Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo(Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore,  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

 

Giorgio Linguaglossa
Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.

Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottolaL’esistenzaLe tenebre come tenebrePer incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

 

Giorgio Linguaglossa
Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».

 

Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

 

La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heidegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.

 

Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:

 

Guarda questa scatola vuota


che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

 

Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa

 

Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.

 

Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.

 

La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.

 

Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?

 

Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

 

 

Giorgio Linguaglossa
Kikuo Takano è nato a Niibo,
nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore

 

Takano, nella sua poesia risuona quella schiettezza lucida e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo maestro?

 

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata I quattro quartetti. Soprattutto questi ultimi mi hanno dato una profonda emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’intera esplorazione/ arriveremo dove siamo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

 

 Quanto ha influito la tradizione Zen nel suo lavoro?

 

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stessi. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sempre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

 

 E le letture di Heidegger e Montale?

 

 «Per quanto riguarda Heidegger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Crisalide. Il poeta parla del tempo doloroso della crisalide avvizzita. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in questi versi come un’eco: continuiamo a porci la domanda sul nostro “dove anche se ci troviamo immersi nel dolore più profondo”».

 

 La musica è stata una componente importante del suo lavoro. Quanto e in che misura ha influito sulla sua poesia?

 

«Per Valéry “la poesia dovrebbe aspirare allo stato della musica”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica vocale e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisibili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dolcezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

 

 

Giorgio Linguaglossa
Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce

 Lei ha adottato il verso libero, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, antitradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale questa sua scelta?

 

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Silenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massima naturalezza a scrivere poesie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così dolorosa da affrontare dopo la seconda guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantumi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poesie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furono tradotte in Giappone le poesie occidentali di ventinove poeti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia europea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

 

 Takano ha lasciato il Giappone di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

 

 «La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Italia, venendo in Italia. Sentiamo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Rinascimento e continuano a farlo vivere tuttora magnificamente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vattimo, il teorico del pensiero debole. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli considera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa dinanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppare il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

 

 Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familiare una realtà così lontana e così diversa dalla nostra come quella giapponese. Ma è davvero così distante?

 

«Quando il mio traduttore Paolo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nella superficialità. La bomba atomica non ha distrutto solo Hiroshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappone. Qui l’uomo comincia a distruggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

 

 Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vostro mondo nei confronti dello strapotere americano. Come considera questa tendenza?

 

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa potenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera causa di rappacificazione. Per svegliare la nostra coesistenza vorrei che questo secolo fosse chiamato “il nuovo secolo rinascimentale”.»

 

 C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

 

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dobbiamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scrivo poesia?”.

 

 E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comunicazione di massa?

 

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la consegna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire coscienzioso, dei mezzi di comunicazione di massa, quando però questi superano la barriera dell’affarismo e dell’opportunismo».

 

Giorgio Linguaglossa
Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola

 

Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)

 

Girandola

 

Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo tertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?

 

 

Soliloquio

 

«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!

 

Le parole che ti dico

 

«Se ti urlassi non c’è nulla,
non c’è nulla,
cosa mi diresti?».
Così minacciosa un’amica mi assedia.
e cosa potrò darti?
Capita anche a te:
ormai da tempo non possiedo
neppure le parole che dico,
l’azione che scelgo.
Cosa potrò darti
di un ‘me’
così trasformato?
Posso darti solo quel gesto
con cui indico la falena
che sbatte contro il vetro.

 

Nel sogno

 

In quel sogno
la mia parola era a forma di mulino,
la mia anima somigliava a una macina.

Ma quando quel cavallo come un’ombra
s’insinuò tra il mulino e la macina
a passi un po’ furtivi un po’ grotteschi?
Il suo capo era rivolto in giù ed io,
io mi sentivo invaso da una strana allegria

 

Baratro

 

Quando ti ho abbracciato
la prima volta
non mi ero ancora chiesto
il senso di quell’abbraccio.

Quando ti ho abbracciato
una seconda volta
era come stringere un baratro.

e perché mai mi capita, non solo
con te, che ogni cosa che abbraccio
una seconda volta
si trasforma nel mio baratro?

 

Il treno

 

Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.

Ed io penso:
«Ma le mani non dimenticano».
Non dimenticano quelle mani di essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.

Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
e cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per avere certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.

 

Burattino

 

Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.

 

Cielo

 

In quel tempo non mi chiedevo ancora
il senso del cielo e della terra
e avevo mani e piedi imbrattati di fango.
In quel tempo
felice era la mia parola,
felice ero come quando la luce incontra l’acqua
e il cielo incontra la terra.
felice ero come le foglie.
Anche la mia cima d’albero
si prolungava in cielo
e la mia radice era dentro il cuore della terra.
Cresci, allungati.
Felice era la mia parola, ora infelice,
perché quella stessa mia parola,
sbagliando, chiede senso
e si interroga sul senso ultimo
e sull’opera di Dio.
La mia parola somiglia al dolore
come le foglie in attesa dell’inverno,
stormiscono già condannate
e non così sagge da cadere a terra.

 

Giorgio Linguaglossa
E forse la morte è un vero tesoro,/ ma a chi è destinato?

Un vero tesoro

 

«E forse la morte è un vero tesoro,
ma a chi è destinato?».
È inutile che così ti interroghi.
La morte appartiene al mondo,
come in un deposito accoglie
ogni cosa, si raccoglie anche la morte.

 

Ma – lo sai? – non può scomparire
la morte dal mondo. Nel deposito si raccoglie
la morte che non serve a nulla
e c’è anche la morte che non va
da nessuna parte, e ci capiterà
di morire rassegnati
o soltanto gonfi di disperazione?

 

Ci capiterà di morire a prezzo di favore.
«Ecco lo sconto, ma ti prego comprami la morte».
E mi chiedo ancora una volta:
«Forse la morte è un vero tesoro?».
e ancora mi ripeto: «Non posso fare proprio nulla 
se non morire come la cicala consunta,
come il grano andato a male?».

 

La salita

 

Di corsa vanno i ragazzi
sulla salita con la neve fresca
e poi risalgono ancora
per gettarsi giù. Anch’io
avevo dentro di me
una analoga via in salita.

 

Ma che cosa mi sta accadendo?
Anche se distolgo lo sguardo
per non vederla, l’ho negli occhi
e non posso distogliere lo sguardo
da quella stessa salita,
e non posso davvero andar di corsa.

 

Le mie scarpe

 

Dopo aver a lungo camminato
sorprendentemente mi accorgo
di essere senza alcuna scarpa,
e quanta strada ho fatto ignaro!

 

E con più sorpresa mi capita,
dopo averle a lungo cercate,
di trovarle dentro di me, le mie scarpe,
e non posso tirarle fuori.

 

Ma che evento singolare:
dopo aver tanto pensato
non posso calzare le mie scarpe
con cui pure è necessario uscire.

 

E alla fine sorprendentemente,
dopo tante congetture, mi accorgo
che anche gli altri non hanno scarpe
e, beati, non soffrono della loro mancanza.

 

Inevitabile

 

Inevitabile
come il peso attratto
dal centro della terra.

Inevitabile
non posso che precipitare dal cielo
che pure ho tanto desiderato.

Giorgio Linguaglossa
È davvero inutile / questo mio desiderio di cielo

poesie tradotte da Yasuko Matsumoto con la collaborazione di Renato Minore da L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005

 

*

 

Non si sa da dove è arrivato nel villaggio
un tranquillo pazzo di mezza età.
e s’è messo in buona lena
con le shinodake1 a tracciare un recinto
intorno al basamento del tempio.
“Ma che voglia allevarci i polli?”
così si mormorava su di lui.
Ma è bastato assai poco e il pazzo tranquillo
è morto dentro il recinto quasi finito.

 

1] La “shinodake” è una specie di bambù, sottile sia nelle foglie che nelle canne

 

Famelico

 

Famelico, anche troppo.
Davvero troppo famelico, come fossi un serpente folle
che azzanna il proprio corpo,
anche quella mattina svegliandomi
mi mordevo selvaggiamente.

 

Povero cristo!
Da dove mi viene tanta fame?
Oh, me sventurato!

 

Tra ciò che assorbo e ciò che perdo,
il conto è pari,
il cerchio si chiude!

 

Ma quel cerchio
a chi è stato dedicato?
Con ostinazione continuo a chiedermi
a chi quel cerchio sia stato offerto.

 

Disco

 

Come fossi un disco
vorrei anch’io un solco che precipita
vertiginoso verso il centro.

 

La sua punta potrebbe seguire
al centro la mia vertigine canora.
Potrebbe già rivolgere
il suono verso quel foro
come un piccolo tunnel.

 

ed ecco che la punta
mi spinge verso il centro
con la sua voce canora e mi lascia
vuoto nella vertigine
per non essere pronto
ad essere redento e neppure capace
di capire quel mio turbamento.

 

L’Aquilone

 

È davvero inutile
questo mio desiderio di cielo
perché non possiedo ciò che è necessario:
un filo che mi tiene a terra
e la potenza di un vento che sradica…

 

O filo! O vento!
e si potrà mai
decifrare con lo sguardo
l’inestricabile nodo 
che li unisce?

 

ma io non posso rinunziare a me
e quanto mi pesa
ciò che davvero mi manca!

 

 

Renato Minore (Chieti, 7 settembre 1944), risiede da oltre trent’anni a Roma. Si è laureato in lettere moderne con Natalino Sapegno e si è Giorgio Linguaglossaspecializzato in filoologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della RAI, attualmente è il critico letterario de “Il Messaggero”. Ha insegnato Teoria e tecniche delle comunicazioni di massaall’Università di Roma.

 

Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore(Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani). Come poeta ha pubblicato La piuma e la biglia (AlmanaccoLo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile (Passigli), I profitti del cuore (Scheiwiller). I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come “Il Mondo”, quotidiani come “la Repubblica”, riviste culturali come “Paragone”.

 

La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre(Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine(Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società(Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni: Il divismo negli anni Sessanta(Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo Campiello, l’Estense, il Buzzati, il Flaiano, il Capri, il Città di Modena per la critica.