la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico, una direzione di ricerca
Gino Rago
20 agosto 2017
Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione), sensa dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica) se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico. e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti…
Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi”
di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatta appariva a quella contemporanea…
Temo che la “critica letteraria” abbia lo stesso problema oggi di fronte alla nuova poesia… È come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela”
d’un Lucio Fontana….
Giorgio Linguaglossa
caro Gino,
hai colto il punto centrale: la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico. Non è facile costruirsi un nuovo linguaggio critico, ma penso che esso dovrà essere fatto con gli stessi materiali con cui è stata fatta la nuova poesia. la poesia della nuova ontologia estetica richiede il nuovo linguaggio critico, ma non è cosa facile né automatica, e forse un nuovo linguaggio critico non vedrà mai la luce perché non è nell’interesse dei grandi gruppi editoriali e istituzionali favorire e avallare un nuovo linguaggio critico [del resto io stesso dico sempre che non sono un critico e né un tuttologo, tento di fare critica ma non sono sicuro affatto di riuscirci, sono consapevole dei miei limiti].
Un nuovo linguaggio ermeneutico deve prendere tutto da tutto, proprio come fa la poesia della nuova ontologia estetica [le ultime prove ad esempio di Chiara Catapano lo stanno a dimostrare], deve saper gettare a mare i vecchi linguaggi, la vecchia terminologia. Un nuovo linguaggio deve essere eclettico, ellittico, deve saper anche improvvisare, deve saper trattare i linguaggi di disparati campi, non escluso quello del giornalismo e quello filosofico e quello della moda, deve essere un conglomerato di esperienze, un concentrato di altri linguaggi, di iconologie, deve saper parafrasare, deve essere rapido, inquieto…
Ecco, ad esempio, quello che scrivevo a proposito della poesia di Kjell Espmark:
”Le parole di Espmark sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.
Nella poesia di Kjell Espmark ci trovi in trasparenza frasari che riecheggiano frasi un tempo già pronunciate, già scritte, magari nella Bibbia o in qualche cronaca dell’impero cinese. L’ingresso in questi grattacieli del fabbricato leggero, le novelle piramidi del nostro tempo, è fatto di effimero e di transeunte, di transitante nel Nihil, ponte di corda steso sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà. Ecco, la poesia di Kjell Espmark ha la solidità e la leggerezza di un ponte di corda. L’ingresso, dicevo, in questo fabbricato di frasari nobili e non-nobili è un tortuoso cunicolo che ci porta all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale. Qui, ci si muove a tentoni, non si vede granché, non c’è luce, non si percepisce se la via scelta sia quella giusta, ma l’attraversamento di essa è per un poeta un obbligo non eludibile. Bisogna varcare quell’ingresso e inoltrarsi. La poesia di Kjell Espmark si propone questo compito. È un tragitto fra intervalli di buio durante i quali il tempo sembra sospeso, dove la «parola» si è volatilizzata, portandosi via con sé «una patria incompleta», ed è diventata invulnerabile al tempo che la vuole soccombente. Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:
Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –
Questo «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Um-Weg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.”
Donatella Costantina Giancaspero
POESIA.
Un mio contributo alla Nuova Ontologia Estetica
Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni, mai sapute, vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.
Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.
Giorgio Linguaglossa
Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa alla poesia di Donatella Costantina Giancaspero
Ci sono delle «strade» nell’inconscio che non sono state «mai più percorse», che hanno le loro buone «ragioni», sono «esse stesse» che interdicono «il passo». È il passato che incombe minaccioso sul presente dell’io. Qui siamo nell’ambito di dominio dell’inconscio e della correlativa funzione dell’io. L’Io non è più il sovrano assoluto dell’io penso cartesiano non è la sintesi dei miei pensieri e delle mie percezioni, ma è Altro. L’Io è stato esautorato delle proprie istanze, dei propri poteri illusori, del proprio scettro; l’Io è ciò che resta dell’io, ciò che non sa dell’io. L’Io, dirà Lacan nella sua lettura dell’Entwurf freudiano nel seminario L’etica della psicoanalisi, «l’io è l’inconscio in funzione». Da un lato obliterato dall’inconscio, dall’altro suo prolungamento nella realtà.
Si tratta di un’istanza formalmente rappresentativa, funzionante secondo una dialettica che articola le Wortvorstellung alle Sachevorstellung, coinvolta in un processo che associa linguaggio e rappresentazione. E qui sta lo snodo che segna il passaggio in Lacan alla definizione di «soggetto dell’inconscio» come effetto dell’«azione letale» del significante, una volta introdotto nel campo dell’Altro come luogo della Parola. Questo «tu» al quale ciò che resta dell’io si rivolge, è un «tu» di incantamento, è un fantasma che ci giunge dall’al di là dell’istanza della coscienza; ciò che per noi ha a che fare con il «fantasma», quel «Qualcuno», che non sai se sia io o una parte dell’io o altro e altro dell’Altro.
«Qualcuno», questo indeterminativo, questo misterioso ospite, ha risposto ed ha preso il posto dell’io. Qualcuno ci tratta da imputati: – Io! Che cosa è questo Io? Io tutto solo, cos’è? – se non un Io di sottrazione, un Io di ricusazione, un Io di no, non per me, io non sono io, io è un altro. Così è fin dalla sua origine, l’Io, in quanto si ribella, si sottrae, espelle anche se stesso con un movimento all’incontrario; l’Io come difesa, come Io che prima di tutto rigetta e ricusa, e che lungi dall’annunciare, disarma, vaga nella zona anestetizzata dell’esistenza. È l’Io nell’esperienza anestetizzata del proprio sorgere e che fa esperienza della propria disparizione.
L’inconscio non è l’inconoscibile, non è l’indicibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni, si manifesta in poesia e il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficie ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più intimo essere.
«Le ragioni» «mai sapute», restano «inconfutate», appunto perché gravitano «nell’equivoco» dei «selciati» (una metafora che serve a spostare il discorso dalle «ragioni» ai «selciati» con un cambio di soggetto); ecco, quei «selciati» colti da «martellante fiducia» restati preda di Wortvorstellungen (rappresentazioni di parole del linguaggio articolatorio), che non possono sfuggire alla loro vera sostanza di giustificazioni «scampate al giudizio», argomentazioni che l’io si dà di continuo per poter sopravvivere e costituirsi come proiezione di pulsioni cieche che hanno trovato la loro vestizione linguistica. Le giustificazioni, «le ragioni» sono nient’altro che proiezioni linguistiche, Wortvorstellungen, artifizi concettuali che l’io erige come complementi dell’inautenticità generale dell’esistenza.
Giorgio Linguaglossa
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia
(Vincenzo Vitiello)
Cosa è la presenza? C’è una presenza? La poesia della Giancaspero ruota ossessivamente e instancabilmente attorno a questo punto, rumina incessantemente attorno al punto della disparizione de-coincisione del presente, a quella cosa incredibile che è la manifestazione dell’atto, della attualità, cioè della presenza perché la presenza è un togliersi, è l’attualità del togliersi.
La presenza non è un immediato ma un mediato, dipende da altre innumerevoli presenze che si sono tolte, sono dileguate. Il de-coincidersi della presenza fonda la presenza, il continuum della presenza è il suo continuo de-coincidersi.
Il de-concidersi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, immediatamente attuale, immediatamente nella attualità e immediatamente svanito in quanto nulla, perché il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Il presente è l’origine che si rinnova e che muore allo stesso istante. Appunto perché il nulla è attuale, perché l’attuale non contiene il nulla staticamente, omeostaticamente come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi, de-coincidendosi.
Lucio Mayoor Tosi
21 agosto, 2017 alle 20.18
Nella dottrina buddista questo pensiero viene detto della Impermanenza (Anitya). È tipico di questa dottrina affrontare in chiave negativa – dell’abbandono – le circostanze della vita. Tutto finisce, non solo le cose che consideravamo importanti per noi ma anche semplicemente quando osserviamo il volo di uno stormo di uccelli e li vediamo scomparire dietro il tetto di una casa; un passante che svolta l’angolo della via: c’era e non c’è più. E’ tutto così, per non dire dei pensieri che nascono e muoiono. Questa comprensione porta all’abbandono delle passioni, dell’io-sono e molto altro. Ma serve, secondo me, un passo oltre per non cedere al pessimismo esistenziale, e questo passo è l’accettazione – se si vuole, nichilista – della continua e inarrestabile mutazione. E questa la si ottiene osservando. Esattamente come fa Donatella Costantina Giancaspero, la quale scrive separata, non da quel che è stato ma da se stessa. Donatella non c’è più. C’è l’amarezza, c’è qualcuno che…
Ma sono tasselli, frammenti; che aspiriamo, senza trattenerli. Nelle parabole buddiste si usa dire “uscire dalla ruota del carro”. Osservare. In effetti, io credo che NOE abbia a cuore la visionarietà, più che la parola; il pensiero filosofico scritto con lingua naturale, non specialistica. Questo potrebbe anche dipendere dal generale impoverimento della lingua italiana. Forse gli stracci sono lì.