[Il romanzo come «autobiografia camuffata»]
Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995).
Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).
Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».
Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009), le raccolte poetiche Il secondo dono (Progetto Cultura 2013), La ferita del possibile (Rubbettino, 2016) e il romanzo La consolazione della sera (Schena, 2017).
[Lo scrittore è il suo genere letterario]
Lo scrittore è il suo genere letterario.
Già la definizione di genere letterario non è affatto una cosa scontata. A prima vista il romanzo di Sabino Caronia è incentrato sul tema della ricerca delle tracce dello scrittore Franz Kafka; invece, in modo paradossale, nel corso della lettura si stratificano la dimensione quotidiana della voce narrante del protagonista, i suoi ricordi, le tracce del privato, il racconto delle sue ubbìe, dei suoi incontri e quella quasi metaforica dell’inseguimento, non solo del Kafka «reale», quanto delle tracce disperse del romanziere; tracce casuali, sentieri interrotti, dunque. Ad esempio, il romanzo si apre con la presentazione di Gabriel Ferrater, poeta catalano che ha il merito di aver tradotto Il processo di Kafka in catalano e averlo pubblicato nel 1966. Chi è costui?, si chiede il lettore, ma non importa perché Sabino Caronia non smette di stupirci, passa da Farrater a Italo Calvino, al ricordo del germanista Alighiero Chiusano e, subito dopo, al romanziere Zafon di cui viene citato il primo romanzo, Marina. Ecco come Caronia ci parla:
[…]
ed io evocavo quelle atmosfere che erano legate per me al primo romanzo di Zafon, Marina: il collegio sulla collina, le viuzze, le case abbandonate e polverose, i cancelli cigolanti, i gatti che si aggirano circospetti, come Kafka.
Kafka, il gatto Kafka, quel gatto per cui Zafon si era certo ispirato allo strano animale del racconto Unincrocio, mezzo gattino e mezzo agnello, che era «una provenienza dell’eredità paterna» e che a me faceva sempre pensare alle parole della originaria conclusione: «Un ragazzetto ereditò da suo padre nient’altro che un gatto e, grazie a quel gatto, divenne sindaco di Londra. Che cosa diverrò io, grazie al mio animale, alla mia eredità?».
Che fine aveva fatto il gatto Kafka?
Mi sembra sempre di vederlo mentre dorme, placidamente acciambellato sul sedile posteriore, tutto per lui, dell’auto che percorre la strada per Blanes.
E penso a Bolaño, che voleva andare fino a Parigi per portare rose sulla tomba di Jim Morrison, alle sue primavere di Blanes, vissute con la strana allegria «di essere vivi e di non dover dare spiegazioni al riguardo», alle memorabili pagine conclusive di Stella distante: «… Il treno si fermò a Blanes… l’autobus ci lasciò a Lloret… La sua voce risuonò tranquilla come quella di un uomo che sa che la vita finisce sempre male e non vale la pena di esaltarsi… Accesi una sigaretta e mi misi a pensare a cose senza importanza…
Il tempo, per esempio. Il riscaldamento globale. Le stelle sempre più lontane…».
[…]
[Il tempo, per esempio. Il riscaldamento globale. Le stelle sempre più lontane…]
Per poi interloquire con un assioma travolgente:
[…]
Io e Kafka, io come Kafka. Il suo bisogno di evasione è anche il mio. È un bisogno che ritorna sempre nella sua opera.
[…]
Ci sono dissertazioni in margine ad una foto:
[…]
C’è una foto in cui Kafka, bambino di circa sei anni, appare stretto in un vestito striminzito, un po’ umiliante e strapieno di merletti, immerso in un paesaggio di serra. Sullo sfondo spuntano foglie di palma.
E, come per rendere ancora più afosi e soffocanti quei tropici imbottiti, stringe nella mano sinistra un gigantesco cappello a falde larghe all’uso degli spagnoli. Occhi infinitamente tristi ispezionano il paesaggio che è stato loro destinato, il grande orecchio è teso in ascolto.
[…]
Per passare alla storia di una «colonna eretta nel 1650 per celebrare la vittoria degli Asburgo sugli svedesi… abbattuta il 3 novembre 1918, una settimana dopo la dichiarazione di indipendenza dall’Austria e i suoi resti sono ora al Lapidarium». Ma non basta, ci sono anche i ricordi strettamente personali:
[…]
Una sera d’inverno di qualche anno fa, a Roma, uscendo dalla Libreria Vaticana in via di Propaganda, mentre, come al solito, per ritornare a casa, ero diretto alla metro Spagna, avevo fatto uno strano incontro.
L’incontro era avvenuto proprio lì, sotto la colonna mariana, dove tanti anni prima, la sera del 21 gennaio 1991, dopo la presentazione all’Unione Lettori Italiani del mio volume di saggi L’usignolo di Orfeo e la cena al ristorante viennese di via della Croce, mi ero congedato dal mio amico Chiusano, l’insigne germanista innamorato di Kafka, lo straordinario negromante che avevo conosciuto alla presentazione del suo romanzo Il vizio del gambero, nel 1986, l’anno della cometa di Halley, in una libreria a pochi passi da Montecitorio.
Io e Kafka, io come Kafka.
Il suo bisogno di evasione era anche il mio in coincidenza dei cinquant’anni e della morte di mia madre.
Rivivo ogni minimo particolare di quel tempo lontano: prima la pensione e la morte di Diana, il viaggio in Spagna e a Parigi, poi il ritorno a Capri e la sosta a villa San Michele, dove è la sfinge legata al mio concepimento.
«Dieu se cache dans les details».
Dio si nasconde nei particolari.
Ripenso a quella frase e, ripetendola, mi ricordo di un tramonto a Parigi, al Trocadero, dalla terrazza del Palais de Chaillot.
[…]
Il pensiero lo porta a «Laura, la giovane siciliana dai capelli rossi… e, con Laura, ripenso al racconto di Nanokov…
[…]
Ripeto e rifletto.
I dettagli, l’importanza dei dettagli, dei particolari.
«Dieu se cache dans les details».
[…]
E poi, ancora un ricordo, la morte della principessa Diana:
[…]
[Alle 0,20 il Mercedes S-280 nero targato 688LTV75 e guidato da Henri Paul con a bordo Trevor Rees-Jones, la principessa Diana e Dodi Fajed…]
Alle 0,20 il Mercedes S-280 nero targato 688LTV75 e guidato da Henri Paul con a bordo Trevor Rees-Jones, la principessa Diana e Dodi Fajed parte dall’uscita posteriore del Ritz, al numero 36 di rue Cambon, si dirige verso rue de Rivoli, poi gira a destra a Place de la Concorde, il cui obelisco egiziano al centro, illuminato nella notte, rappresenta uno dei luoghi caratteristici più celebri di Parigi, poi si ferma, nei pressi dell’Hotel Crillon, al semaforo rosso all’angolo di rue Royale, la larga via che, tra i due settecenteschi palazzi a colonne che fanno da fondale alla piazza, sale al classicheggiante tempio della Madeleine, quindi attraversa gli Champs-Elysées, diretta verso Cours de la Reine e la riva occidentale della Senna, gira a destra, percorre prima Cours de la Reine, passando sotto il tunnel che corre parallelo al fiume all’altezza dei ponti Alexandre III e Invalides, e Cours Albert I, il rettilineo di 480 metri che si dirige verso il ponte e la place de l’Alma, quindi imbocca, piegando a sinistra, il tunnel sulla cui volta è la statua con la fiamma d’oro, copia di quella della statua della Libertà, per schiantarsi infine, alle ore 0,25, contro il pilone numero 13.
Rivivo quegli ultimi istanti di Diana e mi sembra di vedere la casa parigina dei Fajed, l’appartamento di dieci stanze al secondo piano, al numero 1 di rue Arsène-Houssaye, che avrebbe dovuto essere la meta di quella folle corsa nella notte: la porta, l’entrata con i suoi pavimenti a disegni geometrici di marmo rosa, bianco e nero e i lampadari di cristallo, il piccolo salone a sinistra dell’entrata e fuori il grande balcone con ringhiere di ferro da cui si vede a destra l’Arc de Triomphe e a sinistra la distesa degli Champs Elysées con gli alberi che formano un cordone fino a place de La Concorde, distante circa un chilometro e mezzo, il salotto verde dove Diana si vestì per la cena e lasciò i bagagli quel sabato sera, il salotto principale con soffitti alti, due grandi divani, un tavolino con ripiano di marmo rosa e un camino di marmo bianco, la camera da letto con il grande letto matrimoniale, il copriletto dorato e i tendoni pesanti di seta broccato, poi ancora i bagni di marmo, le stanze per gli ospiti, la stanza per fare ginnastica, le due cucine, l’ala del maggiordomo.
Lì Diana era stata il mese prima quando aveva trascorso con Dodi il week end da sabato 26 a domenica 27 luglio, con l’arrivo a sorpresa a Parigi di pomeriggio in elicottero, la cena a un tavolo d’angolo da Lucas Carton, in place de La Madeleine, e poi, dopo il ritorno all’appartamento e prima del rientro all’Hotel Ritz, dove avrebbe passato la notte da sola, la passeggiata mano nella mano lungo la Senna.
«Dieu se cache dans les details».
[…]
Poi, un bel giorno, l’incontro:
[…]
Ed eccolo lì, Kafka, proprio lui, in persona.
Mi apparve chiaramente davanti, come se fosse vivo.
Posò le mani larghe, quasi scolpite nel legno, sulla scrivania, poi con le dita fini e affusolate…
[…]
Ed ecco che siamo arrivati a Kafka:
[…]
Notte della cometa.
Fedele come sempre ai calcoli degli uomini, la cometa di Halley ritornava in quell’anno, come già ai tempi di Giotto, che l’aveva raffigurata nella cappella degli Scrovegni, come poi nel 1986, e come sarebbe ritornata ancora, ogni settantasei anni, a dare appuntamento agli uomini nella propria regione di perenne certezza.
Il suo era il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla “sublime normalità” dei cieli.
Così succedeva e così sarebbe dovuto succedere.
Era il 1910.
Kafka scriveva: «Ma voglio che ogni giorno ci sia almeno un rigo puntato contro di me, come oggi si puntano i canocchiali contro la cometa».
E ancora: «Notte della cometa, 17/18 maggio. Sono stato con Blei, sua moglie e suo figlio. A tratti ho udito me stesso, press’a poco come il miagolio di un gattino, ma meglio che niente».
Lo conosceva bene quel tormentoso senso di inconsistenza dell’io.
Già nella lettera a Max Brod del 28 agosto 1904, al tempo di Descrizione di una battaglia, si legge: «Allora mi meravigliai della fermezza con cui gli uomini sanno portare la vita».
Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare.
Tutto è come una favola, come un sogno.
[…]
[Sai che cosa ho io? Che sono quello che sembro].
Ed ecco descritta la scena di un incontro con una prostituta:
[…]
«Sai che cosa ho io? Che sono quello che sembro.
Sarà anche per questo che una volta un ragazzo mi ha detto: “Tu sei nata per fare impazzire gli uomini”».
«Sai che cosa sono io? Io sono un elefante. Io sono un cane lupo».
Intimidito da tanta sapienza istintiva lui, con tutto il suo ridicolo armamentario letterario nella testa, restava a lungo a fissarla a bocca aperta, non riusciva a distogliere lo sguardo.
Quella disposizione non sarebbe mai cambiata, come risulta da un nota di diario del 19 novembre 1913:
«Passo apposta per le vie dove ci sono prostitute.
Quel passare accanto a loro mi eccita, per la lontana, ma pur sempre esistente possibilità di andare con una di loro… Voglio soltanto le vecchiotte e grosse, con abiti antiquati, ma in certo qual modo esuberanti per le diverse guarnizioni. Una… l’ho incontrata oggi nel pomeriggio… portava una camicetta da lavoro come le cuoche e recava non so quale involto, forse per la lavandaia… nessuno, eccetto me, avrebbe trovato in lei qualcosa di attraente».
Lo stupore nei confronti delle prostitute.
Pure a Parigi, una sera del 1911, quello stupore aveva lasciato il posto a un doloroso sentimento di estraneità: «Bordelli organizzati razionalmente. […]
La portiera che mette in azione la soneria elettrica e ci trattiene nel suo sgabuzzino […] le due donne decenti che lassù ci ricevono, l’accendersi della luce elettrica nella stanza vicina dove le ragazze disoccupate aspettavano al buio o nella penombra, i tre quarti di cerchio (noi lo completiamo) nel quale stanno intorno a noi in posizione eretta badando al proprio vantaggio, il passo lungo con cui la prescelta si avanza, il piglio di madama col quale mi incoraggia mentre io mi sento attratto verso l’uscita. Impossibile figurarsi come arrivai nella strada: tanto fu veloce la discesa […] Il ritorno a casa solitario, lungo, assurdo».
[…]
[Anche io come Kafka sono timido con le donne.]
Ed ecco l’entanglement:
[…]
Il 15 agosto Kafka annota: «… Festa della Madonna nell’Altstädter Ring… Ho pensato molto a… Felice Bauer…».
E il 20 agosto: «… Signorina Felice Bauer. Quando il 13 agosto arrivai da Brod era seduta a tavola eppure mi parve una domestica…Viso ossuto e vuoto… Collo libero. Camicetta trascurata… Naso quasi rotto. Capelli biondi un po’ lisci, senza attrattiva. Mento robusto…».
Anche io come Kafka sono timido con le donne.
[…]
[l’entanglement si stabilisce tra Kafka e il narratore Sabino Caronia]
Incredibile ma vero: l’entanglement si stabilisce tra Kafka e il narratore, come nella meccanica quantistica dove un elettrone è in collegamento costante con un altro elettrone posto a milioni di chilometri dal primo. È qui che scocca la scintilla della narrazione.
Bisogna poi considerare la vastissima gamma di citazioni, recuperi, glosse in margine e rimandi letterari dal Don Chisciotte al conte Mosca in La certosa di Parma di Stendhal, il Pilato autobiografico di Luigi Santucci, e inserti di riflessioni sui romanzi di Kafka:
Anche ne Il Castello, come sempre nei romanzi di Kafka, tutta la vicenda avviene nello stesso spazio privo di spazio e le sue commessure sono così ermeticamente chiuse che ci si sorprende quando a un certo punto viene citata qualcosa che non rientra in quello spazio, come la Francia meridionale e la Spagna.
*
Il carattere profondo del romanzo è allora la sua componente testuale: l’intarsio citazionistico è analogo al lavoro dei mosaicisti dei mosaici bizantini. È il modo di raccontare che è cambiato, non vuole più essere un discorso con valore allegorico o di avviamento alla conoscenza come nel romanzo tradizionale, mettiamo, Moby Dick. Qui il viaggio del Pequod e la caccia alla balena bianca diventano immagine e simbolo della conoscenza umana e del suo interrogarsi sulla natura del Male nel mondo. La «balena bianca», animale di per sé mitico e ignoto, terribile e inafferrabile, è quindi il simbolo dell’ossessione conoscitiva di Melvill. Moby Dick si apre con una sezione intitolata Etimologia ed estratti, in cui il narratore Ismaele accumula una serie di citazioni – dalla Genesi al Libro di Giobbe, dai Salmi al profeta Isaia, da Rabelais ai resoconti di veri balenieri, da Shakespeare al Paradiso perduto di Milton, dall’amato Hawthorne, ai viaggi di Darwin. Nel romanzo di Sabino Caronia non c’è nessuna ossessione conoscitiva, ormai, nel Dopo il Moderno la tecnologia ci fornisce un amplissimo registro di scoperte scientifiche che non è più possibile contenere nella mente umana, qui c’è un «romanzo» allo stato quantico della materia, non si dà più una materia da conoscere ma un sistema caos di ricordi, di emozioni, di idee, di supposizioni, di abreazioni che si accavallano e si dipartono dall’io narrante, una sorta di selfie fiction in progress.
[Io e Kafka, io come Kafka. Il suo bisogno di evasione è anche il mio]
Leggevo qualche giorno fa il risvolto di copertina di un romanzo pubblicato da Einaudi, c’era scritto: «è un grande romanzo. No, è un thriller. No, è un noir. No, è una storia sulla montagna, sulla solitudine, sui ricordi, le ossessioni e le paure. No, è una favola nera. No, è una piccola rivoluzione nel romanzo di genere italiano. Evviva i sovversivi!».
Ecco, si potrebbe dire la stessa cosa del romanzo di Sabino Caronia, solo che lui non è un «sovversivo», la scrittura elegante e rarefatta lo tradisce, lui è uno scrittore colto che ha messo a punto, forse senza neanche volerlo veramente, nientemeno che un nuovo genere del romanzo dove tutto può entrare nella narrazione, perché non c’è più un «dentro» ed un «fuori», tutte le cose sono viscidamente e visceralmente insufflate da una buona dose di nulla, di casualità, qualcosa che sfuggirà sempre a qualsiasi algoritmo della narrazione. Caronia ha scritto uno splendido romanzo breve, un epifenomeno del nichilismo di oggi. Lui che nichilista non è affatto, sa che narrare è una finzione, un falso e una funzione, che ormai non è rimasto più niente da narrare, tutto ciò che un narratore narra non sono altro che le proprie ubbie, le proprie emozioni, i propri ricordi, perché «l’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza», scrive Heidegger a pagina 138 di Essere e tempo nella edizione del 1976, Longanesi. Oggi noi non possiamo narrare che tutto ciò che ci è «vicino»; ciò che è «lontano» ormai non fa più parte del demanio del «romanzo» ma della narrazione telemediatica, risponde agli algoritmi del mezzo mediatico.
Ha Scritto Steven Grieco Rathgeb su queste pagine: «Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.
In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.»
Siamo arrivati al dunque: il romanzo di Sabino Caronia è un finto romanzo, una «autobiografia camuffata» (per dirla con Kafka), un romanzo dove non ci trovi più il «romanzo» tradizionale, ma un romanzo dove ci trovi la vita vissuta dell’autore, qualcosa che ricorda un altro «romanzo» che non è mai stato scritto, che forse esiste in qualche universo parallelo. Ecco un passo illuminante di Kafka riportato da Caronia, che può essere riferito alla modalità di scrittura dello scrittore romano:
[…]
[ogni mattina verso le otto gli portava la prima colazione, quel giorno non venne]
I Frammenti: «Non riesco a scrivere. Perciò vado progettando delle ricerche di natura autobiografica. Non una biografia, ma la ricerca e il rinvenimento di elementi il più possibile minuti.
Con questi voglio poi costruire me stesso, come uno la cui casa sia pericolante decide di costruirsene un’altra più sicura, lì vicino, magari col materiale di quella precedente…».
Significativo è questo riferimento al rapporto tra scrittura e biografia, alla costruzione della scrittura come a una autobiografia camuffata.
[…]
Ecco, siamo arrivati al dunque, al proposito recondito di Caronia: il romanzo «come autobiografia camuffata»:
[…]
Kafka al tempo de Il Processo, poteva ancora dichiarare:
«Esiste una meta ma non c’è una strada».
Ora, al tempo de Il Castello, sa che la strada stessa, la sua strada, per quanto “assurda” e “senza meta terrena”, è già una meta.
Il 28 gennaio, riprendendo da una lettera del 19 ottobre 1921 il paragone con Mosè che non arrivò a Canaan «non perché la sua vita fosse troppo breve, ma perché era una vita umana», afferma che anche per lui, che da quarant’anni ne è emigrato, Canaan rappresenta «l’unico paese della speranza».
Il 14 febbraio infine, con evidente richiamo all’inizio de Il Processo, dove è detto che la cuoca che «ogni mattina verso le otto gli portava la prima colazione, quel giorno non venne», osserva: «Il potere che ha su di me il sentirmi a mio agio, la mia impotenza senza questo agio. Non conosco nessuno in cui entrambi siano così grandi. Per conseguenza tutto ciò che costruisco è aereo, senza consistenza, la cameriera che al mattino dimentica di portarmi l’acqua calda rovescia il mio mondo».
C’è un’altra foto significativa nel libro di Klaus Wagenbach: la foto di Piazza della Città Vecchia con il mercato di Natale e con ancora la Mariensaule. Angelo Maria Ripellino, in Praga magica, ricorda con nostalgia la ‘sua’ Praga: «Eppure ogni notte, camminando nel sogno, sento pietra per pietra il selciato di Piazza della Città Vecchia».
Certo i passi di Kafka risuonano ancora nella Città Vecchia. Echi di una notte mitica.
Sembra ancora di vederlo attraversare il ponte Carlo verso Mala Strana e il Castello, vestito con la meticolosa cura consueta: abiti sobri, dal taglio comune, che non danno nell’occhio, nei toni del grigio scuro, del blu, cappotto di loden e cappello di feltro a tesa corta. Magro di corpo, di statura superiore alla media, ondeggia leggermente nel camminare. Il selciato di Piazza della Città Vecchia.
«Ci si attende forse che io sia stato cresciuto in qualche luogo appartato? No, in mezzo alla città sono stato cresciuto, in mezzo alla città».
La grande superficie di mattonelle è lì in attesa dei passi dello scrittore.
I passi sono il ritmo che accompagna i suoi pensieri.
Il camminare placa. In esso c’è un potere salutare.
La regolarità del mettere un piede davanti all’altro, muovendo nel contempo ritmicamente le braccia, l’aumento della frequenza respiratoria, la lieve stimolazione del polso, l’attività degli occhi e delle orecchie, necessaria per determinare la direzione e per mantenere l’equilibrio, la sensazione dell’aria che sfiora la pelle, tutto questo porta all’unione del corpo e della mente e fa crescere e prosperare l’anima, per quanto essa sia ferita e oppressa.
In Descrizione di una battaglia Kafka prima mostra la Piazza in preda allo scirocco con il manto della Santa Vergine che in cima alla colonna si torce e l’aria lo strappa, poi esprime il suo stupore nell’uscire dal portone di casa («Quando a brevi passi uscii dal portone di casa, il cielo mi aggredì con la luna, gli astri e la grande volta, e il municipio con la piazza, la colonna della Vergine e la chiesa») e finalmente riflette:
«Perché mai fate come se foste reali? Volete forse farmi credere che sono irreale io, così bizzarro qui fermo sul lastrico verde?». Si può di casa in casa inseguire il fantasma di Kafka finché non si arriva al cimitero.
È quella la sua vera casa. Il suo nome sovrasta quelli del padre e della madre, che gli sono sopravvissuti. Sul muro di fronte è una lapide col nome di Max Brod, l’amico che si è portato con sé per poter continuare la loro conversazione anche da morto.
Kafka, Brod, Weltsh.
Sembra di sfogliare un album di famiglia.
Mi sento come “il custode della cripta”, sulla soglia tra l’umano e il resto, in balìa di morti che sono più vivi di me. E il pensiero, ancora una volta, corre a Chiusano.
Eccolo lì, come sempre, fermo nel ricordo: «.. si vedeva soltanto il suo sorriso ma non giovava a nulla, come le stelle lassù in cielo non giovano contro la bufera che infuria quaggiù». Il movimento degli astri e il battito del cuore umano. Il cuore, quel suo grande cuore, si era fermato il 15 febbraio del 1995.
Lo avevo conosciuto a Roma nel 1986, l’anno della cometa di Halley, in libreria, a pochi passi da Montecitorio, alla presentazione de Il vizio del gambero: era un romanzo a episodi in cui il protagonista non aveva pace fino a che, retrocedendo, non si trasformava in un gambero preistorico e si ritirava definitivamente nel buio della sua tana.
Dunque la nostra conoscenza era cominciata così, sotto il segno di quel detestabile “vizio del gambero” che consiste nel voler regredire verso il preumano, il puramente viscerale e vegetativo. Non a caso poi, nel 1990, aveva scritto l’introduzione al mio volume di saggi L’usignolo di Orfeo, dove mi ringraziava per avergli mostrato soprattutto in Il vizio del gambero la sua vocazione di “tuffatore fetale”, e quindi, finita la presentazione all’Unione Lettori Italiani, la sera del 21 gennaio 1991, era venuto con me a cena al ristorante viennese di via della Croce, che lui amava, e ci eravamo congedati sotto la colonna mariana che è a pochi passi dalla metro Spagna.
Il 18 marzo 1991, spinto da lui, ero andato a far visita a Milano al mio autore prediletto, il suo amico Luigi Santucci per cui, nel 1971, aveva scritto la sceneggiatura televisiva di Orfeo in paradiso.
*
Ricordo il Forlanini, la corsa in automobile a notte alta, le poche ore serene a casa dei miei nel letto matrimoniale con mia madre, come in un ritorno al grembo.
Ricordo e ripenso, ancora una volta, al racconto del parto con cui mia madre mi aveva messo al mondo, di quando, proprio nel momento di venire alla luce, ero stato ricacciato indietro in attesa dell’arrivo della levatrice.
Da allora mi era sembrato di procedere nella vita sempre con lo sguardo fisso a quel punto in cui l’oscurità che precede la nascita sfiora da vicino l’oscurità che accompagna la morte, con il volto girato e gli occhi rivolti all’indietro, come l’antico Orfeo al richiamo della moglie, al richiamo della madre e della beatitudine prenatale.
*
Pochi anni dopo, il nazismo… le persecuzioni degli ebrei… i lager… Max Brod e altri più fortunati riparano all’estero. Non così Milena. Non così i bambini sani, allegri, con gli occhi azzurri, della colonia della casa popolare ebraica di Berlino o la bambina della bambola nel parco di Steglitz. Non così le sue sorelle.
Tutte e tre… Ottla, Elli, Valli… finiscono in un campo di sterminio, Ottla ad Auschwitz, dove volontariamente si era offerta di accompagnare 1267 bambini, Elli e Valli a Chelmnad Nerem. E non ne escono più.
Per fortuna i genitori erano già morti: il padre nel 1931, la madre nel 1934.
Contro l’invadenza del reale quella di Kafka è una promessa, la promessa di futuro che egli ha affidato a tutti noi, la promessa di futuro per cui egli ci appartiene, è di ognuno di noi, è di tutti.