Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 Franco Fortini pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

Giorgio Linguaglossa
Franco Fortini, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Una lettera di Montale a Franco Fortini del 1951

Nel 1985, in occasione del conferimento a Franco Fortini del premio Montale-Guggenheim, il poeta narra questo aneddoto:

«Trentaquattro anni fa, il 6 ottobre 1951, Montale mi scriveva per darmi un giudizio assai severo e, a ben considerare, assai giusto ed equilibrato, di un fascicolo di una cinquantina di poesie manoscritte che gli avevo mandato. Avevo allora 34 anni, il mio primo libretto di versi era del 1946 e mi pareva lontanissimo; e andavo cercando confusamente e senza neanche sapere di cercare, dopo qualche plaquette, i versi per la mia seconda raccolta, che venne dodici anni dopo la prima. Montale, fra l’altro, mi scriveva:

«L’ispirazione che ti muove è una ispirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi si intrecciano (l’umiltà e l’orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo… Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta “arte” ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra in gioco anche l’orgoglio di cui t’ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi sin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c’è in te una parte inutilizzata e forse inutilizzabile? E una parte che in un certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umiliazioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l’impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t’ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano o pensano meno di te».

I miei ascoltatori non hanno bisogno di essere avvertiti: qui Montale parla anche – e quanto – di se stesso. E questo spieghi perché la lettera fu per me tanto sconvolgente quanto deprimente. I rilievi negativi erano inconfutabili, ma la via indicata m’era impercorribile proprio a causa di quel nesso di dedizione e di rivolta che Montale mi aveva diagnosticato. Quella lettera faceva mancare il respiro. Quando mi ripresi mi mossi, come un ragazzo protervo, in direzione opposta. Valgano gli eventi di quegli anni. Fu erranza, errore e, almeno in parte, poesia. Altri e quali anni ci sarebbero voluti perché acquisissi la certezza o la pretesa testamentaria di aver veduto e detto alcunché «una volta e per sempre».

Montale aggiungeva: «Qua e là troverai segnato a lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto». Scorsi il dattiloscritto. Un segno accompagnava una breve poesia intitolata Parabola. Vi paragonavo la mia sorte a quella del grappolo trovato immaturo e non colto (ero già sulle tracce di un mio Manzoni!) e, non giunto a dolcezza, l’inverno lo avrebbe macerato. Con una leggera scrittura a lapis, Montale aveva aggiunto: «Speriamo di no».

Ho sperato anch’io, ecco tutto.

Giorgio Linguaglossa

Parabola

Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliar
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.

Franco Fortini. L’intellettuale isolato e il conflitto su tre fronti

Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè  un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1

Gli appunti di Fortini illustrano come fosse ben chiara, in lui più che nei redattori della rivista «Officina», l’idea che la vera questione sulla quale ruotavano le scelte strategiche del gruppo era la cosiddetta «ontologia letteraria del Novecento»; un «piccolo mito» creato «a favore d’una definita cerchia di autori e critici degli Anni Trenta». «Alcuni di noi – continua Fortini – ed io fra questi, ebbero in sorte di far coincidere l’inizio della propria attività letteraria con la critica a quel mito e al gusto di quel decennio».

«L’idea poi che la letteratura e soprattutto la poesia del nostro Novecento si sia sviluppata secondo criteri e caratteristiche speciali e assolutamente innovatrici rispetto all’epoca precedente, tanto da rendere possibile la redazione di un “canone”, è stata lungamente vulgata da critici come Bo, Ferrata, Anceschi e da molti altri. Ma chi più la prende sul serio? Attaccata da tutti i lati, nell’ultimo quindicennio i suoi stessi settatori l’hanno ampiamente corretta. L’inizio del gusto novecentesco silenziosamente si è venuto spostando dai fiorentini a Gozzano, Campana prendeva il posto (modesto) che era il suo, accanto a Jahier si poteva ormai leggere anche Michelstaedter, Rebora diventava una figura centrale, un Tessa o un Clemente non erano più soltanto scialbe figure di periferia e di provincia. Si veniva a sapere, seppure di malavoglia, che negli Anni Trenta aveva operato un poeta della statura di Noventa e che Pavese aveva pur scritto Lavorare stanca. Lo schema “novecentesco” è andato anche troppo in pezzi… Oggi, comunque, la categoria del Novecento letterario, il suo “ontologismo”, il suo “assolutismo” mi paiono formule polemiche inutilizzabili, fantocci di comodo».3

Franco Fortini da un lato addita gli errori della rivista «Officina»:

«non vedere quanto il nostro “Novecento letterario” fosse appena un episodio della cultura letteraria europea tardo-simbolista e avanguardistica (…) La sua polemica contro la destra novecentesca era in ritardo di dieci anni; quello che la faceva parer nuova era la simultanea polemica contro l’impegno e il social realismo. Non a caso teneva a suggerire una poetica “civica” bensì ma di “disimpegno” dalle parti politiche»;4 dall’altro, invita a riflettere sul fatto che «L’idea che la letteratura del ventennio, o meglio la letteratura della prosa d’arte e della lirica, novecentesca prima ermetizzante poi, sia stata la “via italiana” dell’antifascismo culturale non nasce con la restaurazione successiva al 1948. È invece l’idea centrale, il mito scrupolosamente predisposto prima ancora che il fascismo cadesse, fondato sull’equivoco stesso dell’antifascismo cioè sul suo frontismo, che vedeva schierati da una medesima parte un A. Gide e un B. Brecht. In forma non scritta quell’idea circolava durante la guerra nella fascia di autori e scrittori che erano contigui all’antifascismo liberale o liberalsocialista. La formulazione più autorevole e più abile, anche per la sede ed il momento, è in uno scritto di G. Contini che nel 1944, sulla rivista svizzera “Lettres” introdusse una antologia letteraria italiana da Campana a Vittorini. Vi si sosteneva esplicitamente che la “resistenza” culturale italiana andava identificata col rifiuto dei nostri scrittori migliori ad imboccare la tromba sociale e tirteica. Nell’Italia del dopoguerra quella tesi divenne poi pressoché ufficiale. Nessuna forza o gruppo organizzato sorse a confutarla: nessuno rovesciò apertamente la tesi per affermare che al di là del fascismo di Mussolini c’era una classe ed una ideologia generalizzata e che proprio la letteratura della astensione e dell’ascesi, del “reame interiore” o das Innere Reich era la fedele voce, lo specchio devoto della classe che i fascismi creava e disfaceva».5

In un articolo del 1960 Fortini individua con lucidità le modificazioni che l’industria culturale ha introdotto nelle istituzioni della letteratura in Italia. È una analisi oggettiva, che coglie la crisi di legittimità e di rappresentatività dell’intellettuale, i legami di dipendenza tra l’attività del critico e del poeta e l’apparato dell’industria culturale: da una parte, la nascita di un nuovo tipo di critico «contemporaneista», un «misto di cinismo, moralismo e intuizionismo», dall’altra, l’industria culturale, afferma Fortini, «ha bisogno di questo tipo di eclettismo, almeno quanto ha bisogno di fabbricare le nuove avanguardie». Rispetto alla generazione precedente, i contemporaneisti di nuovo conio «sono più informati, hanno forse più studi e letture. Ma la loro posizione all’interno della società italiana è proporzionalmente la medesima… dei Serra, dei Cecchi, dei Pancrazi, e dei De Robertis: l’umanesimo zoppo».6 E concludeva:

«Oggi una parte essenziale dell’attività critica è invisibile. Le scelte fondamentali si compiono nelle direzioni editoriali, dove confluiscono quei giudizi dal cui equilibrio o squilibrio scaturisce l’atto di politica culturale e commerciale (e insieme di indicazione critica) che è la pubblicazione d’una o di più opere letterarie. Non voglio dire, con questo, che la vera critica sia quella esercitata dai lettori delle case editrici o dai critici e letterati che esse impiegano; e che la verità critica sia quella depositata negli archivi degli editori. Non voglio dirlo, perché il carattere cerimoniale e convenzionale dell’articolo e del saggio ha pur una sua ragione critica, proprio per l’ossequio formale preteso dalla sua pubblicità, quale non può esistere nella schiettezza del giudizio privato. Ma non c’è dubbio che oggi il critico svolga, se non sempre almeno spesso, una indispensabile funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’atto di esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche in misura infinitamente più responsabile di quanto non facciano il narratore o il poeta».6

L’intento di Fortini è quello di indicare un diverso identikit del «critico», che sfugga agli specialismi e al di là della sua funzione di mero «intermediario», presente «in tutte le fasi della produzione e circolazione culturale: dalla fase della conversazione, della cerchia letteraria o mondana, di élite o semipolitica, o della rivista per pochi, dove si elaborano determinate tendenze… dalla consulenza editoriale al quotidiano, al periodico, alla radio TV, ecc».7 Il «critico» «è tenuto a situarsi al livello del discorso comune»; «svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di “scienza della letteratura”; è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le “scienze” particolari, da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro».8

1 Franco Fortini Verifica dei poteri Milano, Il Saggiatore, 1965 p. 64

2 Ibidem, p. 58
3 Ibidem, p. 59
4 Ibidem, p. 59
5 Ibidem, p. 46
6 Ibidem, p.44
7 Ibidem, p. 47
8 Ibidem, p. 50

Giorgio Linguaglossa
Montale, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Franco Fortini e la poetica della irriconoscibilità

Se c’è un autore che ha fatto della propria poesia un qualcosa di «irriconoscibile», questo è senza dubbio Franco Fortini. Il suo particolare marxismo: un mix della lezione di Gramsci, Adorno e di Lukács, e la mirabile traduzione delle poesie di Bertold Brecht, lo portavano naturalmente in direzione di una poesia di impianto denotativo, didascalica, aforistica, in direzione di una costruzione oggettiva plasmata da una severa ipotassi; peraltro, il suo stesso marxismo lo portava verso il piano inclinato dell’aggressione formale e stilistica, verso spunti espressionistici, eccessi concettuali, una costruzione a scarti e a strati, in attrito statico e dinamico; una costruzione tettonica, in una parola, verso una ipotassi, una rigidissima organizzazione architetturale della composizione poetica, una vera e propria gabbia all’interno della quale fossero bandite, e tenute a rigorosa distanza di sicurezza, gli espressionismi e i lirismi del Novecento «irrazionalistico», gli stili irrazionalistici e misticheggianti fin troppo compromessi con una tradizione tutta da sottoporre ad attentissima critica. Da questa volontà di ordinamento dall’alto della propria poesia Fortini tenderà istintivamente di trovare una soluzione stilistica tentando una resistenza ad oltranza alle linee di forza diametrali e tangenziali che attraversano la forma-poesia degli anni Sessanta. Pasolini in un articolo del 1958 parla di un Fortini «lacerato da forze che lo trascinano in due direzioni opposte, egli ruota un po’ disperato su se stesso, si impoverisce e affabula accanitamente… (riconoscendo) che egli, nel fondo, voglia proprio questo. Essere cioè dimostrazione vissuta – “martire” nel senso etimologico della parola – di una nuova cultura e di una nuova ideologia letteraria, che escludono, per definizione, sia l’umanesimo che l’irrazionalismo della  poesia».

Il concetto di «irriconoscibilità» che guida la poesia di Fortini gli derivava anche dalla sua naturale diffidenza per l’espressione linguistica immediata (tanto più per quella mediata ma viziata dalle versioni dell’irrazionalismo novecentesco), fermamente convinto che la tradizione andasse capovolta e rivoltata, filtrata dal fittissimo reticolato del pensiero critico, dove «esercizio della ragione e sentimento / sono due cose e vivacemente si legano», scriverà in La poesia delle rose (1962).

Un secondo ordine di ragionamenti deve essere fatto a proposito forse di una poesia che ha tentato un percorso di resistenza verso la poesia novecentesca di matrice post-ermetica e l’incipiente sperimentalismo. Un tentativo così drastico di negazione e resistenza come quello messo in atto da Fortini, non poteva che condurre ad una poesia «abnorme», stilisticamente «estranea», alla continua ricerca di un assestamento o adeguamento di linguaggio, non ad un modello anteriore o anteguerra ma ad una riorganizzazione dei rapporti di produzione della società capitalistica; (Fortini rifiuterà tenacemente qualsiasi impiego di un linguaggio pacificato, qualsiasi soluzione indolore di problemi extraestetici). Per Fortini la soluzione di un problema estetico non può essere affidata soltanto al fatto poetico, visto sempre come soluzione provvisoria, parziale, di compromesso, se non viene accompagnata da un cambiamento reale dei rapporti di produzione del mondo produttivo.

Giorgio Linguaglossa

La poesia di Fortini fin da Foglio di via ed altri versi (1946) rimarrà fedele a questo assunto, e si muoverà, dapprima timidamente, con qualche «tentazione regressiva», come la definisce Pasolini, con sporadici slittamenti in chiave lirica e, susseguentemente, da Poesia e errore (1959) a Una volta per sempre (1963), fino a Questo muro (1973), in chiave discorsivo-narrativa, in direzione di una tentazione estensiva, dove l’accento tonico viene giustapposto su un verso prosastico in funzione di ammicco e allusione ad una civiltà stilistica del  passato remoto e il verso viene raggruppato in strofe nutrite e fittamente assemblate per corroborare una situazione stilistica e semantica di pienezza di dettato e, quindi, indirettamente, di senso.

Una via così singolare e personale come quella seguita da Fortini non poteva che condurre ad un isolamento (che non significa vicolo cieco) e ad una diversità rispetto alla griglia della poesia del secondo Novecento. Fortini è l’unico grande poeta del Novecento che non ha avuto adepti, seguaci, sostenitori, epigoni. La spiegazione è molto semplice: per il fatto che il suo percorso non era né imitabile né replicabile. È condivisibile la tesi di coloro i quali affermano che la sua poesia sia un corpo estraneo dentro la poesia del Novecento? Un percorso interrotto, solitario e senza apparente via di uscita? È questo uno dei nodi principali della poesia degli anni Sessanta, e va sciolto subito. Va subito detto che nella contesa Fortini-Sereni, il perdente è certamente il primo. Di fatto, la via sereniana di riforma del linguaggio poetico era una strada in discesa, quella invece di Fortini era una strada tutta in salita e presupponeva la formazione di una generazione di poeti-critici che poi è venuta a mancare. La generazione degli anni Settanta e Ottanta sceglierà il fiancheggiamento dello sperimentalismo o il fiancheggiamento di coloro che teorizzeranno una poesia del ritorno ad uno stadio pre-industriale, ad una poesia adamitica. Certamente, la poesia fortiniana si sottrae, per la sua stessa ragione d’essere e la sua ragione fondante, ad una utilizzazione o retrospezione in funzione di scuole e/o affiliazioni, e si sottrae anche a qualsiasi utilizzazione strumentale. Dovevano trascorrere quaranta anni perché la poesia fortiniana tornasse a parlarci e a presentarsi come uno dei capisaldi dell’«antipoesia» del secondo Novecento.

A proposito di Destini generali (1957) Pasolini nella recensione del 1958 indica la giusta chiave per entrare nella poesia fortiniana:

Va cercata una chiave: a spiegare le privazioni stilistiche o i pastiches stilistici raggiunti attraverso l’operazione… che abbiamo detto della “modificazione ossessiva”. L’impressione che si ha… leggendo questi versi è che mai una parola o un modo stilistico vengano accettati come si presentano – per ispirazione o calcolo, non importa: non è di una lotta per l’espressione che qui si tratta – ma vengano continuamente “corretti”, o attraverso una sinonimia, o attraverso una depauperazione o riduzione, o attraverso un contatto con parole e modi stilistici d’altro tipo».3 Ma nel prosieguo dell’articolo il recensore sintetizza mirabilmente le due linee di forza lungo le quali si enuclea la poesia di Fortini: «1) Linea della resistenza contro la “poeticità”, prodotto della apoliticità letteraria e della conoscenza pseudo religiosa e carismatica della cultura italiana del Novecento. 2) Linea della tentazione di quella “poeticità” come residuo più alto di un privilegio borghese di squisitezza espressiva, volontariamente respinto.4

Nei Versi a un destinatario (1951-1969), Fortini mette in versi la definizione del comunismo: «I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari. / La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente. // Tutto è divenuto gravemente oscuro. / Nulla che prima non sia perduto ci serve. / La verità cade fuori della coscienza». La verità, dunque, cade fuori della coscienza. Sono i sintomi della crisi ineluttabile. La primavera di Praga del 1968 è stata schiacciata dalla invasione dei carri armati sovietici. La prospettiva di un rivolgimento sociale appare sempre più lontana e problematica. I rapporti con i poeti un tempo amici di Milano si fanno sempre più problematici. È di questi anni la poesia «A Vittorio Sereni», una dolorosa e oggettiva presa d’atto della distanza incolmabile che diventa ogni giorno più vistosa tra lui e il poeta più rappresentativo della via milanese al riformismo del «modello istituzionale»:

Come ci siamo allontanati.
Che cosa tetra e bella.
Una volta mi dicesti che ero un destino.
Ma siamo due destini.
Uno condanna l’altro.
Uno giustifica l’altro.
Ma chi sarà a condannare
o a giustificare
noi due?

 
1 F. Fortini «Astuti come colombe» in Verifica dei poteri p. 85 Milano, Il Saggiatore 1965

2 Ibidem

* da Giorgio Linguaglossa Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, 2011 pp. 390 € 16

Giorgio Linguaglossa
Helle Busacca, grafica di Lucio Mayoor Tosi

a L’ospite ingrato De Donato editore, 1966

Sereni esile mito

Sereni esile mito
filo di fedeltà
non sempre giovinezza è verità
un’altra gioventù giunge con gli anni
c’è un seguito alla tua perplessa musica…

Chiedi perdono alle «schiere dei bruti»
se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco
e sanguinoso, di modestia e orgoglio.
Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio
bianco che tieni in mano.

(1954)

Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma piú c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.

[1958]

 

  1. [L’Anno Sessantaquattro. Poesia altrui.]

1.

Correvo in auto la luminosissima Brianza
e foglie rotolavano pulite nella danza
d’aceri e tigli brune e gialle precipitose
ma cementi d’officine piccole e stecchi di rose
robinie color volpe campings semidivelti
i tavoli dei bar ristoranti capovolti
le piume d’un coniglio nella palta
di sangue impresso e fisso sull’asfalto
le operaiette dei turni affollate allo spaccio
e lassú nel turchino prealpino di ghiaccio
la notizia che l’anno finiva.

2.

Va’ via, getrübtes Jahr, va’ via mit deinen Schmerzen.
Stanotte affili Bòrea le trombe delle feste.
Battano gli impiantiti di dancings e di casolari
le impiegate tenui e le dure comari.
E anche la ubriaca magra dei muratori
che tra spini di siepe scuote a sfida i colori
del viso decorato di nero bianco e rosso
e la gonna che striano erba e creta di fosso
anche lei calchi e stritoli l’annata sotto il tacco
quando dai poli sibili di radio la distacchino
e dormire nel grigio che viene.

(1964)

  1. [Autostrada del sole]

Tutto era cosí semplice, averlo saputo,
Che l’accurato labirinto delicato
la patria immaginaria
in questo vento dovevano sparire
e noi scagliati sulla luce
dei rettilinei…
Ora a noi tardi liberi
in quest’aria di nulla
pianure monti umiliati
altri spazi e doveri
dilatano e già veri
da morirne. E di vista
si perde il cuore
come dopo il sorpasso
l’altro nel retrovisore.

(1960)

  1. [Per un riformista]

Il mondo perché cambiarlo,
ami le donne come sono,
credi ai tuoi soli morti,
hai sempre nuove abitudini.

Ma il mondo cambia e t’ammazza.
I baci, i baci grandi
non sono tuoi mai più.
A chi somigli nella foto?

E vivo ti seppelliscono.

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa

Diario linguistico

Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
ma tutti in me stesso. La mia prigione
vede più della tua libertà

(1965)

La realtà

La città di cui sto parlando non esiste,
è un’idea della ragione e della volontà.
Nella speranza di essere compreso
la chiamo con un nome sconosciuto.
I suoi viali si aprono nel vuoto.
Le sue posterie sono aperte fino a tardi.

Anche i nomi degli amici sono finzione.
Chi è vivo, di loro, chi è morto? Probabilmente
sono scarabei di lapislazzulo
nei musei o voci di repertori,
fotografie, carta, propine di esami.
O, col pianto in gola, dormono nel pomeriggio.

Sì, sono stato a Gela una volta.
Un’altra volta persino a Roubaix.
Sono vissuto alcuni mesi a Roma.
Tutto questo significa ben poco.
Accorgersi che nella mia mente affaticata
l’idealismo trionfa, è impressionante.

Le dattilografe mettono la copertina sulla contabile.
I gatti si occupano dei fatti loro.
Nel garage puliscono i carburatori. Questa
è la realtà. Se lasci cadere un giornale
esso volteggia e raggiunge le ortensie.
Non vuoi abbandonare la sintassi.
La finzione è l’ultima speranza.
Qualcuno telefona, hai l’ansia nella voce.

La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.
E invece non è vero.
Parli per farti coraggio.
Hai difficoltà a leggere.
I rumori familiari
avvertono che viene cena
e così sarai liberato.
Al Cinema Cristallo una pellicola di guerra,
alla televisione un dibattito animato.

Il dovere di Schiller è di resistere.
Dante si ostina su di una rima difficile.
Ecco perché gli amici sono divenuti nomi.
Ecco perché nei sogni vedi solo carri di morti.
Ecco perché puoi dire «Torino» ma non esiste
nessuna città con questo nome
e anche esistesse non te ne importa.
Parli al plurale solo per ammonire
e figli a non inciampare nei gradini. Tutto è
tremendo ma non ancora irrimediabile.

(1984)

da Composita solvantur Einaudi, Torino 1994

ITALIA 1977-1993  Hanno portato le tempie al colpo di martello la vena all’ago la mente al niente. Per le nostre vie ancora rispondevano a pugno su gli elmetti. O imparavano nelle cantine come il polso può resistere allo scatto  dello sparo. Compagni. Non andate così. Ma voi senza parlare mi rispondete: “Non ricordi quel ragazzo sfregiato la sera dell’undici marzo 1971 che correva gridando “Cercate di capire questa sera ci ammazzano cercate di capire!” La gente alle finestre applaudiva la polizia e urlava: “Ammazzateli tutti!” Non ti ricordi?” Sì, mi ricordo.