Dopo il tramonto la loro quiete si ritira dal cielo rosa
pieno di aquiloni mentre scende la notte
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Giorgio Linguaglossa
La crisi del Soggetto novecentesco e la nuova ontologia estetica
Come potrà il Soggetto parlare di se stesso se esso non è più il Soggetto ma un soggetto? Come potrà il Soggetto validare il proprio discorso se non infirmando il discorso che va facendo nel mentre che lo asserisce? È ancora possibile un discorso non-assertorio da parte del soggetto scollegato e spodestato da se stesso? Sì, è ancora possibile.
Questa «positività» del proposizionalismo poetico che promana come un lezzo dalla poesia assertoria e suasoria del novecento epigonico deriva dalla illusione di voler ancora imbastire un discorso poetico fondato sulla illusoria illusione del Soggetto legiferante, del Soggetto egemone (a pendio elegiaco o post-sperimentale fa lo stesso).
Io invece ritengo altamente proficuo un discorso poetico che fondi quella «positività» sullo zoccolo duro del «negativo», della «mancanza», della «traccia», della dis-locazione, dello spaesamento, della estraniazione.
Il fonatore dunque non coincide più con il locutore.
Il soggetto problematizzato si rivela essere il soggetto retorizzato. Qualcuno parla, sì, non è il soggetto ma un «Altro» che parla.
La filosofia moderna sostiene che il soggetto è indicibile. La poesia e il romanzo fanno di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico e narrativo. Qui si rivela una antinomia del discorso poetico e romanzesco, ma è una antinomia fruttuosa che darà i suoi frutti migliori nella poesia europea da Herbert a Tranströmer.
La traccia dell’origine, in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e manifestandosi in Altro. Con la conseguenza che il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo subiranno le conseguenze di questa non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un Logos di un non-originario che si comporta tale e quale al logos dell’originario.
I linguaggi poetici veramente vitali saranno quelli, a mio avviso, che accetteranno di misurarsi con la non-adeguazione del discorso poetico all’originario, che si metteranno la coscienza in pace rispetto a questo problema accettandolo come il terreno negativo dal quale ricostruire l’infranto a partire dalla frammentazione.
La narrativizzazione della poesia moderna, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio e suasorio del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» nell’ambito del discorso poetico e narrativo.
Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar/ radioso
di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
La riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto. L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante.
Oggi anche la poesia non può non investigare con nuovi strumenti espressivi gli aspetti della attuale fase della crisi spirituale.
Oggi una nuova ontologia estetica non può non prendere a parametro del proprio comportamento proprio questa de-fondamentalizzazione del soggetto. E ripartire da lì.
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».
Le parole per entrare nella nuova patria metafisica hanno dovuto spogliarsi dei loro vestiti, hanno abbandonato sulla spiaggia la «musica», il peplo musicale nelle quali erano avvolte, hanno abbandonato l’io da cui quelle parole, come un oboe sommerso, sembravano provenire. Adesso sono davanti al mare dell’essere, nude, prive di abiti. Adesso, possono entrare nel mare dell’essere fino a scomparirvi.
Le parole si sono liberate anche del soggetto egemone e legiferante. Il Re è stato spodestato, la monarchia assoluta del Re Sole è crollata di schianto.
Le parole sono queste: «Due sorelle», la «veranda», «vestiti», «giallo-sera», «Fuori, un giardino». Sono parole che il poeta mette sulla linea del verso, anzi, allinea nel verso come una serie di fotogrammi privi di accompagnamento musicale; sono i singoli fotogrammi che fanno musica, non il contrario. Non ci sono verbi che fanno da veicolo musicale, i verbi sono banditi, ci sono solo «cose», «cose» mute, e le «cose» portano con loro dei «limiti», dei confini. Le «sorelle», la «veranda», i «vestiti», il «giardino» sono tutte «cose» corpose circondate da corposi limiti. Di colpo, scopriamo in poesia la pesantezza delle «cose», il peso dei loro confini, dei loro limiti.
Queste «cose» messe così le une accanto alle altre potrebbero sembrare un atto di barbarie poetica, intendo quel loro essere messe assieme senza alcun accompagnamento musicale, senza verbi musicali e senza l’io che fa da direttore d’orchestra. Ma è che qui non c’è bisogno di alcun direttore d’orchestra perché non c’è più una orchestra, come avveniva per la poesia del novecento europeo da Seamus Heaney a Mark Strand, qui l’unica «musica» ammessa è la «musica» delle nude parole, delle nude «cose», con i loro confini e i loro limiti. Sono le «parole» le protagoniste della poesia. Nella nuova ontologia estetica sono le «parole» le vere protagoniste, le «parole» ci parlano, esse sanno molto di più di noi di quanto noi sappiamo di loro, perché adesso queste «parole» hanno preso a frequentare una nuova patria spirituale, hanno abbandonato per sempre l’antica patria musicale del novecento europeo per inoltrarsi in un nuovo dominio, in una nuova dimora del tutto priva degli antichi strumenti musicali dell’antica orchestra. Le parole si sono spogliate, sono diventate talmente nude da essere irriconoscibili.
Meena: «ho fatto un sogno della nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai. la incontro in altri luoghi.»
Sulla veranda: Meena e Beena Mathur
Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)
Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –
e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti
Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano
perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori
Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa
agli stormi di piccioni in volo
agli aquiloni che danzano più su
alle rondini nel più alto
Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
*
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.
«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»
Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).
Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia
(un riflesso incantevole)
[Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006]