Dietro di te – ma forse anche intorno a me? – / qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.
Ormai siamo talmente abituati a considerare poesia i versi sul phon che funziona male, sull’oblò della lavatrice che non chiude, sul rubinetto del lavabo che perde acqua, sulla doccia con abbondante acqua calda scambiata per lo scrittoio, sul proprio figliolo che si fa la doccia e consuma tutta l’acqua dello scaldabagno, etc., dicevo, siamo così abituati a considerare «poesia» soltanto ciò che risponde ai canoni, non direi neanche più del minimalismo, ma al serbatoio di tutti quei truismi che sono patrimonio comune del gergo internazionale che oggi viene scambiato in tutti i paesi dell’Occidente come «poesia», che non siamo più in grado di apprezzare questi tre autentici capolavori della poesia italiana contemporanea qui di seguito.
È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.
Giorgio Linguaglossa
26 novembre 2017 alle 13:51
Una poesia di Lucio Mayoor Tosi:
Dietro di te – ma forse anche intorno a me? –
qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.
È davvero strano, non esserci. Non lo sapevo,
non me n’ero accorto.
Mi sorprende sapere che non siamo veri.
Che siamo pensieri. Senza me e senza te ma insieme.
Forse al mondo un posto migliore di noi non si trova.
Un posto vero, voglio dire, che non sia soltanto un’immagine.
Un posto divino, che a toccarlo sia convincente.
Una corporea entità.
È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.
*
Behind you – but maybe also around me? –
someone is feigning to be. I didn’t know it,
I wasn’t aware.
It is surprising to know we are not real.
That we are thoughts. With no me and with no you but together.
Maybe in the world a better place for us cannot be found.
A real place, I want to say, that is not only an image.
A divine place, when touching it is convincing.
A corporeal entity.
It is truly strange for me to be here. Me and you.
You who are not, I who am not and the world that seems.
© 2017 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem “Dietro di te…”
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.
Appunto di Lucio Mayoor Tosi:
In questi giorni sto scrivendo davvero male, con fatica e tanti ripensamenti. È come disegnare svogliatamente, senza convinzione. Probabilmente qualcosa sta bollendo in pentola, qualcosa di cui ancora non so nulla.
Intanto mi aggiusto l’idea, che sarebbe bello poter unire due modi di scrivere poesia: quello di Tomas Tranströmer con quello di Czeslaw Milosz. La resa in parole di Tomas con la volontà di dire che ha Czeslaw.
Ai poeti squinternati come me, conviene, e fa senz’altro bene, guardare in alto.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Caro Lucio,
questa prosa poetica o prosa in poesia o poesia in prosa, come dice Alfredo de Palchi, è una delle tue più riuscite. Tu riesci a comporre in un unico stile il periodare argomentativo con assiomi e lacerti aforistici e il periodare per immagini e per traslati. Questa è una tua caratteristica peculiare, non conosco nessuno, nella poesia italiana, che ti può stare dietro. E capisco anche il tuo tentativo di riunire in un solo stile polimorfo il periodare argomentativo di Milosz con le immagini di Tranströmer, quanto di più difficile si possa immaginare, ma sei sulla buona strada. Del resto sono proprio i parti difficili quelli che danno i migliori risultati. Complimenti.
Lucio Mayoor Tosi
26 novembre 2017 alle 19:11
Caro Giorgio,
hai fatto caso? Il verso iniziale «qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi» a me ricorda un passaggio della Bibbia – magnifico romanzo – quando Adamo ed Eva si nascondevano, e viene detto che Dio passava da quelle parti. Proprio così. Strano, no? un Dio che cammina…
Allo stesso modo, adesso, ci si sente all’inizio.
Giorgio Linguaglossa
26 novembre 2017 alle 18:50
Il punto fondamentale è che la poesia di Lucio Mayoor Tosi è l’esatto erede del Surrealismo che noi in Italia non abbiamo mai avuto, però corretto con una buona dose di Milosz, di Transtömer, di Kjell Espmark, ma io ci aggiungerei anche di Petr Kral, di Michal Ajvaz, Jachim Topol, Reznicek, Karel Siktanc, etc…
La nuova ontologia estetica passa anche di qui: attraverso il tentativo di riposizionare la poesia italiana ai livelli più alti della poesia europea, ma per far questo dobbiamo passare sopra il deserto di ghiaccio determinato dalla assenza di poetiche «forti» che nella poesia italiana mancano diciamo almeno a far luogo dagli anni settanta.
È una scommessa incredibile quella che stiamo facendo. Non so se ci riusciremo, però la qualità della “Avanguardia senile” (dizione di Antonio Sagredo) non manca…
Dimenticavo di dire che a me la poesia sembra geniale… quello che avrebbe voluto fare Raboni senza però riuscirci perché i tempi non erano (stilisticamente) maturi…
Lucio Mayoor Tosi
26 novembre 2017 alle 19:37
Ci sta anche Pavese, di Lavorare stanca. Rivisitato ma su quella scia. Quel Pavese, tanto omaggiato ma rimasto tra i solitari. E tra i solitari qualcun altro. Oltre ad Alfredo De Palchi, ovviamente. Non è che in Italia non ci abbiano provato…
Sì, quel grande romanzo a puntate che è la Bibbia, inizia più o meno così: Dio passava di lì quando incontrò Adamo ed Eva…
Commento di Giorgio Linguaglossa
Sì, quel grande romanzo a puntate che è la Bibbia, inizia più o meno così: Dio passava di lì quando incontrò Adamo ed Eva… Ed è così che deve iniziare un vero romanzo e una vera poesia, con un linguaggio papale papale, in una situazione casuale, magari anche goffa, magari inverosimile purché possibile; se non sbaglio è anche il modo con cui inizia la Divina Commedia. La tua poesia comincia così:
Dietro di te – ma forse anche intorno a me? –
qualcuno sta fingendo di esserci.
Qui siamo già dentro la problematica esistenziale tipica della nostra epoca: l’essere, l’esserci, la finzione dell’esserci. Ecco il problema: ma noi siamo? Esistiamo veramente? O è tutto una finzione? Un ologramma? – Qui, in questi due versi, ci sono concentrati tutti i problemi esistenziali del nostro tempo. Ci voleva una grande quantità di lavoro per azzerare tutte le idiozie e i truismi scritti dai poeti che sono venuti dopo de Palchi, Helle Busacca e Raboni. Quel Raboni che, dopo Le case della Vetra (che comprende versi scritti dal 1951 al 1964) pubblicata nel 1966, non ha più saputo andare avanti in quel suo stile del quotidiano spersonalizzato che trenta anni fa ho tanto ammirato. La sua poesia non poteva andare oltre i risultati raggiunti con quella raccolta complessiva perché glielo impediva la «chiusura» della sua poetica sul «quotidiano topografico» inteso in accezione veristica, referenziale, incentrato sulla sua città: Milano e i suoi paraggi. In un certo senso, tu (e la nuova ontologia estetica) hai rimesso in moto la poesia italiana che era ferma a quegli anni o giù di lì, hai liberato il «quotidiano» dal marchio di riconoscibilità di tutto ciò che è referenziale e topograficamente referenziato, e sei andato con un balzo molto oltre, sei andato nell’inverosimile / verosimile, in un irrealismo / realistico, mi si passino gli ossimori. E non era un passo da poco. La «nuova ontologia estetica» è partita proprio da lì, dalla necessità di reinventare il linguaggio del «quotidiano» innestandolo in una prospettiva di poetica più ampia che prevedesse tutto ciò che «non è quotidiano» e ci coabitasse. Non era un salto da poco, e tu ci sei riuscito.
Su Le case della Vetra ha scritto Luigi Baldacci: «La realtà di Raboni è la città, è Milano: o per meglio dire quello che resta della Milano di una volta: nella memoria, nella stratificazione profonda degli anni dell’infanzia. La topografica, in Raboni, diventa storia, ragione privata e sociale al tempo stesso: sulla faccia di Milano, sui muri lebbrosi o nei quartieri “risanati” egli ritrova il disegno della propria vita, o della vita dei più vecchi».
Ecco un andante tipico della poesia raboniana:
« … Eh sì, il Naviglio è a due passi, la nebbia era più forte/ prima che lo coprissero, la piazza/ piena di bancarelle con le luci/ a acetilene, le padelle nere/ delle castagne arrosto, i mangiatori/ di chiodi e di stoviglie/ non era certo un posto da passarci/ insieme a una ragazza. Ma così/ come hanno fatto, abbattere case,/ distruggere quartieri, qui e altrove/ (la Vetra, Fiori Chiari, il Bottonuto),/ a cosa serve?…».
La tua poesia invece ha al centro del proprio periscopio il problema cruciale dell’esistenza. È una analitica dell’esserci esistentivo fatta con i mezzi della poesia. Così, di colpo, la tua composizione ha riposizionato la poesia italiana ai piani alti della poesia europea.
Torquemada teneva tra le mani/ un lungo elenco di persone/ che avrebbe dovuto interrogare
Una poesia di Anna Ventura
Torquemada
Torquemada teneva tra le mani
un lungo elenco di persone
che avrebbe dovuto interrogare:
troppi, per avere il tempo di straziarli
con domande sempre più insidiose,
abili tranelli
che li avrebbero inesorabilmente portati
alla contraddizione
e alla rovina. Decise
che la prima ad essere interrogata,
quel giorno,
sarebbe stata una donna,
una contadina in odore di stregoneria.
Sarebbe partito bene,
con modi delicati,
in modo da metterla a suo agio;
le avrebbe fatto credere
che non c’era pregiudizio,
contro di lei; che ogni decisione
sarebbe stata imparziale.
Quando la donna entrò,
Torquemada le rivolse
il suo sguardo fermo,
simile a quello del serpente.
Ma la strega sapeva il fatto suo:
quando il giudice la guardò,
sia pure di sfuggita,
scoprì in quel volto una nota familiare,
guardò meglio: sì, era proprio sua madre.
Morta da anni,
mostruosamente presente in quel momento.
Pensò di essere oggetto di un raggiro,
e tentò di trovare un’uscita facile.
Ma non fu facile per niente.
La donna allungò un braccio,
e gli tirò l’orecchio: proprio
come faceva sua madre,
quando era ragazzino.
“L’udienza è tolta”,
disse Torquemada, sforzandosi
di tenera ferma la voce.
“L’ho sempre pensato,- disse la donna –
che saresti diventato un delinquente”,
e gli assestò uno schiaffo in piena faccia.
“L’udienza è tolta”, ridisse Torquemada,
avviandosi verso i recessi
del tribunale. Ma sapeva
di non avere scampo: sua madre
lo avrebbe seguito.
Ma sapeva/ di non avere scampo: sua madre/ lo avrebbe seguito.
Commento di Giorgio Linguaglossa
È un discorso sul Potere. C’è in questa poesia la terribile consapevolezza di quella terra di nessuno qual è diventata la nostra coscienza. Torquemada rappresenta la Ragion di Stato, il Super-Io, il pensiero giustificatorio?, che cosa rappresenta Torquemada? Chi è Torquemada, oggi? Forse, siamo noi Torquemada. È il Palazzo, il Potere che personificano l’indiscussa correttezza ermeneutica, essi soli hanno il diritto di forgiare l’ermeneutica della «Verità».
È paradossale ma vero, la «verità» diventa problema filosofico nel momento stesso che scompare dalla vita e dalla storia degli uomini. Già da quando Ponzio Pilato pone a Gesù la famosa domanda: «Cos’è la verità?», la risposta non può essere che il silenzio. Il potere invece si arroga lui la pretesa di detenere e impersonare la «verità». Torquemada è colui che detiene la «verità» per conto di un dio nascosto, che non appare, che è un estraneo nella storia degli uomini. Torquemada è un freddo burocrate, come gli aguzzini nazisti che mandavano milioni di «diversi» ai forni crematori, suo compito è istruire con burocratica precisione un’istruttoria dalla quale si evinca senza margine di errore il Male, l’Errore, il Negativo personificati in un accusato. Torquemada è l’espressione del «positivo» della civiltà occidentale, suo compito è «positivizzare» non solo le sentenze, per renderle assertorie, ragionevoli, giustificate e quindi eseguibili, ma addirittura l’esistenza degli uomini. Suo compito è «positivizzare» il Negativo, esorcizzarlo per meglio dominare gli uomini. La domanda implicita che pone la poesia di Anna Ventura è: quanta parte della nostra cultura segue la traccia mnestica di questa logica mostruosa? Quanta parte di noi è segretamente imparentata con la logica inconscia che fa di Torquemada l’implacabile assertore delle forze della «verità»?
Camminano con noi fino alla meta. Poi,/ li lasciamo andare.
Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero
Ripieghiamo in direzione del bar
Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli occhi rievocativi
e agli specchi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».
Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…
Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
*
Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.
D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous vers le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.
Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.
Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…
Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. (ou impuissance)
Tout au fond, reste le doute.
(traduzione di Edith Dzieduszycka)
Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità»
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato modo di essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».
I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.
Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario. Adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento musicale, un completamento della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.
La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…
«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. la nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]
La lentezza è quella cosa che Giorgio Agamben definisce «revocazione di ogni vocazione»
La lentezza è il segreto di questa poesia. Nell’esistenza del nostro mondo, la lentezza viene ad essere derubricata a tempo improduttivo, ad uno spreco. Così in tutti gli atti della nostra vita quotidiana tentiamo di svolgere il nostro compito nel più breve tempo possibile, perché il tempo è danaro, recita il noto motto. La lentezza è quella cosa che Giorgio Agamben definisce «revocazione di ogni vocazione», che significa che se c’è «vocazione» c’è una chiamata, un impulso a passare dalla potenza all’atto. Di qui l’azione. La revoca della vocazione invece è il movimento contrario, il retro passaggio dall’atto alla dis-intenzione, restituire alla revoca di ogni intenzione la chiave dell’esistenza.
Nella filosofia di Agamben, c’è un personaggio letterario che impersona questo principio: Bartleby, il personaggio che in Bartleby lo scrivano, il racconto di Herman Melville, risponde a chiunque gli chiede di compiere una azione: «I would prefer not to» (preferirei di no). Bartleby rinuncia all’atto. E così trova un intero regno di possibilità.
È a questo punto che ci si accorge che le cose che sembrano essere sempre eguali, opache, invece cambiano fisionomia, si muovono. Nel tempo apparentemente opaco e infrangibile della quotidianità, si aprono fessure, spazi, altri tempi, altre possibilità. Il segreto è in questo moto di ripiegamento, il tornare indietro, dall’atto a ciò che precede l’intenzione che ha prodotto l’atto. La poesia dice: «Ripieghiamo in direzione del bar». È questo il significato fondamentale della «lentezza», che essa ci induce a riconsiderare tutte le cose da «come sono» a come «potrebbero essere», e il nostro essere «gettati» nell’esistenza si colora di un nuovo colore, di una possibilità imprevista e impreveduta.
- Heidegger, Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 370