(Da: Jean Clair, da Ivan Theimer, catalogo Regione valle d’Aosta, 1998)
Vi sono oggetti che credevamo familiari e che, subdolamente, si sottraggono a noi, scompaiono furtivamente dall’orizzonte che pensavamo immutabile, spariscono da una scena che credevamo solida. E poi, un bel giorno, ricompaiono, un po’ strani, fuori posto, incomprensibili. Il monumento, per esempio. Chi oggi, si preoccupa dei monumenti? Chi osa prenderli in considerazione? Chi ne intraprende la costruzione? Li credevamo eterni, o, per lo meno, solidamente radicati nella vita, ed eccoli invece appartenere alla sfera del passato.
Non è certo difficile intuire le cause immediate di tale scomparsa. Chi ha ancora il tempo di edificare monumenti? Chi regna abbastanza a lungo per assumersi il rischio di esserne il committente? Quale architetto o quale artista ha una presunzione tale da decidere di farli rivivere?
Mancanza di tempo da parte dei committenti, degli artisti, nonché del pubblico. Il monumento non è compatibile con la cultura dell’automobile. Si costruiscono edifici di tutti i tipi, municipi, scuole, ospedali, ministeri, musei ‘arte contemporanea, ma nessuno più erige monumenti.
In questa sede sarà utile allora, visto che il monumento è prossimo alla fine, interrogarsi sulle sue origini. La parola “monumento” compare nella lingua del XII secolo, nel periodo che gli storici dell’arte chiamano proto-rinascimento, quando per la prima volta, in Occidente, il patrimonio culturale della tradizione classica viene rivalutato e serve da modello ai primi scultori e architetti del gotico.
Monumentum, in latino, copre un campo semantico piuttosto vasto: ha a che fare con il ricordo: monumenti causa dice Cicerone, “per conservare un ricordo”. Ha quindi a che fare con la cultura in quanto nata dal culto dei morti, e ben prima che la religione ne facesse il luogo di culto degli dei: monumentum sepulcri è la tomba.
Il culto dei morti, tuttavia, può estendersi alla conservazione e all’esaltazione di ciò che di memorabile l’uomo ha lasciato dietro di sé, scritti, memorie, documenti, annali: monumenta rerum gestarum, dice ancora Cicerone. Rousseau chiamerà quest’impresa i mémoratifs, i rammemoranti. Di un’opera notevole per dimensione o erudizione, costituita anche solo di parole, come per esempio il dizionario Treccani, si dirà comunemente che è un monumento.
Ivan Theimer
Molto tempo dopo, in Tertulliano, il termine monumentum finirà per indicare l’amuleto, il medaglione che si mette al collo dei bambini. Dall’opera dell’architetto, dalla summa dello scrittore, siamo passati alla categoria del ninnolo e del feticcio.
Evitiamo però di trarre conclusioni affrettate sullo status del monumento nella nostra cultura.
Sottolineiamo invece l’urgenza che presiede alla costruzione del monumento: monumento viene da moneo, ricordarsi, rammentare, dare testimonianza ma, anzitutto, avvertire. Un monumento è un ammonimento. Con la sua presenza ci ricorda quello che tenderemmo a dimenticare: ea quae a natura monemur. Gli avvertimenti che la natura e la stessa cultura ci trasmettono, dice sempre Cicerone, sono veicolati dai monumenti. Richiamo alla legge, a quanto c’è di significativo nel passato, il monumento apre la strada al futuro, informa, predice, annuncia, ispira. Quando Virgilio dice alla Musa che deve ispirare il poeta, è il verbo monere che impiega. Un monumento è una premonizione.
Il monumento ha quindi a che fare con la memoria ma non, come si crede, con la sua parte più sociale, decifrabile, ufficiale e scontata quanto piuttosto con la sua parte più oscura, più selvaggia, meno familiare, quella dei meccanismi di censura, del rimuovere o del riaffiorare, che fanno sì che l’uomo sia non solo l’essere dell’istante presente, come l’animale, ma anche del ricordo e del presagio. Animale storico, gli succede di partecipare al festino degli dei che detengono il futuro. In tale strategia cosmogonica il monumento esiste per aiutarci a togliere i divieti che il presente fa pesare su di noi in modo che possiamo impadronirci di quanto è stato rimosso e intuire quanto accadrà. Freud è stato uno degli ultimi umanisti del nostro tempo ad essere impressionato dai monumenti e ad individuarne il vero significato dietro tanti artifici. Erigiamo monumenti, che ci piace credere immortali, per liberarci dalla paura non tanto della morte quanto dell’oblio, dell’imbarazzo del lapsus, del timore di non sapere decifrare i segni, dell’apprensione dei giorni a venire. La grandezza di una cultura si misura allora in base all’importanza che essa attribuisce ai monumenti, i suoi soli edifici che non servono a nulla. È nella misura in cui le culture si sanno mortali che dedicano all’immortalità questi blocchi che il tempo a sua volta distruggerà.
[monumento di Ivan Theimer]
Andiamo avanti: in moneo c’è mens, l’anima in quanto attività dello spirito, facoltà di ragionare, manifestazioni dei caratteri e delle passioni. Il termine deriva direttamente dal greco menòs che ha lo stesso identico significato.
A questo punto sarebbe avventuroso e senza dubbio illecito avvicinare questo termine a témenos, che indica la sezione del tempio consacrata al dio – l’area sacra – e di cui ritroviamo il senso nel verbo latino contemplari, il fatto di entrare visivamente nel campo occupato dal tempio così come si staglia nel cielo.
Allora ricordiamo semplicemente questo: il monumento, che si presenta ai nostri occhi come un oggetto opaco e pesante, grave e inutile, in realtà è legato alla dimensione più recondita, più inafferrabile, più labile e più essenziale dell’uomo: la sua anima. Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima.
Ivan Theimer nasce nel 1944 a Olomone in Moravia. Nel 1968 partecipa alla Biennale Internazionale di Bratislava e, lo stesso anno decide di lasciare la Cecoslovacchia. Si trasferisce in Francia. Nel 1973 espone alla Biennale di Parigi. Nel 1978 alla Biennale di Venezia. Ancora alla Biennale di Venezia sarà presente nel 1995 per il centenario a Palazzo Grassi. Le mostre personali e collettive si susseguono in Europa, soprattutto in Francia, Italia, Svizzera, Germania che culminano nella grande mostra antologica nel 1996 al Belvedere del Castello di Praga. Numerose le sculture destinate agli spazi pubblici. Si dedica inoltre alla scenografia per l’Opera di Göteborg , in Svezia. Vive a Parigi ma soggiorna spesso in Toscana, a Pietrasanta.
Letizia Leone
Il monumento ebbro
La Porta.
Era da aprire al centro
Dell’immensa Agorà
Nel paesaggio svuotato dai mercati
Opaca e pesante. Volante come il culmine di una visione
Socchiusa sull’ala dello sprofondamento
Intanto che dai cardini fuoriuscivano cose a groppi
Esitanti piccolissimi animali e sagome d’uomini minuscoli
Moribondi anfibi o delfini – la Porta
Che nel riverbero di tutta quella luce rovente sulla piazza. La Porta
Immensa, non vedevamo.
Come i gusci, centinaia e centinaia di acini appesi alle ante
Tra le cotogne, grappoli e foglie carnose
(Avrebbe perfino pensato a una Rivelazione?)
Tanto era il vortice delle creature che schizzavano fuori
Disorientate. Ma a noi
E ai portatori
Premevano sul cuore certe cose di zolfo
Vive vivai gocce fiammiferi. Fosse stato anche solo il portato di un’illusione
Cervello e utero germinale nell’oscillazione di forme antiche che vomitava
La Porta.
Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano
Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca
Intanto che qualche altra cosa strisciava
Odore o sapore che aveva forma
Cifra o grillo, antimateria o polvere che aveva trovato il coraggio di uscire dal covo
Delle puzze e si ergeva ad animale di sangue nuovo malfermo
Su gambe su zampe ora eretto ora in ginocchio ma animale comunque incarnazione incontro alfine ricordo dell’uomo con la grande tartaruga in mano. O sotto i piedi, le tartarughe lente e orribili scarpe di un gigante a bordo. Navigavano le tartarughe. Scherzo ed oblio.
Con la potenza degli esorcismi intanto la Porta induriva conchiglie di viti giravano a velocità folle
E noi
Per il troppo bagliore un fuoco secco negli occhi accecati al centro della piazza cercavamo chi potesse dirci tutto di quel calice venereo che esalava. Corpi esplosi nuovo sangue.
Ci girammo verso i portatori ma erano già anneriti nel sole con l’obelisco in mano
Saldati nei loro gesti brevi
Di cavalieri di piombo.
Roma, 8 dic 2017 Convention Center , Più libri più liberi, Presentazione del trimestrale di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole
e della collana di poesia di Progetto Cultura Il dado e la clessidra – (da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb)
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Jean Clair scrive: «Di una civiltà che non sa erigere monumenti si potrà dire che ha, letteralmente, perduto la sua anima». Appunto, è di questo che ci parla la poesia di Letizia Leone, di questa perdita, ekfrasis del monumento impossibile di Ivan Thurmer. Una poesia impossibile per una «cosa» impossibile. Non sappiamo più che cosa sia un «monumento» proprio perché l’unico «monumento» vero, reale, realissimo, è quello che abbiamo edificato al nuovo Moloch, il Denaro con le sue Banche e le sue filiali e i suoi cortigiani: la civiltà massmediatica e i suoi utenti, i suoi schiavi mediatici. Non c’è più la «cosa», ecco il vero problema di cui ci dovremmo preoccupare, non c’è più la «cosa» perché ci sono miliardi di «cose».
Aristotele dice che il luogo di una cosa è ciò che sta intorno a quella cosa.
Newton corregge Aristotele e lo bacchetta, dichiara «banale» definire lo spazio come quella cosa che sta attorno alla cosa, e definisce «assoluto, vero e matematico» lo spazio in sé, che esiste anche dove non c’è nulla.
Commenta Carlo Rovelli:
«La differenza fra Aristotele e Newton è flagrante. Per Newton, fra due cose può esserci anche “spazio vuoto”. Per Aristotele, “spazio vuoto” è un’assurdità, perché lo spazio è solo l’ordine delle cose. Se non ci sono cose, la loro estensione, i loro contatti, non c’è spazio. Newton immagina che le cose siano collocate in uno “spazio” che continua ad esistere vuoto, anche se leviamo le cose. Per Aristotele lo “spazio vuoto” è un non senso, perché se due cose non si toccano vuol dire che fra loro c’è qualcosa d’altro, e se c’è qualcosa, questo qualcosa è una cosa, e quindi qualcosa c’è: non può non esserci “nulla”».1]
Possiamo porre il problema della «cosa» presente in poesia partendo da questi due concetti per dire che entrambi sono erronei, in quanto la «cosa» non è il luogo che occupa ma è un qualcosa che, letteralmente, fonda il luogo, fonda lo spazio e fonda il tempo. Il tempo e lo spazio sono «dentro» la «cosa», e questa splendida poesia di Letizia Leone segue esattamente questa idea, è a partire da questa idea della «cosa» che costruisce la sua poesia. Non dunque la poesia vista come anima sinfonica o musica esterna, ma come qualcosa che è all’interno del suo interno, dove lo spazio e il tempo sono introiettati e raggelati in essa…
Questa poesia di Letizia Leone presenta delle particolarità stilistiche che non possono essere spiegate senza addentrarci all’interno della complessa questione filosofica che sta alla base della poesia, che è tutta incentrata sulla macro metafora della «Porta». La «Porta» è [copula] la cosa-parola, è la coincidenza di parola e cosa, ma, al tempo stesso è [copula] anche la non coincidenza di parola e cosa. La «Porta» dunque, è e non è, è la contraddizione per eccellenza, impersona la contraddittorietà autocontraddittoria, la contraddizione che è anche assenza e presenza di contraddittori.
La Porta.
Era da aprire al centro
Dell’immensa Agorà
Nel paesaggio svuotato dai mercati
Opaca e pesante.
Assenza e presenza di contraddittori che si annullano reciprocamente, che collidono e friggono. E che cos’è questo se non un procedimento stilistico che riposa sulla peritropé (capovolgimento) dove gli attanti e i predicati sono una volta nell’essere e una volta nel non essere? Capovolgimento che capovolge se stesso e fluisce nel nulla. Anche i personaggi anonimi e neanche nominati della poesia finiscono per accrescere la dinamicità di questo movimento convulso che tira in tutte le direzioni con una regia ammirevole che lo stile incontraddittorio della Leone magnificamente mette in evidenza:
Chiesi al portatore la direzione perché le ultime lucertole in cammino sembravano
Legate, incapaci di volo o solo di fuga o solo di trovare andatura
Sembrava così, ogni loro movimento scavava una buca
Intanto che qualche altra cosa strisciava […]
1] Carlo Rovelli L’ordine del tempo, Adelphi, 2017 p. 65
Roma, 8 dic 2017 Convention Center , Più libri più liberi, Presentazione del trimestrale di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole
e della collana di poesia di Progetto Cultura Il dado e la clessidra – (da sx G. Linguaglossa, L. Leone, S. Grieco Rathgeb)
Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Collabora con numerose riviste letterarie e organizza laboratori di lettura e scrittura poetica. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)