Un confronto tra lo spazio espressivo integrale di Sandro Penna, tipico del realismo lirico novecentesco e una strofa di Tomas Tranströmer del 1954 Poesie di Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, J. Haddad, Francesca Dono, – Commenti

 

Giorgio Linguaglossa
La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

 

Una poesia Sandro Penna

 

La vita… è ricordarsi di un risveglio

 

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

 

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

 

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

 

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

 

Giorgio Linguaglossa
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno

 

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

 

Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:

 

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

 

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

 

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

 

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.

 

Leggiamo quest’altra strofa:

 

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

 

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

 

Giorgio Linguaglossa

 

Carlo Livia

 

13 novembre 2017 alle 12.59

 

Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.

 

In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.

Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.

 

C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:

 

Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…

 

(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:

 

”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…

 

(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

 

Giorgio Linguaglossa

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota

Giorgio Linguaglossa

 

13 novembre 2017 alle 14.59

 

Riprendiamo la strofa di Tranströmer:

 

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

 

La poesia inizia con il verbo declinato alla prima persona plurale sottintesa: «noi». Tranströmer scrive solo: «Entrammo», seguito da un punto. Nulla si dice sulle ragioni per le quali i «noi» sottintesi entrarono nella «sala», perché ciò ai fini dell’economia estetica è superfluo. Massima economia estetica e massima economia linguistica. Qui siamo all’opposto della prassi poetica di un Sandro Penna e della tradizione che obbedisce alle regole sindacali del pentagramma sonoro, Penna mai si sarebbe immaginato di iniziare un componimento con il solo verbo seguito da un punto. Ma qui in Tranströmer il punto è assolutamente essenziale, serve a delimitare di netto il perimetro di un fatto o atto. La «nuova ontologia estetica» prende abbrivio da qui, dall’impiego della punteggiatura al massimo profitto di economia estetica. In Tranströmer economia estetica significa anche economia lessicale e stilistica.

 

La restante parte del verso è occupata dalla indicazione geografica di «Un’unica enorme sala»; poi troviamo due aggettivi insieme, fatto molto raro nella poesia tranströmeriana di solito assai sparagnina in proposito; però, subito dopo gli aggettivi troviamo una similitudine che apre la composizione. Il poeta ci dice cha la «sala» era «come una pista da pattinaggio abbandonata». Una similitudine che chiude, che contraddice il principio di identità introdotto di solito dalla copula «è». In questo caso la similitudine introduce una differenza abissale tra la «sala» e la «pista da pattinaggio», dove l’aggettivo «abbandonata» è un segnale rafforzativo dei due primi aggettivi («silenziosa e vuota»). Segue il punto, a segnare una forte demarcazione.

L’ultimo verso è formato da due spezzoni, direi due frammenti:

 

Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

 

Siamo nell’ambito di una filosofia della composizione più sparagnina e severa del secondo novecento. Non si sarebbe potuto dire come meno parole. Ogni frammento è un pensiero compiuto ed il punto opera come un muro divisorio tra un frammento e l’altro. Una filosofia della composizione certamente lontanissima dalla fludificazione acustica dei versi penniani che obbediscono alle sirene dell’isomorfismo acustico. E la poesia è finita.

 

Ma, finita la poesia, il lettore si chiede: che cosa significa? Tranströmer non dice nulla in proposito, non offre nessun appiglio alla comprensione. Il poeta svedese obbliga il lettore a viaggiare alla sua altezza, lo obbliga ad uno sforzo ermeneutico notevole. È il lettore che deve farsi una idea di ciò di cui qui è questione.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

Antonio Sagredo

 

12 novembre 2017 alle 20.15

 

Non c’è dubbio che qui, in questo blog, c’è una vitalità che non trovo e né vedo altrove; più che OMBRA , questa la definirei “LUCE DELLE PAROLE” !

Questo magma tumultuoso inventato, creato, realizzato, ecc. è vitalissimo ed è un pregio della A S = Avanguardia Senile (alias A. S.) Bisognerebbe quindi disciplinare questo virtuosissimo magma in una sorta di MANIFESTO, dove le linee essenziali devono essere appunto più MANIFESTAMENTE CHIARE a chi non ha orecchia e occhi.

Quanto ai versi della Costantina G. devo affermare uno sguardo diverso di riferire in versi la “quotidianità”, una prospettiva geometrica del cantare,ed ha ragione la Colonna Mariella a decantarla.
Sul concetto di “frammento” è stato detto abbastanza, ma non lo sarà mai! E sugli altri concetti e principi che reggono la NOE bisogna insistere – con la filosofia fino ad un certo confine: pena la pesantezza –
sulle varie e diverse costruzioni versificatorie… insomma bisogna superare le vecchie figurazioni metriche e mutarle in visionarietà concrete e materiali.

 

Finisco (sopportatemi !!!) con darVi dono della Prima Legione (1989) :

 

I

 

Io, qui, nella tua maschera rosa
oltre la forma dello specchio montone
òrbito i due centri al di fuori delle leggi
dove a stento la morte s’inarca come un ponte.
In altre stanze, arrivi disattesi, già sento
vagiti in lotta, smarriti, beffati dal cavo gioco
di perle ofidiche, perché uno solo è pronto per l’orrore:
il premio di una maschera, una medaglia, il tallone
dietro l’anima, il grumo dell’ultimo respiro.
Crestati imbonitori, rospi di luce, siete gravidi
d’applausi oltre la soglia coi primi passi
del bardo inglese vestito di gramaglie,
per essere in uno altare e ostia, sacerdote albino
geloso di fonemi e di frattali. E sono ratti
comparse spettri, viscido sudario
sotto i tori di ciechi simulacri,
ruggiti di rame contro i nostri morti,
giocatori d’azzardo, astragali di vermi quando la notte,
chiusa al canto, notifica con lingua mercuriale
il malgoverno e il tuo sguardo simili a monete
di menzogna.

 

Giorgio Linguaglossa

 

A proposito del mio prossimo libro, 500 pagine: Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), – Roma, Progetto Cultura, 2018 – che riassume e rilancia la questione della Nuova Poesia

 

Per Andrea Emo, «ogni verità è sempre in sé contraddittoria (ciò spesso si chiama paradossale), eppure mediante questa contraddittorietà riesce a esprimere qualche profonda unità. […] Quale altro modo per esprimere una unità, che la contraddittorietà? Quale altra espressione è possibile per questa intuizione dell’uno?».1]

 

Occorre concepire anche l’Uno come identico col Nulla, in quanto Uno non vuol dir altro che Indistinzione pura, e dunque il coincidere assoluto con l’indeterminazione del niente.È forse, il motivo per cui Emo ritiene che «l’uno puro è lo zero», poiché l’Inizio proprio in quanto si annulla, in quanto si eclissa, insomma «essendo zero, crea la diversità».

 

Qui, forse, Andrea Emo mostra un tratto «nichilistico»:

 

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?» 2]

 

«L’ultima parola sulla Fine è la stessa di quella sull’Inizio: anche qui, l’autentica Icona della verità contraddittoria dell’Assoluto è il paradosso; paradosso che, ovviamente, per i suoi caratteri di insolubilità e assoluta intrattabilità con gli strumenti logici non-contraddittori, può essere colto solo attraverso l’apertura alla ‘sovra-razionalità’ come dimensione in cui il logos nel suo auto-annullamento (già visto come esito del neoplatonico Damascio), andrebbe a ‘nozze’, se così si può dire, col lato notturno del pensare, e cioè il mito. Emo, infatti, ribadisce ancora una volta che «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso».
Occorre rilevare, ai fini della nuova ontologia estetica, l’importanza della valorizzazione del linguaggio mitico come espressione di una verità profondamente paradossale. E quindi l’importanza del paradosso con i suoi equivalenti sul piano del discorso poetico e dei suoi strumenti retorici…

 

La nuova ontologia estetica abita il paradosso quale luogo della peritropè, (del capovolgimento): ciò che è bianco è anche nero, ciò che è nero è anche bianco. Il linguaggio paradossale per eccellenza è il linguaggio mitico, nel mito infatti le categorie del pensiero non contraddittorio e del principio di non contraddizione, vengono meno, sono inutilizzabili. L’esperienza e l’esistenza sono per eccellenza il terreno del contraddittorio. Anche la forma-poesia dunque, deve farsi carico del contraddittorio e del paradosso quali proprietà di ciò che è e di ciò che non è. Di qui la necessità di costruirsi una procedura altamente conflittuale e contraddittoria che congiunga ciò che è contraddittorio come elemento ineliminabile della contraddittorietà incontraddittoria.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

In ordine alla cosa chiamata «nuova poesia» o meglio «nuova ontologia estetica», ecco il Retro di copertina del libro di critica in corso di stampa (500 pagine) presso l’editore Progetto Cultura:

Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.

 

1] Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989. p. 75 e segg.
2] Ivi, p. 76

 

Giorgio Linguaglossa

 

Alfonso Cataldi (2° versione)

 

14 novembre 2017

 

Lievitazione. Il tabacco traversa l’incudine
sul freddo lineare.
La febbre disvela il tratto denutrito delle pietre.

 

Nello scorcio, il suo trascorso infranto.

 

Il disagio acutizza processi incontinenti
lo sciroppo ha un sapore inerte
è un deserto ampio sette anni.

 

Rinviene l’esatto crepitio del lume
lontano dagli abbrivi;
più forte la voce di lei

corteggiata tra due guerre in una sola settimana

 

protegge la natura delle cose.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Così la poesia è più compatta, appare misteriosa, direi incomprensibile, colta in una lontananza abissale, seppellita da un oblio sconfinato di cui sono rimasti soltanto degli spezzoni, quegli spezzoni che affiorano alla superficie della pagina come relitti di un naufragio. Complimenti.

 

 

Giorgio Linguaglossa
Questa è la preghiera per un’ombra./ Gioca a fare l’Omero,
mi racconta la sua Iliade,/ la sua personale Odissea

 

Gino Rago

 

12 novembre 2917 alle 18.01

 

Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa ovvero la PERMANENZA della poesia nello Spazio Espressivo integrale.

 

Preghiera per un’Ombra

 

Questa è la preghiera per un’ombra.
Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,
la sua personale Odissea.
Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici
e il Teatro dei pupi.
L’illusorietà delle illusioni.
[…]
«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio
– mi dice l’ombra –
così, stoltezza e saggezza si equivalgono,
eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.
Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli
della nostra condizione di fantasmi.
Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano
e vivono come se fossero immortali;
il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico
imperscrutabile,
un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.
Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,
sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;
tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».
[…]
«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,
«come un re vecchio che parla ai bambini
che giocano con gli eroi omerici
credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali
che governano le cose del mondo nulla sappiamo
se non che anch’essi sono bambini che giocano
con i mortali come se fossero immortali;
perché Omero dopo aver poetato gli immortali
cantò la guerra delle rane e dei topi,
degli uccelli e dei vermi,
come un dio che avesse creato il cosmo
e subito dopo il caos.
Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone
nel mare vasto e oleoso.
E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,
Asterione, alle pareti bianche del Labirinto
perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.
In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,
solo che essi non lo sanno.
Non c’è strumento più prezioso dello specchio
nel quale ciò che è precario diventa immagine.
A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».
[…]
«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.
Perché il suo destino non era il mio.
Il suo specchio non era il mio».
[…]
«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla
con gli uomini e le Parche.
Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.
Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.
Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.
Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.
Come farai tu».
[…]
«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta…».2

 

1 Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi
2] versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)

 

 

Giorgio Linguaglossa
Noi tutti siamo ombre fuggevoli…

 

Commento di Gino Rago

 

“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna,con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza.

 

Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché , questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna.
Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “ verità “delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa).

E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti ma con le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna?
Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia),fino a quando non giungono alla “conoscenza”.
Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave:

 

forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio;
metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia.

 

Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello Spazio Espressivo Integrale, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.
Lo “spazio espressivo integrale” della “Preghiera per un’ombra” è il campo in cui “Nomi”, “Tempo”, “Immagine”, “Proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni altra esperienza di poesia contemporanea, esterna a tale campo. Ovvero, esterna alla NOE.

 

Giorgio Linguaglossa
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith

 

(dal poeta J. Haddad al poeta Francesca Dono)

 

“Mi hai chiamata Lilith…”
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith.
perché incateni gli uomini e poi piangi perché tornino alla loro libertà.

 

Sei la luce dell’ alba la cui nudità destini solo ai ciechi.
Sei donna libera. Libera persino dalla libertà.

 

La prima donna di Adamo. La prima disobbedienza.
La fusione del sonno e della veglia.

 

Ti ha chiamata Lilith quel poeta.
Perché sei il segreto delle dita insistenti.
Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.

 

Canto di colomba per domare i leoni.

 

Giorgio Linguaglossa
Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Giorgio Linguaglossa

 

14 novembre 2017 alle 11.15

 

Il traduttore in inglese della mia monografia sulla poesia di Alfredo de Palchi, John Rugman mi ha chiesto di scrivere per il lettore americano una breve nota su cosa intendo per «tempo interno» nella poesia.

 

 

Ecco qua la mia Nota succinta sul concetto di «tempo interno» nella poesia della nuova ontologia estetica:

(Nota)
Sul problema del «tempo interno» (inner time) della poesia, è in corso in Italia un dibattito intorno ad una «nuova ontologia estetica» basata sul concetto di «tempo interno» della parola poetica nell’ambito della costruzione di una «nuova poesia», costruzione poetica intesa come sedimentazione di «tempi interni», come «quadridimensionalità», integrazione del mondo tridimensionale più la «memoria», cioè una poesia che non corrisponde più all’andamento lineare della sintassi della poesia del novecento, ovvero, ad un «tempo esterno» valido per tutto e per tutti, ma che assume la forma di «frammento», la forma di una singolarità assoluta. Una poesia dunque intesa come costruzione e composizione di frammenti, di singolarità.