Paolo Valesio STORIE DEL TESTIMONE E DELL’IDIOTA (poesie inedite) con una interpretazione di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

 [Paolo Valesio nasce nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia, 1979, La rosa verde,1987, Dialogo del falco e dell’avvoltoio, 1987, Le isole del lago, 1990, La campagna dell’Ottantasette, 1990, Analogia del mondo, 1992, Nightchant, 1995, Sonetos profanos y sacros, 1996, Avventure dell’Uomo e del Figlio, 1996, Anniversari, 1999, Piazza delle preghiere massacrate, 1999, Dardi 2000, Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo, 2002, Volano in cento, 2002, Il cuore del girasole, 2006, Il volto quasi umano, 2009 e La mezzanotte di Spoleto, 2013. È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan, 1978, e Il regno doloroso, 1983; di racconti: S’incontrano gli amanti, 1993; di una novella, Tradimenti, 1994, e di un poema drammatico, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato nel 1993 e a Salerno nel 1997]

 

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa di  Paolo Valesio

  Approfitto della generosa ospitalità per presentare una breve sequenza di poesie tratte da una delle mie raccolte inedite (quella più vicina al completamento), il cui titolo per il momento è Esploratrici solitarie. Non è certo insolito il fenomeno per cui uno scrittore evoca l’apparizione improvvisa, fuori di ogni sua volontà e calcolo, di uno o più personaggi già essenzialmente formati. (È vero che queste apparizioni hanno luogo prevalentemente nei momenti genetici di opere narrative e teatrali —ma forse ciò accade perché l’idea del personaggio ha senso soprattutto in quei generi letterari; d’altra parte, per me come per altri poeti, una raccolta di versi comincia a prendere forma accettabile solo quando si struttura come un vero e proprio libro, cioè quando emerge in essa qualche cosa di affine al dramma o alla narrazione: dei personaggi dunque, e una trama; o anche solo l’uno o l’altro di questi elementi.)

 I due personaggi di questo libro non s’incontrano mai. (Se questo significhi che l’uno sia il “doppio” dell’altro, non so; ma so che questa idea mi ispira un sottile senso di paura.) I due sono apparsi lentamente (emergendo da una sorta di nebbia in cui è immersa la poesia che apre la serie, e il cui sottotitolo inglese non è gratuito: la sintassi di “dream poem” lascia ambiguo il legame fra i due sostantivi — sogno/poesia, poesia sorta in sogno, sogno di una poesia?). I personaggi sono venuti fuori da quella nebbia così lentamente e timidamente, che all’inizio sono stati respinti; ma essi hanno insistito, con parole sempre più chiaramente udibili, con caratteristiche sempre più riconoscibili nelle loro differenze, fino a rendere abituale, e in effetti indispensabile, la loro presenza.

 Per quel che posso giudicare, il Testimone è dei due il più austero e intenso, mentre l‘Idiota è più indifeso, poroso — più portato a esaltarsi in modo quasi ingenuo. Un paio di lettori del manoscritto in corso mi avevano esortato a lasciar perdere questo appellativo di “Idiota”, che troppo facilmente avrebbe potuto ritorcersi contro l’autore. Risposi che effettivamente all’inizio avevo sentito un certo disagio; ma con questo nome lui sì era presentato, e non mi sentivo di cambiarglielo per forza. Forse l’Idiota si aspettava che io riconoscessi in lui una genealogia letteraria — il personaggio che dà il titolo al grande romanzo di Dostoevskij (letto nell’adolescenza, esso influì sulla mia visione della vita, ma non lo rilessi più); dubito comunque, dato il suo temperamento, che egli abbia voluto coinvolgermi in qualche gioco letterario. Un altro lettore preliminare ha opinato che Idiota si riferisca piuttosto al suo etimo greco: l’uomo “privato”, singolo, semplice in opposizione all’uomo socialmente rilevante e agguerrito. E potrebbe anche darsi; ma tali speculazioni hanno senso solo fino a un certo punto. Il fatto è che queste due persone si chiamano così come si sono presentate, sono quello che sono, e si muovono a loro imprevedibile piacimento fra (per il momento) New Haven, New York e Bologna — le città del mio destino.

 

Giorgio Linguaglossa

 

 Interpretazione di Giorgio Linguaglossa

  Nell’aforisma 30 del 1954, Andrea Emo scrive:

«Nessun principio è definibile e oggettivabile»1.

Il pensiero non può cogliere il principio, pena porlo come non-posto, dissolto nell’infinita catena delle mediazioni. L’Inizio è l’immediato. La dialettica paradossale e aporetica di Emo mostra l’inconcepibilità dell’Assoluto tramite le categorie logico-ontologiche non-contraddittorie, ma è anche una «chiave» che consente l’accesso ad un pensiero metafisico in grado di cogliere l’Assoluto attraverso il paradosso. L’Assoluto non è ponibile perché qualsiasi posizione di esso lo capovolge istantaneamente in altro, secondo una dialettica contraddittoria che può avere un antecedente significativo nella peritropè(«capovolgimento» o «inversione») damasciana.2 Nel Principio, che Emo denomina anche «atto», o «attualità», tutto è identico perché tutto è Nulla: «nell’attualità l’essere e il nulla coincidono assolutamente»,3 nel senso che sono non soltanto simultaneamente uno, ma anche simultaneamente non-uno; si identificano, sono uno e non-uno, e,  in questo stesso atto, si distinguono e si oppongono.

Nel Nulla è il principio in quanto il principio è il Nulla che appare e si fa figura.

Il mondo per Emo «non è che il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto»;il quale, poi, a considerarlo più profondamente, si scopre anch’esso come un auto-negarsi nel suo stesso porsi, e come un porsi nel suo stesso negarsi.

Ecco un tratto nichilistico di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?».5

  Per la visione teologica cristiana invece il mondo

 è il risultato di un inverarsi dell’Assoluto, e la storia ha un senso, pur se occulto e nascosto, che si dispiega nel tempo lineare. Ed è qui che si situa la sorprendente interrogazione della poesia valesiana.

Per Paolo Valesio, un evento accade all’improvviso: un «testimone» e un «idiota» dialogano ciascuno sepolto nella propria solitudine. Una manifestazione che sorprende, che scuote, che appare «altra»; un evento oscuro, che fa subito luce. Ciò che fa intensamente pensare all’azione di una «potenza», di un «numinoso» . Ognuno di noi ne ha fatto esperienzae ne fa continuamente nell’ambito della vita quotidiana, ognuno di noi può testimoniarlo.

 Il Dio cristiano ha sostituito la tyche-dèa dei pagani, intesa come evento che rimanda sempre ad «altro». Il Dio cristiano è un evento che rimanda a sé. Nella concezione cristiana l’evento non è nudo ma ha il vestito che Dio gli ha consegnato. Scopo del poeta è quello di scoprire il vestito di Dio per il tramite del linguaggio umano. Particolarità e contingenza sono inscritte nell’evento per eccellenza che ha dato la svolta alla storia degli uomini: la crocifissione del Cristo e la sua resurrezione.

 Con il che il tempo ciclico si è aperto per introdurre l’uomo nella prospettiva escatologica e messianica dell’avvento del regno di Dio. Direi che entro questa cornice soteriologica si svolge il pensiero poetico di Paolo Valesio.  

 

Giorgio Linguaglossa
Primo piano, da sx, Adriano Spatola, Paolo Valesio, Luigi Fontanella anni Settanta

 

 

 Nel pensiero poetico di Valesio

 la facoltà discorsiva della poesia celebra il suo rito stilistico: nuda scarnificazione della frase e della parola e sfiducia nelle qualità estetiche della retorica.

L’unico modo per sfuggire a questa pesante ipoteca che inficia il pensiero discorsivo è che esso si faccia portavoce del mistero e del supplizio degli uomini, l’esistenza dei quali si inscrive tra la nascita, la morte e la resurrezione, dove la morte è bandita dal decreto individuale della fede.

 È entro questo quadro teologico-salvifico che si situa la poesia di Valesio. Il viaggio dell’uomo contemporaneo dunque non può essere altro che quello del «testimone e dell’idiota», con la «e» disgiunzione e congiunzione, «anello» debole della creazione tra il Tutto e il Nulla, il Nulla e il Tutto, essendo il nulla nient’altro che una labileintercapedine del Tutto.

Perché il dio bambino, di cui il Mediterraneo aveva favoleggiato fin dalle origini, il figlio della madre, è nato da una madre di carne, esso stesso carne, ed ha abitato tra gli uomini, ed è morto tra gli uomini. E risorto. È dentro questo mistero della carne e dello Spirito, che si svolge e si involge il pensiero poetico di Paolo Valesio. Ha senso la storia degli uomini dal punto di vista della escatologia? La risposta di Valesio, piena di dubbi, non ha dubbi, è sì, la storia ha senso, sta agli uomini scoprirlo.

 Valesio è un semplice poeta pellegrino, anzi, poeta-testimone

Per la gran solitudine in cui vive 
il Testimone è un fantasma.

che va alla ricerca di questa esile parola-traccia, di questa «cortina di perline / tintinnabulante» che accompagna la storia rissosa e sanguinaria degli uomini. La versificazione, più che libera, appare legata, imbavagliata dalla parola dominante che rimane impronunciata, incatenata con dei tiranti, tra versi lunghissimi e versi brevissimi, che si alternano per dire l’impossibile… Spezzata, frantumata. In questo pentagramma infranto la parola poetica valesiana acquista in detonazione quello che perde in denotazione, essa vive in questo universo infranto, è un suo prodotto.
All’improvviso, parla una voce che sembra sortita da un sogno:

Non devi preoccuparti più di tanto —
la tua voce comunque è inaudibile
e tale resterà fino alla fine.
Continua a camminare capo-chino 
stringendo con la punta delle dita
il lembo del cappotto e non preoccuparti
se è lo stile della rondine o quello
del pipistrello.

1 La voce diceche il «testimone» e l’«idiota» sono la stessa persona.1. Cfr. Andrea Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989 p. 18

2. Il neoplatonico Damascio, nell’opera Dubitationes et solutiones de primis principiis, Paris 1899, sostiene che il Principio Ineffabile (tò apòrretos) del tutto non coincide con l’Uno e si trova epékeina tou henòs, al di là dell’Uno (quest’ultimo denominato da lui, talvolta, «indicibile», arrètos, ma mai «ineffabile»). Il Meta-Principio, insomma, non è identificabile con niente, e non è definibile in nessun modo, neanche come indefinibile: «Infatti, noi non lo [l’Ineffabile] diciamo neppure ‘totalmente inconoscibile’, in modo che esso, essendo qualcos’altra cosa, possieda per natura l’inconoscibilità; ma non lo diciamo né ‘ente’, né ‘uno’, né ‘tutto’, né ‘principio del tutto’, né ‘al di là del tutto’; noi riteniamo di non predicare di esso assolutamente nulla. Dunque, neppure questi predicati costituiscono la natura di esso e neppure ‘il nulla’» (cfr. Damascio, De Princ. I, p. 13.17-21). In tal modo, il paradosso auto-referenziale è lo sbocco aporetico necessario di qualsiasi discorso sull’Assoluto, del quale si può parlare soltanto attraverso continui «capovolgimenti» o «inversioni» del logos; infatti, afferma Damascio, «se invece è necessario dare qualche indicazione [del Principio], bisogna allora servirsi delle negazioni di questi predicati; dire che non è né uno né molti, né generatore né non generatore, né causa né non causa. Bisogna per l’appunto servirsi di queste negazioni che, non so come, si capovolgono [peritrépesthai]  totalmente  all’infinito» (cfr. Damascio, De Princ. I 22, 15-19 e I 26, 3-5, corsivo mio). 

3. Cfr. A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., p. 52 (corsivo mio). 

4. Ibidem

5   Ivi, p. 75

 Giorgio Linguaglossa

Poesie inedite di Paolo Valesio

IN PROVVIDA MENTE (A DREAM POEM)

IN PROVVIDA MENTE (A DREAM POEM)

               Improvvido,
il braccio nudo di Gesù improvviso. Punta dove? E un’indicizzazione
o una bene – male – dizione? Assorto dal bruno della pelle, dall’atletica scarnirà
gli sembra vedere
una fila di anelli di rame,
semplici cerchi spogli eppure magici — quella piccola
magia selvaggia
che era nelle spoglie del Battista: pelli
e denti d’osso in asole di cuoio e il legno polito,
fino alla translucenza,
del suo bastone e ciotola
dove il miele è oramai tutto leccato.
               Anelli che agganciano sottili in spire
anche i Samaritani, i Siro-Fenici, quelli delle frontiere, gli idolàtri, i tantissimi che lasciano
negli occhi altrui
la perplessità dello sguardo —anelli che abbracciano
con amore-corrosione
consumatrice di ogni distinzione fino alla in-differenza.

               Ma il braccio di Gesú rimane nudo, e quegli anelli debbono esser stati
illusione dell’aria:
granulata e rutilante
cortina di perline
tintinnabulante
in tanti “clang” silenziosi
che si travedono come
gioielli-essudazioni del calore. 

(New Haven-New York 1998-2012)

 

COSTRIZIONE

On se relève tombé, on ne se relève pas pulvérisé”

(Victor Hugo, L’homme qui rit)

La voce dal soffitto
è un subitaneo grido:
“Schiacciatelo, l’infame!”
e il Testimone viene strascinato, sulla scia di quell’eco,
a un breve e convulso pensiero: `Tu, Peccato-Vita, mi schiacci —spero solo che non calpesterai
in me un infame, e calcherai piuttosto uno già predisposto, un penitente’.

(Bologna)

 

APPARIZIONI DISPARIZIONI

Figlia nella mattina
si aggira in cucina —
“Ma è presente soltanto nello spirito!” si esclama sottovoce il Testimone. Allora l’altra voce     bassofonda,
quella del forum animale
(del buco dell’anima), ribatte: `Vero, e questo significa
che lei non è un fantasma mentre tu sempre sotto il basto curvato
del tuo inqualificabile passato
                                                                                              (per cui devi ripetere a ogni alba,
               come lo scolaro
               trattenuto in classe che scrive cento volte sulla lavagna:
               Il peccato è scarlatto
               Il peccato è scarlatto
               Il peccato è scarlatto …), tu così ammantellato


  dalle tue stesse braccia a scudo
  per rintuzzare l’assedio del rimorso: sei tu che stai sull’orlo 
  di metamorfosarti e fantasmarti’.

Caffetteria cjoe”
(Riverside Drive, Manhattan)

 

NON DA QUEL DOVE

         Il Testimone è desto e vestito e sta ritto davanti alla finestra lunga della sua camera da letto
         regge in mano una tazza di caffè (scudo per affrontare la giornata) dunque resta in stupore
         quando ode parole
         che non (come di solito gli accade) spiovono dal soffitto
         mentre sotto egli giace
         ancora nel veglia-e-dormi;
         no, queste
         sorgono dal fiume
         là sotto in fondo:

         “Guarda, anche se non vedi: Lui sopra giunge rapido
         e silente come la luce —è la nube della luce,
         non quella della tenebra che Lo involge

(Riverside Drive, Manhattan 12 ottobre 2014)

 

AL FUORI-DENTRO MARGINE

A volte nei momenti
in cui galoppano gli scrupoli il Testimone osa
rivolgersi all’Altissimo:
“Si possono pregare
preghiere che suonino stonate rispetto a quelle
che il Vescovo di Roma predica? E poi: come posso continuare
a essere la voce roca e fioca
                     (ogni giorno m’illudo
                     che forte e chiara possa ritornare
                     e a ogni nuova giornata la ritrovo debole, incurabilmente)
che è fuori dal coro?”


     Nessuna, naturalmente, risposta si fa udire; solamente parole non venienti
dall’alto e dall’Alto
ma striscianti fuori da un sogno
dove non si comprende chi è che parli:
“Non devi preoccuparti più di tanto —
la tua voce comunque è inaudibile
e tale resterà fino alla fine.
Continua a camminare capo-chino stringendo con la punta delle dita
il lembo del cappotto e non preoccuparti
se è lo stile della rondine o quello
del pipistrello”.
Poi il sogno comincia a evaporare
e lui era sul punto di dire: “Ma — non c’è altro?” quando ode le ultime parole
prima dello svanimento che preclude il sogno
e prelude al risveglio:
“Non importa se sei fuori dal coro
ma bada a non scivolare nel sottocuore”.

(Bologna 15-18 gennaio, 2015)

 

NUOVI MONDI STANNO SEMPRE APRENDO QUANDO NON LORO CI ASPETTIAMO

Dice bene l’amico americano (o l’amica? Non c’è firma e la cartolina di Miami — non
       conosce nessuno a Miami —
        contiene solamente questa frase:
      “Nuovi mondi stanno sempre aprendo quando non loro ci aspettiamo”),
pensa l’Idiota mentre la rilegge. Dice bene perché questo aforisma roseo e modesto,
intriso di senso comune,
che l’amico fantasma (o l’amica che resterà per sempre misteriosa) deve aver messo dentro il tritacarne di un traduttore automatico, quando esce così rimescolato
e discombobulato
ha già una scintilla acquistato di elettrica originalità:
il madrelingua legge
la sua materna lingua riscoperta in forma un poco estranea —
come un corpo tutt’altro che materno
che si riveli improvvidamente nel fru-fru delle vesti arrovesciate e nell’imminente
incresparsi delle lenzuola.

(Bologna, 1 febbraio, 2015)

 

L’ESERCITO INFINITO DEGLI ESTRANEI

Per la gran solitudine in cui vive il Testimone è un fantasma.
Una volta lui era
un fantasma cattivo:
non agli altri ma a sé — un captivus della sua ombra e colore oscuro;
la faccia della sua melancolia
era una taciturna amaritudine.
Ma adesso il Testimone sta mutandosi in quasi-buono fantasma:
melancolia placata
e sfociata
in elegia di vita.

Di fronte all’infinito esercito di estranei
che sciama lungo le avenues
il Testimone è ormai libero
da timore
e da (con punta d’invidia) disagio.
Semplicemente, è curioso:
con un sorriso lieve e la fronte spianata, camminando o seduto su una panca.
Venerabili padri hanno detto:
Curiositas è peccato. Ma lui la sente
come una porta al bello e un timido primo gradino alla caritas.

(Bologna – verso New York – 3 febbraio, 2015)

 

DIFFICOLTÀ DELLA GLORIOSITÀ

Ogni luogo ogni marchio sul paesaggio
è una condanna per il Testimone
        (corridoi di occasioni perdute
        lacune di visite e viste che avrebbero potutodivenire visioni)
ma ogni luogo ogni marca di paesaggio
ogni scorcio (sghembo, angusto, tagliente)
di quella che lui osa sotto voce ancora chiamare “bellezza”
è una concessione gloriosa al suo tempo di vita.
Il ritmo inevitabile di questo su-e-giù del cuore lo lascia stordito più ancora che stupito.

(Riverside Drive, Manhattan 8 febbraio, 2015)

 

LA PICCOLA ORESTIADE

Il Testimone quando si sente di svenire
lotta-contro, sospinto dalla sottocorrente paura che questo sia il preludio del suo svanire.
Così i suoi occhi grandi-aperti
per via delle sue notti troppo bianche,
e i suoi capelli rizzati, trasmettono agli estranei e agli scarsi amici —
                    quando gli amici sentono scarsezza
                    tendono a divenire trasparenti
                   e questo può stranirli —l’apparenza ingannevole
di un forte, di un vitale.
Ma il pavor nocturnus et diurnus
che si annida nel fondo del suo occhio
          (e che si trova
           anche in alcune foto di suo padre)
lo marca fuggitivo, inseguito da un muto furore
e da una muta di furie solo per lui visibili.

(Riverside Drive, Manhattan 25 febbraio, 2015)

 

RICORDI 1

L’Idiota sorride ai ricordi:
un largo, con denti malcurati, sorriso accoglitore e semi-felice
per il semplice fatto crudo e nudo che sono esistiti e che lui
è ancora 11 a camminarli.
Gli appaiono, a tratti e balenii,
come i surrogati
della Resurrezione.

(Treno New York-New Haven 2 marzo, 2015)

 

RICORDI 2

Il Testimone, quando un ricordo lo colpisce diretto, geme
                     (breve lamento, e subito
                     si volta in giro per verificare che non l’abbiano udito):
è il fisico dolore,
quello dello stomaco;
per l’occasione perduta, l’instantenon pienamente vissuto
dunque offeso, sacrificato
nel suo potere dì essere
                    (ma il gemito è forse riscattato come seme di pentimento).

(Treno New Haven-New York 2 marzo, 2015)

 

MADRIGALE

Eterna giovinezza fin che dura dell’Idiota:
alle volte c’è il tormento, 
alle volte non c’è più.

Quandunque il tormento
per un poco scompare di sollievo
e la svolta buona fiorisce l’Idiota ci ricasca e si illude
che la sua vita sia ridivenuta nuova. Misericordiosamente
non saprà forse mai
se questa è l’illusione che sfocia
nel triste viso (o addirittura ghigno) dell’ultimo congedo
oppure sia l’unica forma
di immortalità per lui possibile..

(Cineteca di Bologna)