foto Christer Strömholm
Donatella Costantina Giancaspero
29 settembre 2017 alle 18.09
Vorrei aggiungere una piccola annotazione, ovvero le parole che Alfredo de Palchi riporta nella sua nota a Sessioni con l’analista (1964 – 1966), in Paradigma, tutte le poesie: 1947 – 2005 (Mimesis, 2006).
Si tratta di un commento molto breve, ma non per questo meno significativo, poiché ribadisce la necessità di un approccio psicologico ai suoi testi – questi in particolare -, così come ho tentato di fare io nella mia analisi. Ed è stato indispensabile affrontare il discorso da una prospettiva lacaniana, in quanto l’impianto strutturalista della psicoanalisi di Jacques Lacan offre molti utili strumenti per l’indagine e l’interpretazione del testo poetico.
Queste le parole di Alfredo de Palchi:
Sessioni con l’analista (1964 – 1966)
Scritti di getto durante una esperienza malsana nell’estate del 1964 in Bucks County nello stato di Pennsylvania, i 23 testi formati nel presente storico, psicologicamente intercalano le esperienze personali del passato alle attuali. L’intravisto analista è un carattere emblematico e perché tale può essere un oggetto inanimato: la bottiglia, la tavola, la finestra, oppure animato: la mia gatta, la donna, il maiale. Per la cronaca, frequentai un analista dopo la pubblicazione del libro.
Insomma, qui sembra che proprio l’autore voglia indicarci la via per l’esatta comprensione dei suoi versi. Ci dice: io scrivo questo. E questo non puoi capirlo se sei ancora sottomesso alla struttura del linguaggio (per dirla con Lacan) in uso presso quella critica che tu sai, la critica miope e generica di derivazione accademica.
Donatella Costantina Giancaspero
30 settembre 2017 alle 12.46
Riprendendo il discorso… vorrei nuovamente citare Alfredo de Palchi, riportando un’altra sua testimonianza molto interessante sul contesto in cui è nata la raccolta “Sessioni con l’analista”. Scrive de Palchi nell’aprile 2014:
«Nel lontano 1964, mi segregai nella bella campagna collinare dello stato di Pennsylvania (azione di sparire per un mese o due dalla città, in luoghi disabitati, e camminare per sentieri traversati da caprioli mucche conigli fagiani etc., oppure sulle spiagge del New Jersey con neve vento e migliaia di gabbiani).
Durante i mesi estivi del 1964, nella mia casa, accompagnato dalla mia gatta parigina Gigi, indisturbato compilai di getto, in pochissimi giorni, le 23 Sessioni con l’analista (lasciate in disparte poi fino al 1966 quando decisi di revisionarle). Non avendo esperienza alcuna del paziente, cominciai a conversare, o confessare, con l’immagine dell’analista che era la mia gatta, quasi sempre sulla scrivania; quando non c’era mi rivolgevo all’albero fuori dalla finestra, e di sera alla bottiglia di vino di fronte. Ovviamente l’analista, ovvero gatta albero e bottiglia, benché mi ascoltassero attentamente, non rispondevano. Ma io continuavo a interpellare il loro muto. . . “perché”, con il mio “perché” e con il “perché” dei vari personaggi sovrapposti, così creando un narrare frammentato da trascorse e attuali situazioni e nello stesso momento da quelle che crescevano attorno, per darne un senso direi complesso. . . senso? –– incomunicabile dell’io e del resto. Sicuro, “l’atto della scrittura si è de-soggettivato”.
Dalla sua riflessione finale si deduce la parola chiave per la comprensione dei testi di “Sessioni”: incomunicabilità, o meglio «(incomunicazione)», così come inizia la seconda poesia della raccolta:
(incomunicazione)
frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –
(stesura del 1964)
Ed ecco come commenta questo testo Giorgio Linguaglossa in un paragrafo della sua monografia dedicata alla poesia di Alfredo de Palchi, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016, pp. 150 € 12):
“La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi”.
*
Alfredo de Palchi
2 ottobre, 2017 alle 3,33
Questa volta L’Ombra mi sorprende con una incursione analitica nel libro del 1967, Sessioni con l’analista. Cinquant’anni di silenzio critico, e di cretineria degli addetti ai lavori, si sono rivelati preziosi durante gli anni recenti con scritti di Luigi Fontanella, di Roberto Bertoldo, e Giorgio Linguaglossa a cui Roberto m’indicò. Mai dubitai dell’originalità dell’opera perché sapevo che il confessionale del prete sarebbe scaduto con la chiacchiera pseudo psicologica di P.P. Pasolini. In quell’epoca, la scelta ideologica in auge indusse la cretineria del premio Viareggio a premiare l’opera prima in combutta fino alla fine con “Sessioni con l’analista” inviata a mia insaputa da Vittorio Sereni. L’opera prima vincente era già defunta come poesia. Non per i cretini che anche al premio Prato bocciarono Sessioni con l’analista nonostante l’opera fosse sostenuta da Giorgio Caproni. In più lessi su La Nazione e La Fiera Letteraria, ridendo, una recensione che scannava il mio libro e quello vincente al Viareggio. Quando incontrai l’autore della recensione, Silvio Ramat, lo ringraziai perché era una recensione, non la presi come offesa, tanto che Ramat ed io siamo amici. Trent’anni dopo capì che la mia Grazie per il l’insolito Paganini, bellissimo. Poesia non era come l’aveva analizzata. Succede. Dunque, ora che vedo un interesse più adeguato per analizzare e sostenere il lavoro d’un poeta, ho la soddisfazione che mi mancava. Allora, come complimentare e ringraziare l’intelligente e sensitiva Donatella Costantina Giancaspero. Non so come a parole. Per l’insolito Paganini, bellissimo pezzo, ricambio con un dono pitocco ma ricchissimo di “effetti collaterali” che per anni mi hanno ispirato a scrivere tanta poesia. Per me è la migliore interpretazione del quinto concerto per pianoforte di Luigi Beethoven. E grazie a Giorgio Linguaglossa, e a coloro che commentano anche con entusiasmo. Grazie, ma sono stufo di ringraziare, meglio che vi abbracci dandovi un bacio sulla fronte, anche ad Anna Ventura, guai che menzioni il mio nome invano. . .
Giorgio Linguaglossa
30 settembre 2017 alle 18.55
Una nota di stilistica, quanto mai opportuna per la comprensione della poesia di Alfredo de Palchi.
«Cito da La vita delle parole studiata nei loro significati di Arsène Darmester, 1886.
Così, nella formazione del nome che da oggettivo passa allo stato di sostantivo; nelle restrizioni di significato che assorbono il determinante nel determinato: nelle metonimie, che trasferiscono il nome da un oggetto a un oggetto vicino unito al precedente da un rapporto costante; nelle estensioni e nelle metafore che fanno sì che si dia il nome di un primo oggetto, ben presto perso di vista, a un secondo oggetto che può essere della stessa natura ma, più generalmente di natura diversa; ovunque, condizione del cambiamento è il fatto che la mente oblia un primo termine e non considera più che il secondo.
A questo oblio i grammatici hanno dato il nome di “catacresi”, vale a dire “abuso”…».
2 ottobre alle 21.52
Volevo dire una cosa che mi è venuta in mente adesso: che in tutto il Novecento forse non c’è nessun poeta che abbia un immaginario più «povero» di quello di Alfredo de Palchi. Pensateci un attimo. Tutta la sua poesia gira da più di sessant’anni attorno ad un nucleo, sempre e solo quello. Per l’inconscio non vige il tempo lineare che regna nel sistema Conscio, per l’inconscio tutto ruota attorno ad un buco, ad un punto. Tutta la trama immaginativa di de Palchi ruota attorno a questo punto, tutto il resto è inessenziale, viene espulso dal suo sistema simbolico.
L’immaginario è sempre in lotta contro l’oblio, perché non vuole essere annientato. È forse il prodotto più alto e nobile dell’homo sapiens.
Giorgio Linguaglossa
Dal 1967 al 2017, sono passati 50 anni, 50 anni dividono il libro di esordio di Alfredo de Palchi da questa poesia di Mario Gabriele (che ho tratto dal suo blog: http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-4/ ). Mezzo secolo per far passare il testimone da un maestro all’altro.
Mario Gabriele
Non è proprio una bella giornata, Edmund,
se oggi il colore bianco è uguale al nero
e il silenzio è un chiasso nel cielo di settembre.
Fuggono le Erinni,
qualcuna resiste sul picco del Matese.
Ci hanno stancato le braccia, le gambe senza osso.
Statico è l’occhio di Averna, fisso alla finestra
a guardare chi è fuori e dentro il tempo.
Forse un addio dovevamo dirlo a Sullivan
quando partì per Burkina Faso.
Se ripenso a Joyce
torna Molly Bloom,
donna pretty come in To mother di Lowell
quando ne fece un quadro underground,
così pure per Josephine Beaubarnais,
la femme militaire
sulla soglia del dolore e della dolce vita.
Pretty, ma se fosse così anche la morte
le regaleremmo un vasetto Revitalift
sulle rughe del viso.
Con queste vendette del tempo
non andiamo al di là dell’Ipermercato,
con i coupons e Postepay a comprare
tutto il buono del Paese e le valigette
con colori a cera e acquerelli,
per dipingere di nuovo il Mondo,
bianco e senza macchie,
come il picco alto di Annapurna.
Mario Gabriele
mi hai fatto un dono che non aspettavo. Grande è stato il paragone che mi ha portato a sentirmi troppo onorato. Sono anni che pubblico poesie e tutte le volte mi sembra di andare alla ricerca del Vello d’oro, di quel mistero che circonda l’umanità nel ciclo del suo destino. Questo modo di scrivere mi porta ad una definizione che di me fece lo scrittore Domenico Rea nella presentazione del mio volume:”Carte della città segreta”, definendomi un “cantastorie”. Forse è proprio in questo termine che si enuclea tutta la mia poesia che è una sorta di capitoli a puntate che si arricchiscono di eventi nuovi, di fatti, di tracce, di episodi, e di situazioni paradossali, e chi meglio di te ha saputo interpretarne le innumerevoli segnaletiche che si presentano nel corso della lettura dei miei testi poetici; basta andare a rileggere, quanto hai scritto nella presentazione del mio volume In viaggio con Godot, ora in corso di stampa. Ma forse il testimone sarebbe dovuto passare a te che scrivi versi non riscontrabili nel panorama di oggi, sempre più alla ricerca di Movida, di piccole cose “di pessimo gusto”, perché l’introiezione del Nulla in ognuno di noi è così presente da preferire lo “sballo”, il pugno assassino, la corruzione, la pedofilia, il fanatismo religioso, l’estravaganza del Potere e l’Onnipotenza su questa terra ormai in declino. E noi, paradossalmente, che facciamo? scriviamo poesie, come”pena assoluta”. Proprio oggi, Mariella Colonna mi ha mandato una e-mail chiedendomi come interpretare il tuo verso: “Il bacio è la tomba di Dio”. Difficile le ho scritto armonizzarsi con il pensiero del poeta, cercare la base che ha prodotto il truciolo diventato mistero nel mistero. Questo credo, debba essere la parte più significativa che deve avere la poesia il cui compito è ricostruire mobili e suppellettili, dare per un attimo un paravento alla pioggia. Grazie.
Giorgio Linguaglossa
Posto qui una poesia rubata dal sito di Lucio Mayoor Tosi. Sono dei pensieri fotogrammi alla maniera della nuova ontologia estetica, a metà tra l’aforismario e il rimario. Pensieri che pensano le «cose» dal punto di vista delle «cose».
Tutto è illusione. Poesia.
L’Io è guardarsi nelle cose.
Io in tutte le cose, una a una.
Più sono le cose e più la distanza
tra presente e passato si assottiglia.
Le cose si offrono, offrono loro stesse.
L’esercito dei barattoli
non perdeva una parola, uno sguardo.
Giorgio Linguaglossa
29 settembre 2017
Posto un’altra poesia di Lucio Mayoor Tosi rubata al suo sito:
La sagoma scura di tutte le cose
sta sul fondo specchiato, dentro le cartilagini
di un nero elettrodomestico.
È vita
come la potrebbe immaginare
un vecchio sacerdote che abbia perso la fede.
E si sentisse, oltretutto, ancora
in buona salute.
Dimenticato dagli angeli
e divorato dalla solitudine
osserva sui muri il fianco di uno yacht
dalle dimensioni infinite.
Il più lussuoso e inutile dei giocattoli
se ne sta ormeggiato sopra una svogliata
famigliola di pesci.
Sono le cinque del mattino.
Non si vede intorno anima viva.
Parole di sangue gli scorrono allineate
dal senso. Danzano come fili della corrente
visti dal finestrino di un treno lanciato
sulla pianura.
Una poesia di Mauro Pierno
29 settembre 2017 alle 18.09
questo movimento ondivoro.
scarto di noi onnivori.
e mi ci ritrovo, sempre tra voi, amici.
(tra queste baluginanti immagini sempre ritrovo un bandolo.
questi riflessi di poesia io,
come dire, riesco a capirla!)
è una poesia illuminante.
bellissima. abbraccio Mayoor Tosi.
sono un pesce, di quella famigliola di pesci.
(sto qui
a lanciare sassi
in uno stagno
aspettando
che qualcuno
abbocchi.)
mauro pierno
grazie Ombra.
Una poesia di Fritz Hertz (eteronimo di Francesca Dono)
– avete visto il mio Fifì? –
Sono andato a cercare nel cassetto poi
sopra la gruccia chiusa in armadio
Nessuna traccia
Neanche l’alone ruffiano di un residuo
Allora ho pensato fosse per
strada
Gli alberi nudi
La gente al supermarket assiepata tra le corsie
come un budello liscio e sottile
Qualcuno rassettava gli uccelli
nello scaffale di metallo
Sono entrato
Ho chiesto a tutti i presenti
-Avete visto il mio Fifì ?-
Ma il silenzio era più alto
del brusio
Una poesia di Mario De Rosa
U’ cafesinho
Tra rui furceddri ì ferru
sup’a’ vrescia,
jiddra giravi l’abbrusculiaturu,
chjinu ì cafè cruru r’America
cu’ tanta pacienzia
giravi puru n’ura.
Arrivetu pi’ paccu o pi’ l’amici,
n’dà nu saccucceddru
cusutu a tutti ì leti,
jieri pinzeru fattu cù l’affettu,
rà figghjiu ,maritu ,o ra nu fretu.
E jieri chjina a’ chesa ri vicini
apposta drè pì drì ri Miricheni
e appena abbrustulutu u’ cafesinhu
po’ lu facìjnu alla “napulitena”.
Cu parlatoriu,risa e cacchi lacrima
ognunu vivìj ca tassa a grazia i Diu ,
cuntentu jieri mammita ca tassa,
e a ognirunu li parlavi dri tia
Caffè dal brasile
Su due forcelle di ferro
sulla brace,
lei girava il tostacaffè,
pieno di prodotto crudo dall’America
con tanta pazienza
anche per ore.
Giunto per pacco o tramite amici,
in un sacchettino
cucito da tutti i lati,
era un regalo affettuoso :
di figlio, marito, o di fratello.
E la casa si riempiva di vicini
venuti apposta per sapere degli “americani,”
appena abbrustolito il “cafesinho”,
lo preparavano alla napoletana.
Tra confusione, risate e qualche lacrima
ognuno assaggiava quella “grazia di Dio”
Una poesia di Mariella Colonna
Berenice non è una regina
Sull’azzurro di un mare appena sognato
si specchiò la bella Berenice.
E vide sull’acqua l’ultima stella.
Ma una nuvola scura
formò un’isola d’ombra su quel mare assolato…
grandi uccelli senza fissa dimora
a stormi raggiunsero l’isola e la fanciulla.
Quattro delfini d’argento formarono
quattro cerchi di spuma sull’acqua
per farla danzare, ma gli uccelli feroci
dilaniarono la sventurata
non per divorarla, per difendere il territorio,
quell’ombra che invece era solo un’ombra.
Giravano intanto le pale dell’antico mulino
in una città dell’Europa centrale
e l’acqua scorreva lontano con rumore di pianto
mentre gli uccelli volavano via senza più memoria.
Ma nessuno ascoltava, nessuno sapeva
di quel dolore perduto nello spazio
infinito, solo il vento.
Amici del vento, poeti:
scrivete di Berenice e delle altre vittime,
scrivete del loro breve inconsapevole esistere
sotto una volta di stelle accecate di luce,
schiave del silenzio, che non sanno gridare
contro la cecità del Fato e dell’uomo.
Perché il mondo è retto da ingranaggi
e gli orologi misurano il tempo
non le ore della vita.
Ma la vita scorre come il Furens
lento e mite di verde a Saint Etienne
come i ricordi che ci dimenticano
se li dimentichiamo.
E la forza dei sogni è solo di chi non dorme
per vigilare sull’ombra dei fiori
e dei passi fugaci sulla sabbia.
Se dorme il mare… sogna Berenice.
E l’orologio segna un tempo diverso.
Tre poesie
di Alejandra Alfaro Alfieri in onore di Alfredo de Palchi
Stagnazione
Dentro il cortile c’è il sole sparso per terra, spento.
Intorno al sole spento volava una farfalla bianca
che circondava il paradiso della sua anima.
Da lontano si vede come se ne vanno l’illusione,
i ricordi della spiaggia
e di come la sabbia invitava ad uscire sempre più verso il mare
per avvicinarsi al cerchio.
Ritroveremo nel vento il lamento
e il dolore nella pioggia del cielo,
di questa vita immatura e mondana
*
L’attesa vestiva i nostri corpi.
Tu stavi in silenzio – le mie dita, la pelle della tua spalla.
Non volevo pensare. Che dovevo separare
la mia illusione dal tuo sguardo obliquo
I minuti si cercavano alla fine della mia partenza.
La sua vita tornava lontano da lei.
Invece, noi ci allontanammo da noi stessi,
non condividevamo lo stesso spazio.
La distanza non era più compresa come una misura geográfica o física,
la distanza non esisteva più.
Gli specchi non smettevano di osservarmi.
La parete era piena di quadri appesi alla rinfusa,
raggruppati secondo la corrente artistica di appartenenza.
Mi ero concentrata su come si scioglievano le mie cuffie
sulla vecchia sedia di legno, ma esse non dicevano nulla,
le canzoni blues si erano stancate di ritornare in scena,
neanche l’attesa mi chiamava.
Solo mi ricordai della volta in cui
mi infilai sotto le coperte.
*
Un circolo vizioso
Questa è la poesia dell’incertezza
l’anima nascosta
di chi porta una tigre silenziosa.
C’e il volto della gioventú nel buio dell’universo.
Tra le ginocchia l’attesa resta in sospeso.
Dall’altro lato il tempo si scioglie
dietro al paradiso, un riflesso nello specchio traguarda.
Sotto al letto, a bassa voce, una tigre
mi segnala l’ombra che dalla giungla
arriva al vuoto sottofondo. Un circolo vizioso.
Nel deserto soffiavano persi i respiri,
gli strumenti a fiato dell’attimo.
Il fiore di primavera, cosí lo ricordo,
spogliava l’indecenza.
*
Una poesia di Sabino Caronia in onore di Alfredo de Palchi
Anima mia piccina
saltellando nel ballo
e agitando la testa
nel tepore dell’aria
ti sollevi coi piedi
sopra l’erba lucente
che trascorre leggera
una bava di vento.