[Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive]
Presento questo primo post ponendo prima di tutto un interrogativo: perché le due scritture – prosa e poesia – la cosiddetta letteratura – soffrono oggi di una malattia da deperimento?
Certo, mi rendo conto che anche le altre arti sono in crisi: pittura e scultura oggi sembrano produrre poco di significativo: la musica classica contemporanea (elettroacustica, etc.) sembra stia girando su se stessa, le installazioni artistiche sono spesso meri giochi di abilità, Ai Weiwei espone mille selfie di se stesso, e noi non siamo così stupidi da non capire che espressioni come queste, apparentemente originali, nascondono (a fatica) una immensa povertà di idee…
Rispondo a tale quesito in due modi: con il testo “Conversazione con Gilberto” che segue, e con il primo di una serie di commenti esplorativi che trovate più sotto, subito dopo qualche mia poesia, perché questa è una rivista di POESIA, e la prima privilegiata su queste pagine deve essere sempre lei, la POESIA.
(Steven Grieco Rathgeb)
[Il cobra, non più il giardino. La memoria]
Steven: Gilberto, ho pensato ad un certo tipo di opera d’arte come ad una scatola chiusa. Dentro non sappiamo cosa c’è: potrebbe anche essere vuota, chissà. Ma ha una decorazione esterna molto piacevole.
E poi c’è una scatola scoperchiata, aperta, al cui interno è visibile una installazione. Diciamo una poesia scritta su un foglio – passami questo esempio, visto che sono poeta: i graffi nerissimi sul foglio bianco sono i segni, le cieche asticelle significanti di un grumo autocosciente, auto-creato, che si va costruendo man mano che lo leggiamo, osserviamo.”
Gilberto: Questo mi fa pensare quanto ancora oggi siamo abituati a muoverci culturalmente entro certi confini. E quanto le cose sono, in effetti, a partire dal secolo scorso, cambiate.
Ad esempio, in questo caffè dove stiamo seduti, il nostro parlare prende un senso che non può essere avulso dal contesto: il passare frettoloso dei camerieri, il bisbiglio delle persone. Un tempo forse non avremmo espresso la cosa in simili termini. Non trovi affascinante pure tu questo nostro modo di essere qui?
S.: Questo tinnire di tazze e bicchieri, questo frusciare dei nostri vestiti quando ci muoviamo: è anche nei rumori intorno a noi che oggi riconosciamo l’incomparabile musicalità delle cose. Direi una cosa meravigliosa.
G.: Ovunque volgi lo sguardo, la scena si illumina e prendiamo coscienza di parte di questa realtà che ci circonda. Ovunque, perché non può esserci, io penso, nessuna zona di ‘nulla’. Ecco, guardo in quella direzione e scorgo la luce magica che viene dalla porta d’ingresso in questo tardo mattino di sabato.
S.: Ho sempre avvertito le ombre di possibili eventi – addirittura di epifanie – che esistono intorno a noi. Possono manifestarsi in vari modi: o possono anche starsene lì per sempre, folla ‘irrealizzata’ che non vivremo mai. Ma se per caso il mio sguardo dovesse posarsi su una di loro, lei può illuminarsi, forse anche entrare nel mio raggio di esperienza. Arriverò anche a dirla ‘mia’.
opera di Gilberto Peverini
S.: Caro Gilberto, il nostro incontro di qualche ora fa è solo un ricordo. Sto tornando a casa sotto i platani autunnali di Castro Pretorio. L’aria di questo pomeriggio di dicembre è immobile: le grandi foglie marroni senza vita scendono sfiorandomi la testa e le spalle. Cadono come corpi sfasciati, dimentichi di se stessi.
Al mio collega giapponese il waka aveva insegnato molte cose. Una di queste: il vento è invisibile. Riconosci il suo soffiare solo dai suoi effetti sui volti e sui capelli della gente, da come scuote i rami e le foglie degli alberi. Dalle rilevazioni di un anemometro. Eppure il vento è sempre tra noi.
La scatola sul tavolo. Leggera. Il vento la butta giù.
G.: Volevo proprio riflettere, caro Steven, su quella tua scatola vuota. Pensa in quale momento storico complesso e strano viviamo. E ripeto: l’opera d’arte fatta come scatola vuota ma esternamente decorata è probabilmente figlia di una cultura conformata a degli assoluti. Modi di fare arte che nel secolo scorso hanno iniziato a lasciare spazio a nuovi linguaggi: linguaggi aperti, che dialogano non solo con chi fruisce, ma con il luogo, col circostante, con le stagioni, l’autunno, la primavera. Aprirsi all’inatteso. Allora i confini dell’opera tendono a dissolversi e confondersi con tutto il circostante, e l’opera stessa non sarebbe più il lavoro compiuto dell’artista: quest’ultimo farebbe semmai da tramite per un contesto più ampio.
S.: Guardo la scatola. Che strano! Il suo stare qui, e non lì: il mio guardarla, in qualche modo la influenza, sembra compierne la forma; ma, anche, dà ad essa delle sfumature particolari. Tutto ciò è forse influenzato dal fatto che la scienza studia realtà per noi sempre meno visibili o direttamente percepibili, ma che pure determinano la nostra vita come ciò che invece percepiamo?
G.: Abbiamo sempre pensato che l’arte fosse il prodotto dell’atto cosciente di un artista. Ma se parliamo di contesti allargati, come stiamo facendo adesso, possiamo anche chiederci il senso che ha un’opera quando il suo circostante ne determina sempre più fortemente il linguaggio. Pensa a come in fisica quantistica l’osservazione determina lo stato del fenomeno. ‘Non osservare’ implica uno scenario completamente diverso, addirittura paradossale, nel quale coesistono realtà contraddittorie.
Non prendere coscienza di uno stato non esclude però la possibilità che esista quello stato, ed altri potenzialmente tanto ricchi quanto quelli di cui abbiamo coscienza. Anche quel mondo infinito che rimane buio intorno a noi partecipa del nostro essere, dialoga in modo oscuro, indicibile, con parti di noi.
Certo, abbiamo sempre bisogno di dare un senso alle cose. Ma per quanto ricco, vasto, affascinante, quel senso non è tutto. Noi siamo sempre molto di più.
S.: Mi sembra che qui tu tocchi il concetto scientifico di supersimmetria. Un concetto che, in modi diversi, certamente, io uso in poesia. Lo spazio è gremito di presenze che nessuno avverte: le cosiddette assenze. Dietro la facciata dei palazzi che ci circondano, scale di ferro salgono in ogni direzione ai piani più alti. A noi chiusi qui in basso rimane il senso, adesso, dei cortili. Ma immaginiamo altro. Dire ‘irruzione di realtà’ forse non è altro che alludere al mondo allargato, l’aria e il cielo sopra i palazzi, che pure è sempre con noi. Quel tinnire di tazze e bicchieri che dicevamo prima: i suoni dolci, altri che invece feriscono l’udito. Non tutti i suoni ci piacciono, ma il mondo allargato è sempre qui con noi. E così, dico con te: non è che tutto ci tira verso una piena partecipazione delle cose?
G.: Visto che parli di ‘mondo allargato’, fammi tornare indietro un momento. E’ questo allora ciò di cui stiamo parlando? Una forma d’arte ‘aperta’ dove l’artista è solo uno strumento in mezzo a tanti strumenti? Penso alla dissoluzione del confine netto di una opera d’arte che allora si apre al suo contesto, il quale stesso contesto diventa messaggio, opera; e il fruitore lui stesso parte dell’opera d’arte; il tutto, opere in continuo mutamento.
S.: Certo. Ma la ‘opera artistica’, anche nel suo senso più lato, ancora conserva – deve conservare – delle ‘separazioni’, dei sottili tramezzi, delle intercapedini, fra ‘opera’ e ‘tutto il resto’. Il che non esclude quello che hai detto tu adesso, ‘opere in continuo mutamento’. Prendo un esempio: capita che, ascoltando una musica, ci troviamo, di colpo, ad essere coscienti anche del fruscio dei nostri vestiti, degli altri rumori intorno a noi: allora quella musica esce dal suo contesto predefinito, delimitato, quasi troppo sacrale, ed entra meravigliosamente nello spazio in cui io, ascoltatore, mi trovo. E, grazie ai rumori intorno a noi entriamo più profondamente in quella musica per la porta, adesso spalancata.
‘Musica’ non è soltanto ‘atto cosciente del musicista’. E’ anche ‘ascolto’. Quasi che il vento avesse, scoperchiandola, aperto la bellissima scatola.
Ora, questa esperienza sonora sarà ovviamente più facile averla con un pezzo di musica classica contemporanea, elettroacustica o orchestrale, non importa. Infatti, questa è una musica che ha aperto all’ascoltatore un nuovo orizzonte sonoro, uno che prima nella musica occidentale semplicemente non esisteva. Così, la musica si è aperta all’universo del suono, e al rumore. Mi ricorda la cosa dello spazio sacro e dello spazio profano di Mani.
opera di Gilberto Peverini
G.: Sì, ma torno a chiederti: questo cambia il nostro modo di concepire l’opera artistica?
S.: Certo che lo cambia.
G.: Se i confini dell’arte si dilatano fino ad inglobare tutto il circostante, come ‘partecipa’ questo circostante all’opera stessa? In che modo possiamo percepirne il senso?
S.: Ho appena dato un esempio, del tutto legittimo, ma che ovviamente va preso con le pinze. Non si tratta qui di fare generalizzazioni.
G.: Se i confini dell’opera si dissolvono del tutto, allora può essere arte anche il nostro stare qui, questa atmosfera cittadina, questi rumori, queste luci. Insomma, se andiamo in questa direzione, tutto diventa unico, si frammenta … diventa ‘soggettivo’. Un intero universo ricco di simbologie di segni di luci e suoni, ma sempre diverso, e unico.
S.: E’ per quello che parlavo prima di ‘separazioni’, in alcuni casi sottilissimi (ad es. nel pezzo “Bird Cage” di John Cage) ma pur sempre determinanti, fa ‘opera’ e ‘tutto il resto’.
G.: Sì, perché rimane però che arte è anche ‘messaggio’. Anzi, più il messaggio artistico è universale, più è potente. Se facciamo un’arte completamente “aperta” al suo circostante, non giungiamo ad un minimalismo poco dialogante, dialogante se non con se stesso?
S.: Sembrerebbe giusto quello che dici. Però non escludo sorprese. Bene o male, non viviamo più in un mondo di assoluti. Il ‘tutto è possibile’ può portare (come sembra stia facendo adesso) alla banalizzazione più totale di ogni contenuto, certo, ma da quell’oceano può anche nascere una nuova Afrodite. Adesso però vediamo solo come gli argini sono scoppiati, la piena ci sta arrivando addosso. Non so quanto abbia senso difendere i piccoli lembi di terra dall’alluvione: meglio imparare a navigare su quelle acque. Sarà quel che sarà.
Penso ad Anemoessa, il soffio del vento omerico. Un pezzo musicale che in qualche modo contraddice quello che hai appena detto. In Anemoessa, il suo autore, Iannis Xenakis, lega a noi quel tempo remoto, omerico, per mezzo di fischi, sussurri, sibili, suggestione sonora delle voci di poemi senza numero che trasvolano i millenni nell’infinita dolcezza e nei possenti tromboni della rosa dei venti. Nei vasti vuoti ventosi collocati di traverso al paesaggio vivono, da lui inspirati ed espirati, le musiche d’Occidente come soffi impercettibili, e i microtoni delle antiche melodie. Un intero mondo che coglie – primo fra tutti – il labirinto che è dentro il nostro orecchio umano.
Allora considero una poesia ciò che non vive più soltanto all’interno della bellissima scatola. Piuttosto, una poesia che sulla pagina soffia nel vento dell’Egeo.
G.: Xenakis è molto interessante. Ma lasciami fare una distinzione. Un conto è un opera d’arte che si arricchisce di nuovi linguaggi aprendosi a possibilità espressive impensabili nel passato. Altra cosa è la dissoluzione dei confini dell’opera stessa.
S.: Certamente.
G.: Forse tale dissoluzione è impossibile, estremizzata, utopica. Ma ora, qui, del nostro discorso cosa rimane? Forse abbiamo percepito per un attimo le possibilità che può avere questa decostruzione dell’arte, in quanto apre il campo ad un arte nuova che ancora non ha nome?
S.: Avevo in mente qualcosa cosa del genere…
G.: Se un tempo pensavo di vivere in un universo infinito, ora in un modo più complesso ho la sensazione di vivere in un universo infinito che è dentro un altro universo infinito ed è accanto ad altri universi ancora. Se ci penso mi stordisce questa architettura. La mia mente non è fatta per concepirla, eppure il mio corpo, qualcosa di me, vive questa condizione.
S.: Se l’artista può fare qualcosa oggi, è fornire una immagine di questo sentire a noi non ancora del tutto familiare. Ed è proprio di “immagine in arte” che vorrei parlassimo la prossima volta.
opera di Gilberto Peverini
Qualche mia poesia:
VERSO BANERIA
Questa steppa desolatissima, le rondini. Passa qualche camion al tramonto: la prosopis cineraria ne avverte il colpo d’aria. In un terreno così arido, solo le falde freatiche in profondità garantiscono la sua sopravvivenza.
Il ciuvascio Gennadij Aygi parlava della mamma intenta alle sue faccende nella loro povera abitazione quando lui era bambino: vivevano di giorno in giorno, eppure intravedevano la distanza, l’invisibile nelle cose.
A Udaipur, la luce delle vetrate è rosso, giallo, verde, blu. Non si vede niente all’esterno, finestre fatte apposta per chiudere il dentro dal fuori. Le donne nel gineceo. Di nuovo l’ho avvertito. “Who are you?” Il riferimento è ai Kalbelya: “Non sei nessuno se non sei intessuto nella tua comunità: peggio di un granello di polvere nel vento impetuoso del deserto.”
“Ah!” dice Nihal, fermo davanti al pozzo: “se la tartaruga ancora vive laggiù sul fondo, posso berne l’acqua!”
Qui il popolo è stato violato per secoli e secoli. Notava il Capitano Mathur di Jodhpur: “vado in giro per queste steppe, e la sua gente derelitta mi parla sempre come mi parli tu del tuo Maestro. Mi sorprende che non abbiano nessun altro desiderio.” Lui era anche andato a Brindavan, fra le sabbie dello Yamuna, dove aveva conosciuto un cocomeraio che seminava i suoi cocomeri nel letto asciutto del fiume. Gli chiese quell’anno come era andata, ebbe risposte vaghe: le piantine erano cresciute vigorose, poi una piena del fiume aveva portato via tutto. E l’anno prima? Una gelata invernale.
Il ricordo può apparire come un giardino trascurato. La foresta non è mai trascurata, ma un giardino lo diventa quando l’uomo se ne dimentica. Così, io ho scordato Asha Bahinji. Nihal chiede al giardiniere: “C’è ancora il vecchio cobra?” “Certo! – risponde quello. – I cobra possono vivere fino a cento anni.” Tutto intorno a quest’uomo in piena luce c’era il groviglio impenetrabile di fronde.
Il cobra, non più il giardino. La memoria.
È bella una storia che si snoda come un fiume. Mi ricorda “Itaca” di Kavafis. Ma vorrei togliere quell’eccessivo soffermarsi sul puro godimento della vita: leggo “Itaca” più come uno snodarsi senza direzione.
Gennadij Aygi: “iniziai per gradi a contrapporre qualcosa di diverso alla poesia come ‘gesto’: Non si trattava propriamente di contemplazione. No, era un’altra cosa, una immersione sempre più profonda in una sorta di unità auto preservante, una cosa che posso solo descrivere come “non diminuente-dimorante”, qualcosa da cui l’intervento umano non ha ancora fatto nascere quel fenomeno cui diamo il nome ‘gesto’.”
Siamo entrati nella fortezza deserta al tramonto, quando i muri biancheggiano nell’ultima luce. Le volpi volanti sfarfallano veloci nell’atrio sfasciato.
(Deserto del Thar, febbraio 2010)
VICINO ALLA STAZIONE DI NOGIZAKA
Gli eventi di chissà dove,
immagini che giacciono aggrovigliate; e i loro filamenti
inspiegabilmente sciolti, ma di nuovo intrico.
E segue la perdita di ciò che si sussegue
e di nuovo si perde; le gallerie in luce spezzata,
follia umana: straniamento
che intreccia il sotto-sentiero, zig-zag
disfatto come nodo assente
nel gran splendore di questi eventi!
Ma come si, o non si avvolgono;
e dove, chissà dove si svolgono.
(Tokyo, ottobre 2005)
Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi
“NARCISO S’INCANTA”
Non si strappa dal se stesso miracoloso:
ne ammira perduto l’immagine complessa
che guarda senza vedere, senza vedere
gli occhi creatori insaziabili.
Lui
che lui divora.
E quando l’imbrunire frana sulla polis,
trasecola nei polmoni questo male
nello sguardo sbarrato
(febbraio-marzo 1988)
L’IRRILEVANZA DEL POETA 1
I venti hanno smesso di soffiare,
la via biforcata, il pendio storto si vedono bene.
Ma se la vita fosse solo poesia, e la poesia non vita:
se fossero la verità dei cieli azzurro-pietra ogni giorno senza pioggia,
gli alberi stellati e l’inspiegabilità delle foglie
una semplice illusione
che tutti mi concedono con un sorriso:
se fosse questo
non saprei come andare avanti.
La via si apre un po’ con ogni passo
ma non ci sono passi che portano nel buio
(via Merulana, autunno 2012)
L’IRRILEVANZA DEL POETA 2
Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.
E’ il disco infranto di una luna nuova,
frantumi taglienti di vetro brunito sparsi qua e là.
Dentro gli interstizi
con alberi e colline notturne ancora in luce di latte,
un paesaggio sognato mente spudoratamente.
(via Merulana, autunno 2012)
Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi
PRIMO MIO COMMENTO ESPLORATIVO SUI “MALI” DELLA LETTERATURA OGGI
Sarebbe difficile contestare che dalla seconda guerra mondiale a oggi la letteratura dorme il lungo e pacifico sonno del senso letterale della parola. Al quale è consentito, al massimo, il volo, sempre controllatissimo, del senso figurato, del “traslato”. Non sembrano esistere oggi scritture davvero significative: un Dostoevskij sembra una assoluta impossibilità (eppure…). In più, le varie convenzioni letterarie – quali la metafora, e per la poesia anche la metrica, l’enjambement e tutte le altre ferruginose incrostazioni – gravano ancora addosso alla scrittura come un macigno togliendole il miglior respiro.
Inoltre quasi tutta la poesia contemporanea che leggo è tornata inequivocabilmente su posizioni pre-moderniste, vendendosi falsamente come stile postmoderno, leggero, distaccato, ironico.
In effetti, pochi vogliono più saperne niente. E il poeta si è ridotto a scrivere per gli altri poeti e, peggio ancora, per se stesso.
Si trova ancora strano vedere la scrittura, tanto per dare un esempio, come un disegno: come una rappresentazione visiva quasi spazio-temporale, di inchiostro sul foglio bianco: il Pieno delle parole scritte (le energie cinetiche, e quindi anche trasferibili, del senso), il foglio bianco che invece evoca un qualche tipo di Vuoto, la potenzialità ancora inespressa delle Cose. In questo senso, il foglio bianco è parte integrante del testo scritto.
Ma non così strano! Qui gioca fortemente il fatto che la scrittura è fatta di parole e quindi dipende, come (quasi) imprescindibile punto di partenza, dal loro “senso letterale”, dall’aspetto semantico della lingua. La lingua è infatti il mezzo di comunicazione che l’uomo usa più di tutti gli altri.
L’aspetto semantico, il senso letterale delle parole, è una matrigna durissima: non ammette se non minimi sovvertimenti, interruzioni del flusso del senso, pena il gibberish, il quack quack, lo sproloquio ‘insensato’, oppure l’Assurdo, il Dada, o l’umorismo del non-senso. (Questi ultimi stili di scrittura sono però secondo me assolutamente validi, soltanto che vengono considerati marginali dai più, forse perché non sono mai stati esplorati artisticamente in modo più esauriente.)
Ecco perché la scrittura difficilmente si apre alla possibilità di un travaso in essa di contenuti, in forma sostanzialmente immodificata, provenienti dalle arti visive, dalla musica: ovvero, li accoglie, ma non senza prima averli filtrati attraverso le parole, la sua griglia semantica, impietosa, illuminante ma anche castrante. I pochi tentativi in altre direzioni, poesia visiva, etc., non sono mai uscite dall’alveo della sperimentazione occasionale.
Il travaso inverso – dalla scrittura verso quelle arti – invece funziona. I testi scritti ad es. vengono musicati senza sottoporre il loro significato ad una metamorfosi irreversibile, quella della trasformazione a ciò che è intellegibile sul piano semantico. Il lavoro della musica sul testo scritto ad es. avviene in ambito sonoro: timbro, altezza, lunghezza del suono…
Le sorellastre della scrittura letteraria sono il linguaggio della scienza, il linguaggio del commercio, i linguaggi della comunicazione orale e scritta dell’ogni giorno in tutti i campi della vita sociale, dalla semiotica al bigliettino d’amore, al comunicato stampa di una società internazionale. Tutti questi linguaggi sono in perfetto e indiscusso accordo con la matrigna della semantica. Esse non sono maligne o cattive, semplicemente fanno la loro vita.
Di fronte alla presenza sempre più ingombrante – spesso di indiscussa superiorità – delle sorellastre, la scrittura letteraria tende oggi spesso a ridursi ad un timido balbettio. O a un gradevole prodotto della sfera del cultural entertainment.
Per contro, vedi il linguaggio usato dagli astrofisici o ai giornalisti scientifici per scopi divulgativi: questa citazione ad. es. da un articolo di Steve Connor, “The galaxy Collisions that Shed Light on Unseen Parallel Universe” (!!!), su The Independent, 26 marzo 2015:
Although dark matter is invisible, it can be detected and mapped by the gravitational distortions is produces on starlight. These three-dimensional maps have already revealed that it acts like an invisible scaffold around which ordinary matter accumulates.
Benché la materia oscura sia invisibile, essa può essere rilevata e definita (mappata) in base alle distorsioni gravitazionali che essa produce sulla luce delle stelle. Queste mappe tridimensionali hanno già rilevato che essa agisce come una impalcatura invisibile intorno alla quale si accumula la materia ordinaria.
E più sorprendente ancora:
Galaxy clusters, the largest objects in the Universe held together by their own gravity, are made up of three main components: stars, clouds of hot gas, and dark matter. When galaxy clusters collide, the clouds of gas enveloping the galaxies crash into each other and slow down or stop. The stars are much less affected by the drag from the gas and – because they occupy much less space, they glide past each other like ships passing in the night. da (http://chandra.harvard.edu/photo/2015/dark/ )
Gli ammassi di galassie, [ovvero] gli oggetti più grandi nell’Universo ad essere tenuti insieme dalla loro stessa gravità, sono composti da tre componenti principali: stelle, nubi di gas caldo, e materia oscura. Quando gli ammassi di galassie collidono, le nubi di gas che le avviluppano si scontrano fra di loro con violenza e poi rallentano o vengono a fermarsi. Le stelle sono molto meno interessate dal [la azione di] trascinamento del gas e, dato che lo spazio è di gran lunga minore, esse si incrociano come fanno le navi scivolando di notte [sul mare].
Qui lo scienziato ha usato la lingua da vero poeta! Ma voi poi troverete sui siti scientifici italiani tante altre citazioni di questo tipo. (E scusate la mia traduzione affrettata!)
Dato che la scrittura letteraria non gode di buona salute, possiamo solo tornare indietro alle sue origini per capire cosa è successo: non tanto a quelle orali in questo caso, ma a quelle pittografiche. ossia “un ideogramma che comunica il proprio significato tramite la sua somiglianza pittorica ad un oggetto fisico”. Sembra un dato certo che gli alfabeti odierni radicano tutti in antiche scritture pittografiche. Ma è quello che è successo in seguito che dovrebbe entusiasmare noi postmoderni oggi: le pittografie si sono andate stilizzando nei secoli antichi, fino a diventare “lettere”, nelle quali semplicissimi tratti, segni, indicano l’immagine: “imbrunire” è una parola forte, evoca il crepuscolo avvalendosi del riferimento al colore bruno. In una sola parola come questa, ci sono mille o diecimila immagini.
Per contro al carattere cinese, che di per sé e diversamente dai nostri alfabeti medio-orientali e indiani racchiude immense potenzialità per la scrittura poetica (Il libro di Fenollosa ha contribuito fortemente all’avvio dell’Imagismo dei poeti inglesi e americani degli inizi del secolo scorso); diversamente da questo, dobbiamo riflettere su i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore. Se si tratta di un testo commerciale, lo si leggerà per la sua specifica suggestione di ciò che si compra e si vende; se un testo scientifico, per la specifica comunicazione del linguaggio scientifico. E così via. Arrivando alla scrittura letteraria, troviamo la virtualità suggerita dalle lettere dell’alfabeto portate a dei livelli incredibilmente immaginifici: capaci di ispirare il lettore, profondamente commuoverlo, spronare la sua immaginazione, apportare in lui realizzazioni di mille tipi diversi, etc.
Sembra tutto evidente. Ma non lo è per niente, perché in realtà anche noi poeti raramente ci soffermiamo su questo aspetto più intrinseco di quello che chiamiamo “scrittura”: diciamo, lo stadio precedente alla scrittura vera e propria: quando ancora le parole non hanno formato frasi, significati più estesi, ma stanno in una zona transitoria fra il non detto e il detto. Voglio dire, non entriamo più profondamente nel valore davvero immaginifico delle parole, costruite con quegli strani segni: senza pensarci nemmeno un po’, prendiamo la parola “imbrunire” e la mettiamo là dove ci è necessario indicare o suggerire l’ora che viene subito prima della notte: non pensiamo più di tanto all’enorme e fulmineo lavoro mentale che quell’insieme di tratti tracciati con l’inchiostro esprime. Perché questa non è pictografia: e tuttavia la potenza immaginifica di quei tratti di inchiostro così astratti evidentemente tornano ad un qualche antichissimo valore pictografico che si nasconde anche nei nostri alfabeti, Russo, Latino, Greco, Sanscrito ed altri.
Qui la scrittura si apparenta alla pittura. Laddove invece la scrittura diventa orale, essa si apparenta alla musica.
MA ALLORA CHE DIAVOLO DI FACCENDA È QUESTA?
Intendo dire che LA VIRTUALITÀ DELLE LETTERE TRACCIATE CON L’INCHIOSTRO È POTENTEMENTE IMMAGINIFICA, PROBABILMENTE DI GRAN LUNGA PIÙ POTENTEMENTE VIRTUALE DI OGNI REALTÀ VIRTUALE TECNOLOGICA, in base alla definizione corrente di realtà virtuale, “Simulazione all’elaboratore di una situazione reale con la quale il soggetto umano può interagire…” della Treccani; oppure del Merriam Webster’s: “An artificial environment which is experienced through sensory stimuli (such as sights and sounds) provided by a computer and in which one’s actions partially determine what happens in the environment” (“Un ambiente artificiale che viene vissuto attraverso stimoli sensoriali (visivi e sonori) forniti da un computer, e in cui le proprie azioni determinano in parte ciò che avviene in quell’ambiente.”)
Ecco, finisco dicendo: la virtualità che tramite gli alfabeti e la scrittura si è sviluppata nel corso dei secoli, ovunque nel mondo, è probabilmente ancora oggi la virtualità più potente, più immaginifica che esista. Per questo, io penso, è destinata a restare. Resta comunque la questione di come la scrittura letteraria entrerà nelle virtualità elettronica (entrare per esempio nelle chat rooms continuando però ad esprimere il suo antichissimo e modernissimo spirito espressivo): non so esattamente come lo farà, ma so con certezza che questo dovrà farlo, dovrà assolutamente farlo, pena la scomparizione.
È necessario che lo scrittore e il poeta oggi riscoprano, che noi della NOE oggi riscopriamo, questa antica potenzialità della scrittura che ho cercato delineare sopra.
[Prima di mettersi al lavoro/ il pittore di questa/ immagine ricordi:/ Chi vuole rappresentare?]
da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016
The painter’s portrait
Before setting to his work,
the painter of this image should remember:
Who is he portraying? and reflect
how the narrow corridor through our world of chance
lies strewn with breakable misery
and fear of violent mishap
and sudden bottomless manholes:
for, clearly, the likeness of a distinguished forebear
or even the vision of all humankind
unlocking in one single flower,
are not what lies in his heart of hearts:
but considering that he may no longer
be shielded from thought of accident,
know the only way to be the way forward,
the whole face he dare not envision.
Then he will do his work in the best of ways,
and accomplish what he had always striven for,
knowing this to move strangely
between waking dream and recognition
and play down the importance of individual traits,
putting them surprisingly
where they are – much as meaning
rises out of words that sleep:
the city at night
resembling itself, intently
outside the window, enveloped in darkness.
So that his image may finally be expressed.
Then the painter will not only render
cheekbones and shading,
not only conjure light in the eyes.
His portrait will be memory itself.
2003
Il ritratto del pittore
Prima di mettersi al lavoro
il pittore di questa immagine ricordi:
Chi vuole rappresentare? e rifletta come
l’angusto corridoio attraverso questo mondo dell’alea
è cosparso di umana disperazione
e del timore di violenti sinistri
e di improvvise botole senza ritorno:
perché la somiglianza di un illustre predecessore,
o anche la visione di tutto il genere umano
schiusa in un unico fiore,
non sono certo quello che lui ha nell’animo:
invece, sapendo di non avere più riparo
dal pensiero di sciagure,
capisce che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che non osa immaginare.
Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
e che lui ben sa muoversi strano
fra sogno ad occhi aperti e riconoscimento
e senza dare troppa importanza alle fattezze del viso,
le porrà dove già si trovano:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono:
città di notte
assorto specchio di sé,
fuor di finestra, avvolta nel buio.
Affinché la sua immagine possa compiersi.
Allora il pittore non avrà solo reso
zigomi e ombreggiature,
non solo evocato la luce negli occhi.
Il suo ritratto sarà la memoria stessa.
(2003)
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Gilberto Peverini, nato a Roma nel 1954. Lavora presso l’Atac, dipinge, legge filosofia