(Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne – Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.)
Gino Rago è nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). È membro della redazione dell’Ombra delle Parole. Email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
(ricordando il 16 ottobre 1943 al Ghetto di Roma)
16 ottobre 1943. Al Ghetto si scatena la caccia agli Ebrei.
1024 anime nella catastrofe. Senza strepiti. Senza perché.
In tanti non trovano il tempo neanche di cominciare a vivere.
Tornano in sedici dall’inferno dei forni.
15 uomini e una donna soltanto. E non parlano.
Tacciono per anni. Preferiscono guardare il Tevere.
Non odono da tempo voci umane.
Risentono cani che abbaiano. Soltanto cani. Nelle divise.
Dentro le svastiche. Negli stivali sempre luccicanti.
Non dimenticano i fili di fumo che tagliano il cielo.
(…)
I migliori colori (Lefranc. Oxford. Taalens. Schminke).
I ritratti. I paesaggi. Le nature morte.
Le tele di lino del Belgio alle pareti sono ricordi sbiaditi.
Un mondo muore quel giorno con loro.
Lasciano in eredità non oggetti senza vita ma cose.
Le cose dell’io frantumato. La coscienza calpestata.
La memoria umiliata. L’identità derisa.
La spoliazione. La musica forzata sulla fossa.
Lo strazio delle separazioni. La babele di lingue.
(…)
Lasciano alla ruggine dei fili spinati con la corrente brandelli di carne.
Numeri tatuati. Bandoni corrosi. Sabbie quarzifere. Carta pesta.
Segatura impastata con colla di pesce. Stoppa. Smalti. Vernici.
Lenzuoli sovrapposti. Federe incollate.
Stoffe di tappeti. Sacchi. Cortecce. Reti di metallo.
I cenci cuciti alle intelaiature della Storia.
(…)
I materiali poveri della disperazione. Il disastro di un popolo
disastrosamente ingenuo di fronte ai fatti grandi.
Riparte da qui la Poesia. Da nuove parole di resti di stoffa.
Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue.
Su queste parole-cenci già piovono i fiori dai ciliegi.
(Questi versi di scampoli e stracci sono i grumi di quel sangue)
Rossana Levati
I cenci cuciti alle intelaiature della Storia
Caro Gino,
come potrebbe non piacermi la tua poesia? Ti ringrazio ancora tanto di avermela mandata e di esserti fidato del mio giudizio.
La tua poesia ha la “densità” e lo “spessore” che hanno solo le grandi, le vere poesie, quelle che trasmettono subito al lettore un messaggio al tempo stesso etico ed estetico.
Ti allego il mio giudizio, ben poca cosa rispetto alla densità dei tuoi versi. Sono certa che chiunque la legga, come accade ai grandi testi, potrà trovarvi nuovi livelli di interpretazione e cogliere significati ed espressioni che a me magari sono sfuggiti:
Riflessioni di Rossana Levati sulla poesia “16 ottobre 1943” di Gino Rago
Non ho mai apprezzato le opere d’arte (poesie, film) con simboli troppo esibiti e troppo evidenti: ricordo di aver sempre trovato insoddisfacente un film assai famoso alcuni anni fa e dedicato alla questione ebraica: "Schindler’s list", tutto in bianco/nero tranne un solo particolare, il cappottino colorato di rosso di una bambina ebrea deportata e poi finita in un mucchio di vittime: mi urtava quel particolare così esibito, così sfrontato e prevedibile.
A mio giudizio, le grandi opere d’arte, come le grandi poesie, devono conservare un tratto distintivo e peculiare: la sobrietà e la misura. Questa poesia possiede in modo esemplare queste qualità, insieme alla capacità di cogliere i dettagli, i particolari, densi di significato e di per sé soli proposti alla comprensione e decodificazione del lettore.
Quello che più mi colpisce, nel quadro funesto che il poeta traccia, sono nella prima strofa i suoni: suoni deformati nel ricordo dei sopravvissuti ai forni, suoni non-umani in un mondo che da quella data non è più umano per loro. Nelle loro orecchie soltanto “cani”, “cani che abbaiano”, sostituto metaforico degli aguzzini: al tempo stesso i “cani” evocano i messi infernali, il Cerbero dantesco, il clima da “tregenda” e da “sozzo trescone”, come nella “Primavera hitleriana” e come quei funesti “stivali luccicanti” sembrano indicare.
Persone-cose che perdono dietro di sé la loro natura umana, alle quali non è consentito conservare nulla del proprio io, arredi domestici, identità, affetti. E’ la babele delle lingue che ci ricorda che da quel momento non solo è morto un mondo insieme a loro, ma gli esseri umani hanno perduto, forse per sempre, il linguaggio di Dio. Il linguaggio unico e assoluto, non più rintracciabile nella Babele delle nostre vite, nella violenza del quotidiano. Ma angosciosamente ci chiediamo se sapremo cogliere l’ eredità che ci hanno lasciato i sopravvissuti: non “oggetti senza vita” depositati in qualche luogo ma “cose”- tracce conclusive di una vita a metà: l’identità derisa, la coscienza calpestata, la memoria umiliata.
Poi c’è la grandiosa poesia-elenco della terza strofa: l’elenco di nuovi peccati, imprevisti nei dieci comandamenti, l’elenco delle nefandezze di una specie umana arrogante e perversa. L’elenco culmina con quel verso evocativo e indefinito al tempo stesso: “I cenci cuciti alle intelaiature della Storia”. Frammenti senza senso ma depositari, un tempo, di un senso: quei “numeri tatuati” erano persone, quei “cenci” erano vita. Gli smalti, le vernici, i tappeti, i lenzuoli, i sacchi: tutti oggetti di un quotidiano spezzato, resi irriconoscibili nelle loro funzioni, cose appunto senza più senso.
Purtroppo di Dio in quei momenti non si è più intravista nemmeno la suola delle scarpe. E questa angoscia del silenzio di Dio nella terribile gravità della storia può lasciare sbigottiti gli uomini comuni; è il poeta che tuttavia sa che da lì bisogna ripartire in qualche modo. E se Quasimodo si chiedeva perplesso: “Come potevamo noi cantare?” Gino Rago sa che la poesia deve far tornare i conti che non quadrano, ripartire dai “grumi di quel sangue”, magari accennare un canto a voce più bassa, un canto rappezzato e cucito con i brandelli di quel dolore. Forse è in quel momento che è iniziata la ”artrite” che deforma il nostro tempo. Il poeta non può che ereditare i cenci di quel mondo fatto a brandelli e trasformarli nella sua arte, nelle sue parole. Parole-cenci, le uniche a nostra disposizione. Ma i fiori dei ciliegi che piovono su queste parole sono ancora un emblema di vita e di speranza: solo così la pesantezza delle immagini, con uno scarto d’ala imprevisto, ritrova nel finale la leggerezza che solo la poesia sa dare al mondo.
(Liceo Classico “V. Alfieri- Asti, 24 settembre 2017)
(la sopravvissuta di Theresienstadt amò parole che non riuscì a dire)
Caro Gino Rago,
penso che quando di una cultura letteraria non restano che stracci e cenci, allora vuol dire che quella cultura è definitivamente tramontata, che è degna di entrare nella dimenticanza. E allora ad un poeta non resta nient’altro da fare che ripartire da quegli stracci, rammendare, ricucire quei poveri cenci che rimangono, quegli stracci, per confezionarsi un abito, magari un cappotto per il grande freddo che verrà. Ma l’inverno è già qui, tra di noi, in noi. Già avvertiamo il freddo dentro di noi. Adesso lo sappiamo: «parlare è mancare», che significa che soltanto con la parola poetica possiamo accedere a quella «mancanza» che è l’abitazione più propria del linguaggio poetico. In fin dei conti, la parola abita la «mancanza», rende manifesto il «vuoto» che riempie il linguaggio…
(Giorgio Linguaglossa)
(fino al 7 del mese di maggio del ’45 sono stata meno di un’ombra. Sono stata senza Parole. Vissi nell’Ombra delle Parole )
Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt
Caro Signor K e, per conoscenza,
cari signori Rago, Linguaglossa, Cardelli, Tosi, Gabriele.
Cara Signora Schubert e, per conoscenza,
care Signore Ventura, Dzieduszycka e Giancaspero,
Dono, Mellace, Colonna e Levati, Catapano e Leone.
Vi scrivo dal confine svizzero. Fra Como e Lugano.
Da questo posto non mi sono più allontanata.
Qui ho lasciato l’anima.
Qui sono stata tradita dai “passatori”. Qui mi hanno arrestata.
Il 1° maggio 1944.
Liberata a Theresienstadt nel 1945.
Era di maggio. Per tutti fui la “sopravvissuta”.
La “scampata” al fumo dai forni.
Da Fossoli ad Auschwitz fino all’ultimo campo
fino al 7 del mese di maggio del ’45 sono stata meno di un’ombra.
Sono stata senza Parole. Vissi nell’Ombra delle Parole.
Vissi di Parole che non facevano ombra.
Perché mi rivolgo a Voi? Perché volete ridare la carne a nuove Parole.
Perché nuove saranno le parole che ripartono
da ciò che l’Armata Rossa trovò nei vagoni e nei magazzini
la mattina del 24 gennaio dell’anno 1945.
840.000 capi di abbigliamento femminile. 44.000 paia di scarpe.
400 arti artificiali. 7 tonnellate di capelli rasati ( compresi i miei ).
Montagne di occhiali. Denti. Spazzolini. Giocattoli.
Cenci di pigiami a strisce con la stella gialla nel fango…
(…)
Caro Signor K, cari Signori Rago e Linguaglossa, Cardelli, Tosi e Gabriele.
Cara Signora Schubert, care Signore Ventura,
Dzieduszycka e Giancaspero, Dono, Mellace, Colonna e Levati,
Catapano e Leone,
la sopravvissuta di Theresienstadt amò parole che non riuscì a dire.
Ditele voi per me. Pronunciatele voi. Nella nuova poesia.
Parole di quei cenci nel fango di pigiami con la stella gialla.
Versi nuovi da quegli stracci che ospitarono uomini.
(Che un tempo furono anch’essi uomini vivi).
Da quel confine svizzero la Storia non mi ha mai allontanata.