Giorgio Linguaglossa: Lettura comparata di due poesie di Gian Mario Villalta e di Petr Král dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» - Commenti di Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Gino Rago

Faccio seguito all'intervento di Carlo Livia che ha posto nel giusto binario la nostra discussione. Che Petr Král appartenga al secondo o al terzo surrealismo praghese, è una questione storico filologica che a noi, qui, interessa fino a un certo punto. Quello che a noi interessa è la percezione, il concetto e la procedura della poesia che Král persegue e consegue con la sua opera poetica. Quello che a me appare maggiormente interessante è la portata rivoluzionaria della poesia Králiana, rivoluzionaria almeno per noi lettori italiani abituati alla lettura della poesia italiana di questi ultimi decenni.

È ovvio che, dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni la poesia di Král riesca di problematica identificazione, quasi incomprensibile. Invece, dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» la poesia Králiana diventa pienamente intelligibile. Com'è possibile, come può essere avvenuto questo fenomeno? La risposta a questo interrogativo è già in nuce nelle riflessioni di Gino Rago, di Carlo Livia, negli appunti di Donatella Costantina Giancaspero e, credo, anche nel mio commento. Quello che noi stiamo dicendo e facendo da tempo è dire che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre, innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi non è una categoria retorica ma concerne il modo stesso con il quale si concepisce l'essenza e la funzione del linguaggio poetico): il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Negli autori della «nuova ontologia estetica» non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l'«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell'ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta di nuovo.

Faccio un esempio di un tipo di poesia tipicamente italiana nella quale le parole «vedono» da vicino l'oggetto del «reale» in modo riconoscibile e condiviso. Prendo in esame un autore italiano molto noto, Gian Mario Villalta, da Telepatia (LietoColle, 2016). Leggiamo:

Dove scola l'acqua nera tra i cocci di tegole

e i ciuffi di sorgo matto invadono le soglie

sotto i festoni di viticciòli, nell'ombra del vischio annidato sui pioppi,

una vita nuova d'insetti, di infime vittime e di minuscoli assassini feroci,

in agguato perenne tra i tubi, nei crolli dei muri, nelle canalette

interrate, ha conquistato il regno della ruggine.

 

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte

nella lotta col frigorifero, l'inferno tiepido delle bollette

e delle mollette per stendere, altrove noi siamo inerti

e violenti a parole, con il termo a 21, la paura di perdere

la cena fuori di sabato, e qualcosa di moda, anche poco, o l'amicizia

con un nickname, abbiamo paura, soprattutto, per la sicurezza.

 

Nel regno della ruggine c'è un edificio riattato

oggi vuoto di uomini soli, gentili per forza

quando arrivava il cibo.

Di loro neppure più il sorriso, di chi nel sonno stringe

il nostro paradiso.

 

Qui il discorso poetico è immediatamente «riconoscibile», non c'è alcuna «ridondanza», non ci sono procedure di entanglement, catene sinonimiche, metafore, non ci sono deviazioni, deragliamenti, salti temporali e spaziali, insomma, ci muoviamo in un tipico concetto di poesia come adesione della «parola» al «reale riconoscibile».

Leggiamo invece una poesia di Petr Král:

 

Sono qui

Quando dietro la silhouette maturata del passante

avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.

(da Massiccio e crepacci, 2004)

 

Giorgio Linguaglossa: Lettura comparata di due poesie di Gian Mario Villalta e di Petr Král dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» – Commenti di Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Gino Rago

Giorgio Linguaglossa

 

(Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte / nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette / e delle mollette per stendere) G.M. Villalta

*

Faccio seguito all’intervento di Carlo Livia che ha posto nel giusto binario la nostra discussione. Che Petr Král appartenga al secondo o al terzo surrealismo praghese, è una questione storico filologica che a noi, qui, interessa fino a un certo punto. Quello che a noi interessa è la percezione, il concetto e la procedura della poesia che Král persegue e consegue con la sua opera poetica. Quello che a me appare maggiormente interessante è la portata rivoluzionaria della poesia Králiana, rivoluzionaria almeno per noi lettori italiani abituati alla lettura della poesia italiana di questi ultimi decenni.

È ovvio che, dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni la poesia di Král riesca di problematica identificazione, quasi incomprensibile. Invece, dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» la poesia Králiana diventa pienamente intelligibile. Com’è possibile, come può essere avvenuto questo fenomeno? La risposta a questo interrogativo è già in nuce nelle riflessioni di Gino Rago, di Carlo Livia, negli appunti di Donatella Costantina Giancaspero e, credo, anche nel mio commento. Quello che noi stiamo dicendo e facendo da tempo è dire che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre, innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi non è una categoria retorica ma concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico): il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Negli autori della «nuova ontologia estetica» non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta di nuovo.

Faccio un esempio di un tipo di poesia tipicamente italiana nella quale le parole «vedono» da vicino l’oggetto del «reale» in modo riconoscibile e condiviso. Prendo in esame un autore italiano molto noto, Gian Mario Villalta, da Telepatia (LietoColle, 2016). Leggiamo:

Giorgio Linguaglossa

Dove scola l’acqua nera tra i cocci di tegole
e i ciuffi di sorgo matto invadono le soglie
sotto i festoni di viticciòli, nell’ombra del vischio annidato sui pioppi,
una vita nuova d’insetti, di infime vittime e di minuscoli assassini feroci,
in agguato perenne tra i tubi, nei crolli dei muri, nelle canalette
interrate, ha conquistato il regno della ruggine.

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte
nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette
e delle mollette per stendere, altrove noi siamo inerti
e violenti a parole, con il termo a 21, la paura di perdere
la cena fuori di sabato, e qualcosa di moda, anche poco, o l’amicizia
con un nickname, abbiamo paura, soprattutto, per la sicurezza.

Nel regno della ruggine c’è un edificio riattato
oggi vuoto di uomini soli, gentili per forza
quando arrivava il cibo.
Di loro neppure più il sorriso, di chi nel sonno stringe
il nostro paradiso.

Qui il discorso poetico è immediatamente «riconoscibile», non c’è alcuna «ridondanza», non ci sono procedure di entanglement, catene sinonimiche, metafore, non ci sono deviazioni, deragliamenti, salti temporali e spaziali, insomma, ci muoviamo in un tipico concetto di poesia come adesione della «parola» al «reale riconoscibile».
Leggiamo invece una poesia di Petr Král:

Giorgio Linguaglossa

Sono qui
Quando dietro la silhouette maturata del passante
avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.

(da Massiccio e crepacci, 2004)

Giorgio Linguaglossa

(le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre / sparse leggere lungo la riva / tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie…) Petr  Král

Dalla poesia di Gian Mario Villalta si evince che il linguaggio impiegato è pensato in quanto funzionale alla «riconoscibilità mimetica» del «reale». Nella poesia di Petr Král no, il linguaggio impiegato viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale.

È ovvio che la «nuova ontologia estetica» guardi con molto interesse alla poesia di Petr  Král piuttosto che a quella di Gian Mario Villalta, ma non per partito presto, quanto perché nella poesia kraliana c’è un modo di intendere il «reale» in una accezione non più «mimetica» come è stato in auge nella tradizione poetica italiana maggioritaria di questi ultimi decenni, ma in una accezione diversa,  più complessa e problematica.

Mi fermo qui.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Scrive Lacan: «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.

È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]

Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.

Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]

Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.

Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

1 J. Lacan Ecrits, 1966,Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

19 ottobre 2017 alle 12:08

Petr Kral è senza dubbio uno dei maggiori poeti europei, più lo leggo e più me ne convinco. Certo, la sua poesia è lontanissima dalle corde foniche della poesia italiana di questi ultimi decenni, ma questo dimostra semmai il valore della poesia di Kral, non altro… del resto, ricordo che il poeta praghese in una sua noticina avverte il lettore italiano che si troverà davanti una poesia dissimile, molto, da quella a cui è stato abituato… Innanzitutto, la ricchezza fenomenica della poesia di Kral è tale perché sta in equilibrio instabilissimo tra la verosimiglianza e l’inverosimile, certi accorgimenti retorici come la sineciosi e la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi, le deviazioni, l’entanglement sono gli elementi base sui quali si basa la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi che il surrealismo presta ai suoi seguaci fautori, ma un surrealismo innervato nella storia e nella lingua dell’autore ceco. Oggi, probabilmente, non si può scrivere, in Europa, una poesia veramente moderna, senza in qualche modo fare riferimento al retaggio del surrealismo. Il surrealismo è l’allontanamento consapevole del referente e dal referente. In Italia, nella tradizione poetica di questi ultimi decenni (con l’ottima eccezione della poesia di Ripellino e di Maria Rosaria Madonna, a parte ovviamente gli autori della nuova ontologia estetica), non c’è davvero molto del surrealismo, siamo ancora invischiati e raffreddati dentro un concetto di verosimiglianza con il «reale» che ha finito per impoverire la gamma espressiva della poesia italiana.

Che altro dire? Un ringraziamento ad Antonio Parente per aver reso in mirabile italiano la poesia di questo ostico poeta e un ringraziamento all’editore Mimesis Hebenon e alla curatela di Roberto Bertoldo che con queste pubblicazioni fornisce una sponda importantissima a quanto andiamo scrivendo intorno alla nuova poesia europea.

Il segreto è in quel concetto di «continuamente presente» di cui parla Kral, una poesia che non contempla la «memoria» che, al pari della «musica», è incoglibile se non come assolutamente presente, unicamente presente. «Presente» come manifestazione paradossale dell’Assoluto, assoluto contro-senso, assoluto paradosso, assoluta incoglibilità del paradosso. Quel «presente» che rimane sempre incoglibile. Alla luce di questa impostazione kraliana, tutti i presenti si equivalgono, tutti sono compossibili e tutti assurdi, assoluti e, quindi, inconsistenti, incoglibili se non attraverso esso «presente». È questo il fulcro della concezione della vita e dell’arte di Petr Kral. Ed è questa, senza ombra di dubbio, la linea di ricerca della «nuova ontologia estetica».

Giorgio Linguaglossa

Donatella Costantina Giancaspero

19 ottobre 2017 alle 13:56

Di Petr Král, a parte le poesie, che apprezzo sempre di più a ogni rilettura, mi ha colpito in modo particolare questo scritto sulla musica, “Appiè di fanfara”. A mio parere, le riflessioni di Král esprimono l’essenza profonda della musica, ad esempio là dove si evidenzia la sua assoluta “veridicità” nel relazionarsi con l’ascoltatore. Per questa caratteristica fondamentale, “Di tutti i mezzi espressivi – egli scrive -, la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno”. In sostanza, il poeta riconosce alla musica quel primato su tutte le altre arti che già molti scrittori e filosofi avevano sottolineato. Ad esempio, Arthur Schopenhauer. Per il filosofo, la musica è l’unica tra le arti che va oltre la materia: non esprime semplicemente un’idea, ma è l’essenza stessa del pensiero, come si legge nella sua opera più famosa, Il mondo come volontà e rappresentazione.

«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse piú: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettività: perciò l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza.(…) [La musica] esprime, con un linguaggio universalissimo, l’intima essenza, l’in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l’esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient’altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell’essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe cosí la vera filosofia.»

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Donatella Costantina Giancaspero

29 ottobre 2017 alle 10.52

Il discorso di Giorgio Linguaglossa è molto chiaro. Qui non si tratta di esprimere una valutazione di ordine estetico su due differenti modelli di poesia (quello di Gian Mario Villalta e quello di Petr Král), ma di comprendere il motivo della loro diversità, in primo luogo analizzando l’uso che ciascuno fa del linguaggio. Il riferimento a Lacan è quanto mai chiarificatore.

Donatella Costantina Giancaspero

20 ottobre 2017 alle 12:07

E, in merito alle differenze,

sappiamo che Petr Král era del tutto consapevole della distanza che divide la propria poesia da quella italiana. Lo dichiara esplicitamente nella nota introduttiva all’antologia Tutto sul crepuscolo:

«Di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana; nonostante il mio amore per l’Italia (e le poesie di questa raccolta che vi si sono ispirate direttamente) provengo da altri luoghi, da altri orizzonti, e non tutto quello che offro può risultare allettante ed eloquente per il lettore italiano. Perciò è anche possibile che vi sia uno scontro tra le mie e le sue abitudini e preferenze; laddove nella poesia italiana prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui, possono anche suscitare un minimo di disturbo. Tuttavia, voglio credere che nemmeno in questo caso il mio confronto con il lettore italiano sia vano, e che ne risulti almeno qualcosa di benefico per entrambe le parti».

Petr Král ci avverte anche che, per questa antologia tradotta in italiano (da Antonio Parente), ha selezionato in primo luogo le poesie ispirate all’Italia. Evidentemente, volendo così omaggiare il nostro Paese. Ma, come puntualizza nella sua nota:

«Ogni selezione di testi dal corpo poetico di un autore è necessariamente una semplificazione, mette in risalto alcuni aspetti dell’opera, e ne esclude altri che ne costituiscono un supplemento di precisazione e arricchimento – o persino un contrappeso necessario. Ciò è vero anche quando – come nel caso di questo volume – la scelta è opera dell’autore. Nemmeno lui – fortunatamente – sa tutto della sua opera, può anch’egli trascurare aspetti importanti così come sottolinearne in maniera un po’ eccessiva (ossessiva) altri. Io stesso mi sono accorto soltanto dopo aver selezionato i testi che queste poesie in maggior parte “hanno luogo” fuori, all’aria aperta, e soltanto a tratti mettono in relazione questa loro estensione con lo spazio interno. Può darsi che questa scelta sia derivata – senza esserne stato precedentemente consapevole – proprio dalla mia idea dell’Italia come di uno spazio ideale per la libertà umana; ad ogni modo, non ho cambiato nulla della mia scelta, nella speranza che sarà il tempo stesso a rivelarne il suo significato nascosto».

Ogni selezione – dice Král – è una semplificazione. Perciò, credo che non possiamo conoscere in pieno l’autore ceco dalle poche poesie tradotte qui e altrove. Dovremmo poter leggere almeno due o tre opere intere… Insomma, vorremmo saperne di più, vorremmo conoscere meglio questo poeta, accolto con tanto interesse e, direi, entusiasmo, dalla «nuova ontologia estetica».

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Carlo Livia

19 ottobre 2017 alle 18:48

Come ho già scritto,

personalmente considero il surrealismo una dimensione spirituale ed espressiva eterna ed universale, a cui Breton e compagni hanno tentato di attribuire presupposti scientifici e valenze politiche, auspicando una liberazione e mutazione antropologica ricomponendo la frattura fra conscio e inconscio indagata da Freud. In realtà istanze e icone preconsce o oniriche strutturano da sempre tutte le mitologie religiose e popolari, ogni cultura tenta di tradurle in sintagmi già accreditati. L’ipoteca più ardua è posta dalla definizione di scrittura automatica proposta da Breton: ”espressione del reale funzionamento del pensiero emancipata dal dominio della ragione, da ogni norma letteraria, etica, estetica, ecc…” Ma cos’è il pensiero libero dalle leggi razionali? Emozione che tenta di creare un proprio codice metamorfico, segreto, sommerso, infrangendo nessi e relazioni convenzionali, da cui l ‘infinita messe di metafore composte di elementi semanticamente incompatibili ma segretamente corrispondenti, che compone l’opera di tutti i post-surrealisti dove il verbo dei francesi ha dilagato, con poche eccezioni, fra cui l’Italia, dove fu neutralizzato da futurismo e fascismo, almeno fino alle neo-avanguardie.

Ritengo che il vero inventore fu Rimbaud, che per primo osò infrangere l’unica sacralità sopravvissuta al furore iconoclasta di Baudelaire, l’armonia e lo splendore della forma metrica, la cui pregnanza emozionale viene fatta penetrare all’interno della lingua metricamente decomposta, in una indefinibile, inafferrabile corrispondenza fra elementi subliminali, incongrui e forzatamente fusi con effetti onirici e visionari. Valutarne la risultanza estetica è quanto mai difficile, non solo perché mancano codici assiologici affermati, ma anche perché ognuno deve decodificarli secondo norme assolutamente inconsce e irrazionali, traducendone la musica, ”algebra dell’anima” (Leibniz).

Per quanto riguarda i testi qui proposti, trovo piuttosto significativi i primi due, in seguito mi sembra che la suggestione delle metafore si sfaldi e attenui, lo scenario si depotenzi di mistero, magia, incanto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Gino Rago

19 ottobre 2017 alle 19.17

“Se la trasparenza dell’intelligibilità fosse assicurata, distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire, che non deborda il presente, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e di incomprensione è anche una riserva e una possibilità eccessiva – una possibilità per l’eccesso di avere un avvenire, e di conseguenza di generare nuovi contesti. Se tutti possono capire subito quello che voglio dire, non ho creato alcun contesto, ho meccanicamente risposto all’attesa, ed è tutto lì, anche se la gente applaude, e magari legge con piacere; poi, chiude il libro, ed è finita.”1]

1] Jacques Derrida, Il gusto del segreto