Cristina Annino Poesie inedite da Le perle di Loch Ness – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
Era alto, oh! aperto a valanghe nei polsi

Cristina Annino – laurea in Lettere e Filosofia- nata Arezzo, vive a Milano.
I969, Non me lo dire non posso crederci, Tèchne, Firenze (ancora con il cognome Fratini)
1977, Ritratto di un amico paziente, Roma, Gabrieli.
1979, Boiter (romanzo) con Forum, Forlì.
1980, Il Cane dei miracoli, editore Bastogi, Foggia.
1984, Nuovi Poeti Italiani n°3, Einaudi, Torino, a cura di Walter Siti.
1987, Madrid, Corpo 10, Milano; libro riedito per le Ed. della Stampa 2009, Varese, 2013.
2002, Gemello carnivoro, I Quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza.
2002, Macrolotto, Canopo Edizioni, Prato.
2008, Casa d’Aquila Levante Editore, Bari.
2009, Magnificat, raccolta antologica di tutta la sua produzione, PuntoaCapo editore.
2012, Chanson Turca, LietoColle editore, Como.
2013, Poco prima di notte, plaquette, Arca felice.
2014, Céline, EDB Edizoni, Milano
2014 Chronic Hearing. Selected Poems 1977-2012, Bilingual Edicion, Celsea, New York
2016, Anatomie in fuga, Donzelli Edizioni, Roma
È in corso di pubblicazione il romanzo Connivenza Amorosa, per le edizioni Grego&Greco.
Da alcuni anni si occupa saltuariamente anche di pittura.

Giorgio Linguaglossa
Certe sere, Carina, rimette il pasto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 La poesia di Cristina Annino «vuole» essere il racconto di un linguaggio nel quale le parole dicano qualcosa di più o di meno e di diverso da quello che avrebbero voluto dire, da quello consegnato ai vocabolari, da quello che si vorrebbe dire agli interlocutori del futuro (già, i posteri!). Il mutamento dei significati delle parole presuppone sempre una dimenticanza del loro primo significato. La poesia moderna più evoluta  si situa in questa zona d’ombra, in questa zona di mezzo, in questo chiaroscuro semantico in cui il significato antico sbiadisce mentre sta per  venire alla luce il nuovo significato. La poesia  è questo significato nuovo che viene alla luce, o meglio, che vorrebbe venire alla luce, ma di frequente non ci riesce perché una forza oscura lo spinge indietro, di lato, lo disperde, lo assottiglia, lo dissolve. La poesia racconta questo mutamento di significato, questo travaglio, questa entropia, e quindi racconta la propria impotenza, la propria incomprensibilità, l’incapacità delle parole a comunicare nient’altro che il comunicabile.

Che significa, per esempio: «Fu ottava al citofono, noia di campanelli», o «bottoni tirati sugli occhi», o «un calore di penne»… sono sintagmi nominali che elencano la propria incomprensibilità incomunicabilità, la propria insignificanza, o meglio, il trasloco del significato da un punto ad un altro, l’incapacità della lingua telematica di oggi a comunicare qualcosa di veramente essenziale, una esperienza significativa. Di qui lo zoppicamento, l’andamento claudicante della dizione della Annino.

La poesia si sviluppa sulla base della consapevolezza della propria caducità, è costretta a fare dei propri limiti il proprio punto di forza.

Credo che bisogna leggere la poesia moderna (e anche il romanzo moderno, per quel poco che se ne scrive di decente) come il racconto stenografico di una intenzione significante. Forse soltanto entro questi termini ha senso fare una critica della poesia oggi: andare a scoprire con lo stetoscopio le intenzioni significanti, gli scacchi, le perdite, le sconfitte delle intenzioni significanti. Già il

linguaggio della critica era impreparato e inidoneo cinquanta anni fa, figurarsi oggi dinanzi alla prolificità e alla moltiplicazione dei linguaggi mediatici. Questa catacresi, che non è volgarmente un «abuso del linguaggio», ma il suo vero motore interno e segreto, quella forza invisibile, quella forza oscura che tende a piegare il linguaggio per adattarlo alle nuove esigenze, questa catacresi, dicevo, non è soltanto una figura retorica ma una categoria, anzi, è la categoria fondamentale che registra il movimento e il sommovimento dei linguaggi.

Nella poesia della Annino, la catacresi si sviluppa sul piano della catena sinonimica più che su quello della catena metaforica, il che unito al discorso interruptus produce quel sintomatico e peculiarissimo movimento lessicale irto di micro fratture semantiche.

Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo scrive:

«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».

Così, avviene in grandissima parte della poesia italiana di oggi e di ieri, che si situa il «privato» in primo piano, ma il «privato» è uno «pseudo-luogo», da esso non può zampillare nemmeno una stilla di «poesia» ma soltanto «chiacchiera» posticcia e insignificante se non viene trattato mediante il «non-privato», se non viene sottoposto alla cura dimagrante delle categorie retoriche. Chiediamoci: quanta poesia del secondo Novecento corrisponde alla «chiacchiera» di cui stiamo discorrendo? Il «privato» è per eccellenza il luogo della menzogna deputata alla ipocrisia del sociale, e non potrebbe essere diversamente. Tuttavia, l’opera d’arte compie un prodigio: converte l’inautenticità del «privato» nella rappresentazione del significativo, dell’autenticamente alienato. E ciò facendo diventa essa stessa inautenticamente «autentica».

Giorgio Linguaglossa
Non li ricordo più fino / in fondo, i nomi scorrono dal rubinetto

Icaro

Un calore di penne,
d’elevazione, lo mette mezzo
corpo nella rosa dei venti e non
staccherebbe per niente
dalla
pelle, la cera. Respira
fermo; poi lo spacca l’idea
che prenderà
i fulmini in mano; e la mente
siede salda sul braccio.

*

Se casco casco va bene. Ma
staranno
le stelle a guardare che mi
alzo fisicamente, io, più
immenso di me.

*

Abbiamo
mietuto nel tempo grano, parole
con pugno di grasso merciaio
raso terra anche amando
o da soli; ma mai lasciato
un minuto, che oltraggio
diventasse pensiero.

L’ebbro Errante

Era alto, oh! aperto a valanghe nei polsi,
forte quanto ginocchia
abbracciate, era
un sogno per materassi. Poi
fu piccino, fuoco
di paglia di damigiane per chi
ci cascò dentro con parole
dolci. Un cerino brillò
negli occhi ed era
folle, sì! Capovolse
le frasi come coltri sgangherate
di colpi. Se le mise
addosso coll’intonaco
di pianoforti, più vapore
delle persiane, ed oltre. Fu
un’altra persona.

*

Giorgio Linguaglossa

Ma lo stesso l’amò, era felice
dove e quando le diceva di farlo. Fu
ottava al citofono, noia
di campanelli, bottoni tirati
sugli occhi. Un essere
ebbro è di più, è lo scalpo
di vivi, non finge non cambia;
con cerniere dei visi
allargate ai ginocchi. Gli chiese
di portarla nella gabbia
davanti, per guardarlo
mentre stringe le curve. Ricuciva
lembi della strada, dritto
sembrava, e agli
orecchi le luci del camion; poi
dietro, a letto, quei salti! Sonno, mai.
Dialetto,
tradotto, vocabolario. E Padre
Nostro le mani! Benedette le preci
di questo mondo, per l’infinitamente poco
che abbaglia. Lo ringraziava
d’essere compari, che battessero
ferro insieme, come due
secchi.

*

Grossa pena fu
alla fine della bobina, la sua
mente accesa poi spenta: il walzer
delle ruote a petrolio
(le annusò), non fecero più
luce
nell’abitacolo, né sfogo.
Ecco, lo vide
cadere pesante e parole
fuori come benzina.

*

Un miracolo
segue l’altro, e parlò male come lui,
bevve come lui, divenne strabica
d’un amore fatto così ed ebbe
in vena la sua emicrania.

Giorgio LinguaglossaCristina Annino

L’amico della volpe

Trecento triste, gli amici!
Spalancano porte nelle ore
che sono in orario. Cattivi né
buoni col fermo del sorriso a metà
e frasi di pallottole
per la caccia; convinti
che parlare sia umano, il silenzio
meno. Fugge ogni senso. Poi
frullando il bicchiere della staffa,
a piombo le scale fino al
mento, ridanno al monaco l’abito
che lo fa. Mai
puntare il mondo su un cavallo solo.

*

Non li ricordo più fino
in fondo, i nomi scorrono dal rubinetto.
Uno solo guizzò tra le sedie colpito
dal fulmine; baloccava le frasi. Era un gioco
col tele comando, magari finzione; però
zitto fissava il piancito come fa
l’ universo cavo. Quasi uno sparo
gli salisse le scale interne sopra
il menisco. Svaniva piano
la sua faccia a velo nel sibilo delle mani
su un corno. Avvisò
la volpe dei cani, forse, scacciando
morte da quelle frasi, perché
poi si torse così, di fronte: è troppa
carne per il mio spirito!

*

Uova da gabbia

Nel calvario invisibile dell’alba,
l’Ammiraglio guarda l’albero, taglia
schegge, non pensa
bene, né parla, niente. Fuma il legno, e
mette ghette sempre
pipando, bolina le vele. Un’afflizione
lo stende in sé come fosse
due barche.

*

Certe sere, Carina, rimette il pasto;
baratta di nuovo
per lenticchie il suo spirito
enorme. (Mal di mare per chi ci crede, pulisce
memorie, lucida il ponte e altre
paturnie da bere)

*

Ma ancora stanno insieme, forse
per le mute frattaglie amorose e
l’unto di cucinare, le menti
diverse. In fondo ogni cretino sa
mettere la mano dove deve!

*

Giorgio Linguaglossa
Una sul bidè, l’altra per le/ carezze. Quell’amore la tira/ in giù sulle gambe

, sa di
crosta terrestre, uso territoriale
ed esproprio; tutt’insieme. Lei
dopo,
vorrebbe parole. Dio, questa umanità!

*

Amore che trabocca senza
coperchio, duro da lasciare, cuoce,
ribolle, s’attacca alla
padella, anche scempio
non stanca, strofina il dito fino
in gola, poi casca tutto
pesce del cervello. Salato per salato, purché
il mare tenga… se ogni servitù
è futuro di padronanza… La consola
l’albero tenorile sedendole in grembo.

*

Le perle di Loch Ness

Storia complessa, sa
di frodo; ma il creato in lui fece
nido, nell’incredibile
credo del mondo ragazzo. Nuota
ad aquila, torna su, senza gabbia, poi
dice: Ognuno di noi, per dio! siamo geni.
Ma senza memoria
così, alla fine lo Spazio
cancella. Scrollandosi
acqua dalle narici. Fuori dalla
coscienza, finirete sul molo di Nessuno.
Grande serva,
è la tecnica! Il padrone
chi è? In apnea rivà
giù, fermi tutti sul caso di quanto
offenda.

*

Se cavi o no la perla di tasca.
Sembra
cialtrone, fuso com’è col cosmo: il sole
splende ma sente
tremare la terra. (Povero in canna, marito
ideale; chi lo capisce? scopiazzati
tutti, lui vero.) Ci sono storie così
solenni sotto il cielo che solo
le bestie sanno, coi fari. Lui a pelo
d’acqua spalanca Rodine, illumina
branchie con lampo radente, poi
siede al fondo. Dio salvi
l’anima ai pesci, canta come si
sente, che in voi la salute ha spento
il pensiero!

Giaculatoria

In ospedali senza elicottero né
ali; tutti spariti, tutti senza corrente,
remissivi, folli, che ognuno
porta acqua alla propria fonte.
Ti levano
dal letto, lo rifanno e rificcano lì.
Aspettando io in piedi nelle
fredde stature di me, senza più
fogli di sigarette, canne al vento
né radio; un siluro di gas invade
l’impiantito del mio cane dentro.
Dove
dormirò, stanotte a manciate
con i fagotti, crollando nella tromba
del muro di scale, e la metratura
enorme di Dog; il suo pelo indice
di patimento per me!

Colosseo

Una gran voglia
di disubbidire; in sogno
ce l’ha nella carne, massa
di spirito voglio dire. Battendo
quel fracasso, quel ben di dio, quel marrone
cuoio. Folgorazione
d’ un quadro (sempre
libri di mezzo; mezzo scaffale
pesa quanto
un morto medio, un’età, l’essenza
morale di un uomo).

*

Senza fine si uccide. Anche dormendo sente
metà corpo di uno, già via dal torace pensieri,
immagini sacre. In due parti sempre si divide un
uomo: frasario vero quel viso che ancora parla
semivivo per terra, poi cede. “Così fanno ai cavalli!”
grida in sonno: “Crollo di macelli! quegli
occhi che fissano i cristiani!” Ma nessuno c’è,
ché raccatta una cicca e si fuma le dita.

*

 Dormendo, certo, la sete
dei colletti bagna il cortile, coi vegetali
libri che battono le mani
come al circo: stessi verbi, vocali, scioccherie,
e sorriso di lingue sopra i coni. Allora scende
e risale: Colosseo! urla alle scale, tanto per
dare in viso la colpa della specie.

*

Giorgio Linguaglossa
Si gira e prende i nei con la mano, poi il braccio / destro come fosse suo

Si gira e prende i nei con la mano, poi il braccio
destro come fosse suo; scala il letto strafuso
nel colletto di luce. E’ in piedi. Ma quei
sogni lo spezzano lì, lo crollano a colpi di
cristiani; falsi davanti dietro come farisei.

*

Bernini impura beatitudine

Quell’anima che sta sopra e rapina
di brutto, quel sasso caduto in corpo
più della neve che inclina
velocemente la schiena, tutto asfalto
insieme, poi
ponte di godimento. Quel solitario
atto, quell’abside di traverso sopra
tele di marmo, ovunque sia
il desiderio. E’ cieco
piacere misericordioso fraterno,
non odora di niente, di vene forse
immense come una pala di chiese
con rapimenti unici e anche
preghiere nelle dita scosse per
conto loro.

Incontro al buio

Non sono nato ieri, perdio! Lei
si sbuccia cadendo
sull’impiantito. Lei rossastra
cambia odore; gira
qualcosa di sinistro, destro,
ondoso, di sudaticcio. Farò
sul divano un
capolavoro, lo sento, persino
il legno si spezza; e mi stendo
com’ un bucato di lino. Il lavoro
è in corso; capirai!
Che è
il NON vero?” grido; ma
la fabbrica s’apre e infilo
il corpo sedendomi
sulla brace, poi l’insetto
divora l’orto.
Io faccio
l’amore da cieco, io spengo
la lampadina e cammino; ho
marciato fin qui. Col tatto
solo. Il mondo atroce girando
l’onnivoro
collo nostro. Ecco, con
stupore lei sta per
essere quel che è, la pelle non
ubbidisce alle mani, le va
di traverso il pollo di Freud. DIO!!!
grazie
per tutto quello che non ci dai.

Morti amanti 

Sono
lontane le cene delle nostre
carezze. Ora io vedo lei
correndo che salta
sul lampadario, neanche
mi sente se grido“incendio!”.
Casca
poi senza farsi male.
Mi uccide un ciclone così
senza vento, il niente
della bilancia, che in due non
facciamo un grammo di
sale. Nessuna
voce rompe questa barbarie.

*

Consegnò il foglio
al conducente che non
lo vide nemmeno. Poi
scese, forse. Poi risero
insieme quando si lesse
che lui crollò. Gran
povertà terrestre! il bus se
la filava e i claxon fumandogli
dietro. Esagerata
estate … Che allora il Vento
spaccò il vetro davanti e
piovve; scrosciò dentro
una pezza di cielo, un cencio,
un asciugamano e quell’Astro
freddo, saltato fin lì dal
lampadario, fu un enorme
incendio di Voce. Poi
sparì. Tutto si ricompose: ai morti
almeno si dia un alibi!

Giorgio Linguaglossa
Beve una tazza di tè, pensa / a quando non amò mai,
non ne 
era capace

L’erba voglio del re nudo I

Beve una tazza di tè, pensa
a quando non amò mai, non ne
era capace; nessuna qualità tale
da mettersi sullo spiedo. Così
passa di frasca in frasca e vede
fuori il mondo fatale, sono
pronto, dice, a friggermi sul palo. Ora
voglio! Gran Verbo regale,
ghigliottinato, giardino
del re nudo! Gli esplode tra
le gote e la testa fa pluf.

*

Scende così col suo spiedo, l’asfalto
colpisce un rene, uno no. Poi sente
gracidare le rane; allora
salta il fosso, il bene, poi il male, poi
avanti sarà solo carne. Lei gli
ricala in corpo come il fiato
d’un cane, conta gli ossi e la carne, lo
stira al vapore, l’ingoia, poi
risale infedele all’aperto dalla
cruna dei polsi. Si lava le mani. Neanche
un saluto, non sa che farne. Lo rimanda
a Pilato.

La prospettiva è inversa

II

A casa, il desiderio
dilagò: lì dentro
la musica ebbe un tango
diverso. Gli s’ aprì il
corpo nelle stanze come
acqua corrente e la mente
galleggiava su, un
sacchetto gonfio: prendiamo
le cose per quelle che sono… Non
capiva niente; allora corse
in bagno com’avesse
bevuto piombo.

*

Con immisurabile
pietà appoggiò una
spalla al muro; arrancava
in salita per un
sentimento! Certo. Ma
in effetti non c’è più
tempo per la narrativa, scrittura, misura
acustico visiva della carne. L’uomo perde
identità, senza
moltiplicazione dei piani, bisogna
starci dentro insieme: i caroselli per
esempio, li vedi? dice lo stuoino
alla porta, l’aria persino
gli morde la nuca. Ma lui
niente… risente in corpo
il fiato di lei, come colpo
ai reni. ( Ballando le scarpe coi
ferretti nelle stanze del Grande
Credo. )