni dell’io, di ipotiposi dell’io. La poesia italiana degli anni settanta cercherà l’«assenza» tra l’affollamento  degli oggetti del quotidiano, nasce così una poesia del «pieno», non più inquietante ma rassicurante, il «pieno» delle parole della «comunicazione».

 

La problematica derridiana della «traccia» viene sproblematizzata e interpretata come discorso narrativo dell’io che ha perduto le fondamenta, di qui l’erranza dell’io, l’ipertrofia dell’io. La poesia oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta, la citazione ironica e la accettazione di una poesia del «pieno», di cose dette, di oggetti conosciuti, di faccende domestiche. Si disse in quegli anni che la poesia doveva cessare di produrre «valore», di produrre «senso», di produrre qualsivoglia «valore». Dati questi presupposti, la poesia didascalica del quotidiano ne è stato il risultato naturale. La poesia italiana degli anni settanta, quella dell’esordio di Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen e Valerio Magrelli si muoverà in questo orizzonte di idee; si adatta alle nuove circostanze che richiedono una poesia democratica, o meglio, demotica, fungibile, comunicabile che finga ogni manomissione del «senso» e del «valore». La conseguenza di questa situazione sarà che chi viene dopo questi poeti non potrà che continuare a produrre fraseologie dell’io, frasari distassici, combusti magari con allegria per re-impiegarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila così la Grande Crisi della poesia italiana che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «leggibilità» della forma-poesia, al punto che non si sa più cosa si debba intendere oggi per forma-poesia, che cosa si intenda per dismetria, che cosa sia rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

La poesia non ritiene più indispensabile edificare su Fondamenta solide,

 

equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di fondamenta.

 

È un fatto che la poesia italiana di questi ultimi decenni sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali di una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» con il pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). Si assiste alla scomparsa del pubblico. La poesia parla del non-senso?, del senso?, del pieno tra le parole?, del pieno e del detto tra le parole?, del pieno e del detto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia come aneddoto?, la poesia della riproposizione del mito?. Il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero poetico.

 

La poesia italiana dagli anni novanta ad oggi ha tentato di, in qualche modo, orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, ha tentato il piccolo cabotaggio tramite una facile dismetria, una facile procedura ironica, quando sarebbe occorsa una seria riflessione sulla difficoltà del fare poesia nella nuova condizione della materia lessicale combusta, dei materiali esausti, degli isotopi di un lessico usurato, della situazione di detrito permanente della forma-poesia. Siamo così arrivati alla «dissolvenza» di tutti i concetti saldamente ancorati ad una idea forte di forma-poesia, ci si è accontentati di navigare a vista per il tramite del referenzialismo e di una «narrativizzazione» ad oltranza della forma-poesia.

 

Così è accaduto che, durante questi ultimi decenni, per la precisione dagli anni settanta ad oggi, la poesia italiana ha seguito la moda di un referenzialismo che poggiava sullo zoccolo duro del linguaggio del quotidiano con l’idea invalsa che le frasi-proposizioni potessero esistere isolatamente e fossero intellegibili in sé sulla base di una interpretazione letterale; si è creduto che la strada di una poesia  metaforica fosse un azzardo. Così è nato l’equivoco che la poesia dovesse «narrare» il quotidiano. Dopo Satura (1971), la scelta fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato metonimico (Fortini) sarebbe andato a vantaggio del piano inclinato di un quotidiano acritico e acrilico. Di fatto, dalla poesia italiana  viene espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico.

 

Giorgio Linguaglossa


Giorgio Linguaglossa 

 

Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

 

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo, una equivalenza alimentata da una cultura male assemblata. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nella positivizzazione della forma-poesia. La positivizzazione sarà stata anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia, ma rimarrà una risposta insufficiente. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

 

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione,

 

di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

 

La de-fondamentalizzazione del discorso poetico

 

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e consapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

Positivizzazione del discorso poetico*

 

Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poeticoe della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione culturale» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

 

*[C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».

 

La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).

Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. Il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.

 

Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.

 

La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime (quale suo luogo naturale) in metafore e immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.

 

Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana, ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Rammento che circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», stilato, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.

 

La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

 

*

Giorgio Linguaglossa
Antonio Riccardi

 

La prima sezione de Gli impianti del dovere e della guerra (2004) di Antonio Riccardi raffigura la città industriale colta per lampeggiamenti memoriali, c’è «mio padre… coperto dal camice di piombo», «con l’Alfa scendeva nell’oriente della pianura / verso il dominio di Cattabiano»; c’è «la sirena» che regola il tempo della città industriale, qui la positivizzazione del discorso poetico trova una modellizzazione in chiave realistica:

 

2.
La sirena copriva la città col sacrificio,
A lungo ho sentito solo sentito
la voce della sirena.
Saliva regolando la vita della pianura
e limava ogni cosa al dovere
voltando da sotto la città satellite.

 

3.
Con la sirena saliva al ferro
e al mattino la nostra città.


Mio padre vedeva gli organi e le ossa
degli uomini delle fabbriche.
Coperto dal camice di piombo
cercava dei segni dentro la carne
sentendoli al buio senza parlare.
Poi partiva per Cattabiano
con le bestie giocattolo per me.

 

4.
Veniva da Sesto con le bestie feroci
il puma, le pantere, al fine settimana
appena prima che il mondo voltasse sotto
andando al buio da questa collina.
da solo aspettavo sulla curva del castagno
che il giorno fosse senza mutamento
e nuovo di una nuova felicità.

 

5.
Con l’Alfa scendeva nell’oriente della pianura 
verso il dominio di Cattabiano.

Questi sono gli anni a due teste,
bene e castigo.
Lo so da allora, l’ho visto
nell’orbita degli anelli del ciliegio
e nella resina che fa da morto.

 

Antonio Riccardi è nato a Parma nel 1962, fa parte di una generazione che ha vissuto in profondità la crisi di crescente narrativizzazione della poesia italiana; la sua lunga esperienza negli uffici stampa della collana di poesia della Mondadori lo ha reso edotto degli effetti di quel processo che abbiamo denominato «narrativizzazione» e «positivizzazione» del discorso poetico. La sua opera d’esordio, Gli impianti del dovere e della guerra, ne è un esempio probante; è una sorta di topologia del quadrato memoriale di Riccardi: la campagna parmense del podere di Cattabiano e quella che fu la «piccola Stalingrado», cioè Sesto San Giovanni, con i suoi quattro stabilimenti industriali (Concordia, Unione, Vulcano e Vittoria). Qui la «positivizzazione del discorso poetico» viene accettata come punto di partenza per una nuova ripartenza secondo gli intenti di una poesia intesa in chiave realistica, che abbia nel realismo topologico e didascalico il suo marchio di riconoscibilità. La parte centrale, titolata «Né salvi né morti» contiene questa significativa didascalia:

 

La forgia: assumevano 100 persone per averne 5 che rimanessero
perché era un posto terribile, la bolgia dei vivi…
io non ho vergogna a dire che spesso, alla mattina
prima di cominciare a lavorare ho pianto.

 

(testimonianza di M.S., operaio alla Breda Fucine)

 

Entriamo così nella zona centrale del libro, «Né salvi né morti». Ci troviamo di fronte ad una idea di poesia come realismo didascalico, testimonianza dell’Italia industriale, in aperta contro tendenza rispetto alla poesia dell’io, della poesia-confessione e della poesia degli oggetti di anceschiana memoria incentrata attorno ad un io posto come atto di verificazione indubitabile:

 

Giorgio Linguaglossa

 

1.
Ogni anno si prepara un po’ di guerra.
Negli hangar le gru
bruciano carbone a tonnellate
olii combustibili, sabbie e terre.

 

Le terre da fonderia non sono terra
– come l’ombra che ci sprofonda
non è materia, non sono nomi –
ma semi di quarzo e argilla in proporzione
con ossido di ferro, soda, magnesio
mica, potassa e a volte organismi

 

come fortuna non è bene o male ma il seme
la materia che si vuole in condizione.

 

2.
Nell’impero delle presse e dei magli
ogni impianto è un corpo pieno.
in combustione l’aria si spina,
scintilla come quarzo e gas
e poi si gonfia con la polvere di fuori.
Presse idrauliche per forgiare e imbutire
se verticali da duemila tonnellate
per boccole e stantuffi
se orizzontali da duecento tonnellate
per proiettili di calibro medio
o usate in coppia parallela
nella fucinatura dei corpi cavi

 

ogni corpo è in attrito e resiste
alla totalità degli altri corpi.
Così – come dentro – è fuori
e poi nelle trincee.

 

3.
In fonderia si preparano le guerre.
Negli hangar di Breda e Falk
forni fusori elettrici e altoforni
per colate in staffa,
macchine di formatura e altri forni
per la ricottura dei getti di fusione
preparano carlinghe e convogli
per il fronte di guerra.

 

Ogni comparto è un corpo che produce
la trama degli adempimenti.

 

4.
In fonderia maestranze qualificate
lavorano valvole per condotte forzate
turbine idrauliche e alternatori elettrici
e pezzi in serie per armi da guerra.

 

La perfetta produzione
non consente tempi morti
ma l’intero di una sola verità
e armi da guerra in serie.

 

Nella parte centrale del libro, troviamo la sezione titolata «Elixir Borducan», la zona propriamente memoriale del libro, la zona nevralgica che ci rivela un Riccardi poeta post-lirico. Qui la positivizzazione del discorso poetico, entra nel vivo, grande parte viene svolta dalla macro metafora del «padre», «il padre di mio padre», «il dragone ha la testa d’oro»; infatti, in questa sezione abbondano le zone memoriali con il loro referente retorico naturale: la metafora:

 

1.
Oggi è il giorno che mio padre muore davvero
– la più vicina morte che capiamo è la seconda, è il tu
ha detto Jankélèvitch.

 

Da solo entrerò nel bosco di Cattabiano
per vedere la prima pianta del mondo
che passa da un figlio a un figlio a un altro figlio
da un primo, poco prima della nostra fortuna.

 

2.
Ogni fortuna è una forma
e dopo una memoria che non finisce.
Anch’io sono un borghese
come suo padre, il dragone.

 

Dal belvedere del Borducan
il suono della terra è come niente sulla terra
e dico solo una cosa vedo dalle quote.

 

3.
Da qui vedo la guerra e quello che è stato
di loro e di ogni campo del loro podere.

 

Il dragone ha la testa d’oro.
Vedo il padre di mio padre poco prima
dell’assalto, prima che il mondo
si cambi per tutti in un solo dovere.

 

4.
Niente somiglia davvero a come sono
a cosa so della guerra e degli eroi.

 

Vedo il dragone nel dirupo voltarsi
al lampo artificiale di un bengala,
un colpo di luce nel morso di un cavallo
sull’elmo e nella pianura dell’assalto.
Al ritorno sarò in pari col dovere di tutti.

 

5.
In grazia di un luogo conosco
come Dio non ha grammatica
e forgia solo i primi nomi:
dovere, sacrificio, verità.

 

Negli assalti sembrano sospesi
in un velo di polline e vapore.

 

Giorgio Linguaglossa

 

L’ultima sezione del libro segna l’abbandono del luogo memoriale degli avi per entrare nella storia della industrializzazione accelerata del paese; è titolata «VITTORIA l’impero delle nuove macchine». C’è una sorta di virile accettazione per quel che è stata la storia della industrializzazione forzata del paese, c’è un tono che ricorda, da lontano, quello di Franco Fortini di Composita solvantur, ma come decantato, risolto quasi in dichiarazione didascalica, priva di qualsiasi modellizzazione enfatica, sopra segmentale. I «luoghi» hanno un netto risalto: la geografia ingloba l’io, sostituisce la storia dell’io delle poetiche «deboli» del minimalismo romano milanese per commutarle in luoghi di una toponomastica memoriale imaginale. Va dato atto che Riccardi tenta qui una via sicuramente impervia, in salita, solitaria, piena di rischi stilistici, tenta una ripartenza che si rintraccia anche in alcuni pochissimi autori contemporanei tra i più attenti al cambiamento della stagione culturale in atto in questi ultimi lustri della storia d’Italia.

 

1.
Dice Elia di non entrare
nelle rovine.

 

Nella cinta degli stabilimenti di Sesto
c’è un bosco improvviso
tra l’area dei gasogeni e l’area dei forni
– niente che qui sia solo nostro
o vero una sola volta, in questa città.

 

4
Sono già di là gli operai del Vittoria
ultima squadra per la cerca tra i metalli
nel bosco che buca la città
nell’ultimo anno di fabbrica.

 

L’ultima metamorfosi è la macchina
o il sistema automatico di macchine
quando lo regola un automa.

 

Oh, città – uno pensa – perdendo le tue rovine
non resterà altra cosa…
poi vedono volpi e cani scappare sul fondo
del bosco catastale.

 

8
Strumenti meccanici per l’arte venatoria 
nel podere di Cattabiano

I. 
Vengono di notte nel bosco dei corvi
nel buco più fondo di questo dominio.
L’archetto a croce, il sacco di tela e i chiodi
poco prima dell’aurora.

 

Nel bosco converge il mondo
una notte di prima della prima guerra
e loro rasoterra dal prato
per prenderli nel sonno con le mani.

 

Uno penserà l’estate dopo
la prima estate di guerra e di malora
ai corvi alla moltitudine nel buio
scendendo le trincee sotto i bagliori

 

II.
Vengono al buio nell’erba lunare
da bosco a bosco con gli abiti leggeri
per avere una caccia fortunata
loro bianchi nella luna anche loro.

 

La notte più chiara è quella dei corvi.
precipitato da Minerva
si vede ancora tra le stelle il Drago
nel cielo tra l’Orsa e l’altra capovolta.

 

Uno è già morto al prossimo plenilunio
ma adesso, segnàti col sangue del sambuco
e uniti in un solo cavo astrale,
sentono al buio la ferma degli animali.