l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio
Alberto Tommasi, nato a Milano nel 1957, ha studiato all’Università di Pisa ed insegna materie letterarie, latino e greco nella provincia di Bolzano. È stato lettore di italiano all’Università di Osnabrück dal 1992 al 1999. Ha scritto su Guido Piovene, cultura/civiltà italiana nelle università tedesche, C. G. Jung e Paul Celan. Ultime pubblicazioni: «L’incipit del canto VIII del Purgatorio di Dante Alighieri», in Sacco, Sergio; Tommasi, Alberto (a cura di): La nostalgia. Atti del settimo Seminario Italia-Germania-Russia Belluno, 11-13 Ottobre 2009. Belluno: Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, 2011, pp. 129-154. «Retrospettiva sui concetti di Animus e Anima», in Studi Junghiani, vol. 20 (2014), n. 2, pp. 5-21. Ha pubblicato soltanto una poesia sulla Prima Guerra del Golfo nell’inserto «Mercurio» di Repubblica di fine gennaio 1991.
[Giorgio Linguaglossa, grafica di Lucio Mayoor Tosi]
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
L’atmosfera inquieta e saturnina di queste composizioni, il loro spettro poematico, il loro sviluppo narrativo sono tutti elementi che situano questa poesia nel solco di quella rinascenza della narratività che oggi sembra contagiare gli esiti più maturi della poesia contemporanea. E non è un caso questa consonanza dello spettro poematico dall’andamento giambico con la riproposizione di un metro endecasillabico, esso è anche indice e spia della caduta tendenziale della forma-poesia, del suo oscuramento, della sua interna mutazione genetica verso un qualcosa d’altro che ancora non riusciamo ad intravedere. Una nuova forma-poesia in Italia è latitante da così tanti decenni ormai che se ne è persa addirittura la eco, ma Alberto Tommasi è in cammino, un cammino consapevole che un’epoca di transizione si è consumata e ne è cominciata un’altra che ancora non è riconoscibile ma è ben visibile; c’è in questi testi una costante stilistica erede degli antichi parametri di riferimento (tra Lucio Piccolo e Lorenzo Calogero) ormai perenti ed obsoleti vista la rinascenza di quella narratività di cui dicevamo, ed è anche rinvenibile, a mio avviso, una qualche problematicità ad individuare una direzione di ricerca.
E certo, «Epitaffio per la morte delle nuvole» è uno splendido titolo di una raccolta a venire ed è un verso eccellente. C’è in esso già tutto il nostro nihil, la nostra liquefazione la nostra frammentazione ontologica. Anche il giro frastico sembra avvolgersi in spire concentriche e ondulatorie attorno ad un asse centrale immaginario, simile ad un buco nero che si assottigli e tenda a scomparire. Oggi che siamo in piena disseminazione delle forme estetiche e liquefazione del verso, la poesia di Alberto Tommasi tende ad assottigliare le proprie differenze rispetto alla poesia di matrice post-simbolistica di un Lucio Piccolo, ma non per sua negligenza o per incuria quanto perché la poesia italiana di oggi si trova dinanzi ad un bivio, o proseguire lungo il pendio elegiaco irriflesso (o riflesso) con inserimento di correttori prosastici come fa la stragrande maggioranza dei poeti «colti», o procedere verso una elegia ripropositiva, magari mascherata e vestita a festa per renderla presentabile.
Ed è proprio qui, in questo punto che Alberto Tommasi, poeta dotato e colto, viene in contatto con la piattaforma della nuova ontologia estetica, e tale contatto non potrà che rendergli un positivo servizio di approvvigionamento verso un nuovo orizzonte degli eventi poetici, credo. È qui che si è aperto per la poesia italiana di oggi un nuovo panorama, un nuovo orizzonte da cui Alberto Tommasi saprà scegliere ciò che gli è più congeniale.
Mi scrive Alberto dopo aver letto una mia poesia della NOE, “Io Zosimo”: «dovrò correggere “glossorgico” in “glossargico”, cioè non ‘colui che si addormenta sulle parole’, bensì ‘colui che va in letargo alla loro ombra, per poi risorgere alla fine dell’inverno’». Io mi sento di replicare così: stiamo tutti in una comune condizione glossargica, stiamo ogni giorno immersi in mezzo a migliaia di emittenti linguistiche ed iconiche di un mondo in stato di frammenti glossargici e peristaltici.
Gino Rago, Grafica di Lucio Mayoor Tosi
Scrive Gino Rago:
Verso un nuovo paradigma poetico
La Introduzione di Giorgio Linguaglossa [alla Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo] non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.
Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata L’Epoca della stagnazione estetica e spirituale, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più intelligenti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca.
Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni con l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1] Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna.
In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare le «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi, Angelo Maria Ripellino ed Helle Busacca, ma anche Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana.
1] T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970
Alberto Tommasi, ott. 2014
Alberto Tommasi, ott. 2014
Alberto Tommasi
Epitaffio per la morte delle nuvole
(Io) mi nutro d’un tempo non umano
taglio vetri in fiumi senza rive
qui non è dato levare
tele d’angoli male esistiti.
Hölderlin non più s’avvolge in spire
di quest’unico cielo tra colline –
da quando il maschio (non il padre)
cacciò le vacche (bandì le figure)
dall’azzurro x N all’infinito.
Sicché spento il dolore del ritorno
le perifrasi crollano dei cieli.
Astratta sempre lacca di cobalto
e mai nessuno visita la tomba.
Accoglimi, guardiano delle giare.
Da custodire ti fingo
con secchi fiori un giardino
nel quale l’erba intorno ascolta
l’invecchiare di ruvide piscine.
Tramonti gialli e brevi ti crescono
di là dal muro del giardino.
Qualcuno a casa ti attende.
.
Villa con parco
Luce d’oriente versano le nubi
sulla piana rosseggiano i canali.
Su per il colle si snodano i viali
sparsa la ghiaia non ebbero meta
se non svanire in un orlo di parco.
Sotto il roseto l’anima inesperta
troverà le radici o ciò che impetra?
E perché cerca sempre un quieto parco?
In cima al colle non persona viva
nella fontana si specchia la casa
umano sguardo giunge alla terrazza
ma il vento rovesciando l’erba
del pendio in argentei fiumi
lo riconduce alla casa di Tarkovskij.
.
La buona amministrazione
Velleità di levare stucchi falsi
dalla facciata, d’età posteriore.
Riparare grondaia per udirne
il suono mentre l’acqua scorre.
Asciugarsi al calore della stufa
se l’Es tardi rientra per essersi
smarrito in the chambers of the sea.
La muffa ch’è sui muri – tollerarla
smentire il Super-io che vorrebbe
rifare di cristallo le pareti
(lo sguardo puro universale
s’appoggia al vetro dell’acquario
con un respiro che l’appanna).
Se in lampi si frantuma il Minus-io
silenziare il frastuono dei lamenti.
.
A Silvia Ronchey
Da tempo hai scoperchiato la tomba
dell’istante chiamata trascendenza.
Concentralquanto nei cerchi
consapevoli – Storia, La Natura,
il consenso dei critici e dei medici
e il vasto chiacchierio detto cultura –
sei un po’ fuori, come riconosci,
dal perno ch’è verborgen nel tuo corpo.
Completa dunque l’immanenza
se accetti d’essere felice. Sempre
ti stai nell’io dialogico-pensato
codesta è non erranza personale –
il cui superamento è salutare?
.
Satira sulla traduzione
a Maurizio Bettini
Come nei boschi volano le foglie
quando l’anno s’inarca alla sua fine
e spuntano di nuovo a primavera
sopra rami durevoli e nodosi,
sì mutan le parole di una lingua
naturale per avvicendamento
di tempi stili popoli e costumi.
Scendono inverni e cadono mortali,
tornano fronde e nascon nuovi nomi
rari antichi domestici stranieri.
Così Orazio con Dante rinarrato.
“Fronda” nei Veda è atto di parola
manifestasi quel ch’esce di suono
e quel che dalla terra fuoriesce.
All’irrequieto mondo ben somiglia
il morire e risorger dei lessemi.
Diconsi “alberi” interne architetture
del pensiero in culture lingue testi
verità supponendo non verbali
ma cortesi a salire in tali vesti.
Il “ramo” è progressivo svilupparsi
del senso per colui che va leggendo
oppure identità quale rimane
del testo nella mente se ha percorso
più veloce le righe in diagonale
e ripensa al tracciato del discorso.
Tradurre è dir concetto in altro suono
ma per specchiarsi dev’essere irreale
altrimenti l’ammazza il finto sosia.
Quando un testo rinasce in altra lingua
secondo la metafora di Dante
restano i rami senso-sostanziali
s’avvicenda il caduco delle fronde.
In Asia un traduttore motivato
decortica parole al ramo inglese
per su cucirvi i panni destinati
arabo turco bengali cinese.
Qualche sarto fa anche agricoltura.
Harry Potter ritratto da una copia
diversa da quella originale
passa per una fra le tante
buone interpretazioni.
In testi estremamente elaborati
le stesse foglie spostano loquaci
secondo che s’osservi il loro ramo
non rinasce il concento in altra lingua
ma puoi renderne conto in un commento.
Il lignum che nel leggere è raccolto
cresce complesso come partitura
di più legni e strumenti musicali.
Se alterata è dei classici la voce,
primigenia restauri l’armonia
del co-mondo che cova a noi alieno.
Sai distinguer la prosa da poesia
narratore versatile Maurizio
quando i senso-ritorni fan vibrarle
nel tipo cotto di polifonia?
Benevolo maestro in darmi essemplo
concedi la licenza menippea
al rilasciarsi in modo lucianeo
d’un verso adynaton d’Orazio.
Nell’Ars poetica pesano ancora
modelli greci perduti, ma il poeta
delle Epistole impresse a quei precetti
nuovo inizio e lo stile che dà gloria …
da Limbo a Storia risalisse Orazio
un verso taciturno aggiungerebbe:
«come il lauro d’Apollo … vòlto in marmo».
E il verso si ripensa con un’eco:
«come il lauro d’Apollo vòlto in marmo!».
Fogliame tal che ne’ tedeschi rami
sarebbe da tradurre in nove versi:
Wie Daphne in Lorbeerbaum verwandelt,
wie Apoll und Daphne in Verse übertragen,
wie diese wiederum in Marmor abgebildet.
Da jedoch dünne Marmorblätter
heute schöner wirken als die Verse,
will Horaz mit der ‚Apoll und Daphne’
seinen Ruhm, verblasst, vergleichen,
will sich barock genossen wissen,
auf dass die Schüler ihn doch noch verständen!
Commento al v. 7. “Sublimai in nobili forme l’istinto sessuale, come poi fecero Ovidio, Petrarca e Bernini”. Se nel racconto in versi di Ovidio lo stupro della fanciulla Dafne è impedito dalla metamorfosi in alloro, nella storia culturale europea questo mito si andò evolvendo nel senso del negare tutta quanta la sessualità. Il Canzoniere di Petrarca ne fa dura traslazione dell’amore in poesia e Bernini rese il mito visibile nel gruppo scultoreo «Apollo e Dafne», in cui fermò il movimento e idealizzò la bellezza. Commento al v. 9: “Vorrei per i miei carmi la stessa gloria di cui godette e gode quella scultura marmorea”. C’è qualcosa di lucido in questa invidia per Bernini, si pensi che la fortuna di Orazio lirico culmina in Francia e Italia proprio in età barocca e che le grandi opere d’arte del passato riscuotono ancora oggi successo, mentre gli scrittori più raffinati sono divenuti inaccessibili agli scolari per diffusa incompetenza testuale.
Rinarrando per secoli imitati
sono i classici fronde sempreverdi
di cui non si sa cosa, foglie o rami,
imparando si deve trasformare.
Versione letterale non sa cavar
succo da foglie di bronzo, gustoso
è fonder rami d’oro in esegesi.
Polisemia emancipa il pensiero
di colui che l’esprime nel commento.
Dei classici al liceo buon maestro
s’immagina l’intender dell’alunno
che sancisce il mistero di quei testi
in nostra gadgets-lingua postmoderna.
Tutto quello che sorge dalla terra
erba spighe cespugli alberi fiori
rispunta cresce muore e si rinnova
conforme al tempo ciclico del cosmo.
Dal mondo vegetale poté l’Uomo
ricavare metafore di vita
alternative all’essere caduco
senza ritorno come gli animali.
la clessidra, il tempo, lo spazio
la clessidra, il tempo, lo spazio
Note ai testi
Epitaffio per la morte delle nuvole: scritto in risposta all’articolo di Giorgio Linguaglossa del 14 aprile 2017 in L’Ombra delle parole Rivista Letteraria Internazionale https://lombradelleparole. wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/ Prima lontana versione del 1979. L’autore ringrazia Carlo Suani per l’attenta analisi di una variante del marzo 2017. Al v. 6 colline del cielo: cfr. F. Hölderlin, Mnemosyne v. 5 «den Hügeln des Himmels».
Villa con parco: febbraio 1980/2016.
La buona amministrazione: 1995/2017. Al v. 7 è citata la chiusa di The Love Song of J. Alfred Prufrock di T. S. Eliot. Ai vv. 11-13 cfr. Ossip Mandel’štam, Man gab mir einen Körper, 7-12, in Hufeisenfinder, Leipzig 1987. Se la metafora del fiato sul vetro è del russo Mandel’štam, il motivo della stanza di vetro inondata, una specie di acquario, ricorre nei surrealisti rumeni del gruppo Critica mizeriei, che Celan frequentò a Bukarest negli anni 1946-47. Dalle finestre della casa-psiche di Gellu Naum, Paul Păun, Virgil Teodorescu e Paul Celan entra il diluvio e fa annegare l’io, ma essendo le pareti trasparenti si può assistere da fuori al “naufragio”. Cfr. Wiedemann-Wolf, Barbara: Antschel Paul – Paul Celan Studien zum Frühwerk, Tübingen: Max Niemeyer, 1985, pp. 131-135.
A Silvia Ronchey: 1997/2017.
Satira sulla traduzione (2015-17). Dedicata al filologo e antropologo del mondo antico Maurizio Bettini, che compie settant’anni nel giugno 2017. S’intenda «satira» come genere letterario oraziano, ma cfr. IV, vv. 17 sg. La prima strofa è una parafrasi di Orazio, Ars poetica 60-62 e 70-72, contaminato con Dante, Par. XXVI, 130-138. Al v. 8 cfr. Ars 63. Al v. 11 cfr. M. Bettini, Vertere un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino: Einaudi, 2012, p. 33.
Seconda strofa, ai vv. 1-5: nella cultura orale/aurale dei primi quattro Veda le fronde sono atti di parola udibile, versi recitati o cantati: cfr. Bhagavadgita XV, 1. Nella cultura europea attuale le foglie sono singole unità dell’enunciato scritto visibile. Sulla indistinzione lessicale tra parole e mot nella civiltà greco-latina, cfr. Bettini, Vertere, p. 85. Ai vv. 6-8 cfr. i significati traslati del “legno” della Croce nella letteratura cristiana. Ai vv. 11-14 vd. l’uso del simbolo dell’albero nella grammatica generativa fondata da Noam Chomsky. Ai vv. 17-18 cfr. Bettini, Vertere, pp. 44-49 e 86-87.
Quarta strofa, vv. 1-2: i best-seller narrativi sono traducibili abbastanza letteralmente se le lingue in gioco sono affini e se in essi prevale una referenza extratestuale. Invece è molto difficile da tradurre la connotazione della poesia, la risonanza co- ed intertestuale dei testi letterari ad alto livello di elaborazione stilistica. Tuttavia, come ha affermato Samir Thabet nel recente convegno della Thomas Bernhard Gesellschaft di Vienna, la traducibilità d’un fenomeno è inversamente proporzionale al suo ordine di grandezza: la singola parola (o sintagma) può risultare intraducibile, facile invece riprodurre in altra lingua un dato strutturale del testo. Ai vv. 3-5: cfr. Bettini, Voci antropologia sonora del mondo antico, Torino 2008, capp. II, IV e VII. Al v. 6: secondo lo Scaligero il lat. lignum deriva dal verbo legere ‘raccogliere’ e significa etimologicamente «rami secchi, che si raccolgono per abbruciare» (cfr. http://www.etimo.it). Dall’idea del ‘percorrere raccogliendo’ nasce il senso secondario del lat. legere: ‘leggere’. Ai vv. 7-8: la fruizione dei testi ad alta letterarietà è simile alla lettura di una partitura: la significazione complessa della poesia richiede la compresenza mobile di molti operatori, il cui insieme si forma pian piano nella mente del lettore, perché i numerosi elementi impliciti vanno richiamati con lo studio e anzitutto con la ricerca delle fonti. Sarebbe vano tentar di riprodurre in una semplice traduzione l’effetto complessivo dei vari operatori che contribuiscono al significato di un testo letterario. Infatti il testo nella lingua d’arrivo sarà sempre solo melodia senza accompagnamento. Fornire la successione ordinata degli elementi armonici spetta ad un commento. In generale i testi classici, ricchi di arte allusiva, quali nudi testi senza commento, vanno considerati melodie falsificabili, orfane di armonia. Per una loro adeguata fruizione serve un commento, che almeno illustri il contesto letterario e storico. (All’ideazione del paragone ha collaborato il citato Samir Thabet, che è anche musicista). Ai vv. 9-11: la scuola di antropologia storica, risalente a J-P. Vernant e C. Lévi-Strauss, di cui il dedicatario è autore di seconda generazione, opera con nuovi metodi da 52 anni – nel 1964 Vernant fondò il centro Gernet – per ricostruire il contesto culturale originario dei testi classici greci e latini. Al v. 13: versatile in quanto filologo, antropologo, narratore, musicista e serendipico maestro di percorsi universitari (Pisa, 1976-80). Al v. 17: licenza di mescolare poesia e prosa e di usare il bilinguismo italo-tedesco (l’autore vive in Alto Adige), come il latino e il greco convivono nel genere latino della satira menippea. Cfr. Bettini, Del tradurre, Antenore 2011. Al v. 18: Luciano di Samostata compose alcuni dei suoi dialoghi a partire da un solo verso di Omero, analogamente qui la traduzione d’un singolo verso è occasione per mettere in scena il personaggio di Orazio frustrato.
Quinta strofa, al v. 1 «pesano» cfr. Vertere, pp. 98-104. Al v. 3 «impresse» cfr. Ars poetica 59. Il v. 7 fu ispirato dal richiamo iconografico sulla copertina della cit. edizione di Vertere. Il mito di Apollo e Dafne è utile per ricostruire il paradigma metaforico di Orazio, Ars, 60-62. Verso 11: cfr. Ovidio, Metam. I, 539-552, al cui racconto s’attiene lo scultore Bernini; il distico latino sul cartiglio alla base della statua allude al Canzoniere di Petrarca. La versione tedesca dei vv. 10-18 è di Annamaria e Jakob Engl e Dorothea Tommasi, che qui l’autore ringrazia sentitamente. Retroversione in italiano: come Dafne trasformata in arbusto d’alloro, come il mito di Apollo e Dafne interpretato in versi, come questi ultimi a loro volta raffigurati nel marmo; tuttavia, poiché oggi quelle sottili foglie di marmo risultano più belle dei versi, Orazio vuole paragonare la propria fama, ormai impallidita, con il gruppo scultoreo ‘Apollo e Dafne’, vuole sentirsi fruito con sensibilità barocca, affinché gli studenti riescano ancora a comprenderlo!
Sesta strofa, al v. 7 della strofa V: cfr. Valerio Giovanelli, Il mito di Apollo e Dafne e la tradizione esegetica delle moralizzazioni di Ovidio nel Canzoniere di Petrarca, in Carte Italiane vol. 2 (2007), 2-3, pp. 23-34. Sul mito di Apollo e Dafne nel Canzoniere, collegato al senhal Laura, cfr. bibliografia in Carlo Vecce, Francesco Petrarca, in Il mito nella letteratura italiana, vol. 1: Dal Medioevo al Rinascimento, Brescia 2005, pp. 212 sg. n. 67. Bettini s’è occupato di Petrarca e la storia dell’arte ne Il ritratto dell’amante (Torino, rist. 2008). Al v. 9 della strofa V: sul confronto topico tra parola e marmo, cfr. almeno Orazio, Odi III, 30, 1-2 e Petrarca, Rime, 104, 8.
Settima strofa: i classicisti italiani più conservatori hanno attaccato il dedicatario supponendo che suggerisse di abolire la pratica della traduzione a scuola. In «Quelle inutili anzi dannose traduzioni greche e latine» [titolo fuorviante], la Repubblica, 5 marzo 2015, Bettini menziona proposte elaborate negli ultimi decenni da gruppi di lavoro di insegnanti, volte a migliorare o integrare la prova finale di maturità, attualmente una nuda versione dal latino o dal greco. Tale formato penalizza gli alunni del classico rispetto ad altri indirizzi e frustra ogni eventuale impegno precedente ad insegnare l’aspetto culturale dei testi studiati. Ai vv. 5-7: cfr. Vertere, p. 113. Ai vv. 14-21: sulla linearità / ciclicità del tempo, che sono «rappresentazioni primarie in ogni società», cfr. Carmela Pignato in Dizionario di antropologia, a cura di U. Fabietti e F. Remotti, Bologna 1997, p. 744, s. v. Tempo.