Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”
Steven Grieco-Rathgeb
12 gennaio 2018 alle 1.08
Cari amici, avrei voluto mettere un mio commento qui ieri sera, ma mi trovo da qualche giorno con una nuova traduzione da svolgere in tempi brevissimi, e sono arrivato a leggere i vostri alle una e mezza di stanotte, quando non ero più in grado di scrivere. Stasera ho riaperto l’Ombra, trovando nuovi eccellenti commenti… Mauro Pierno, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa!
Il testo di Mani Kaul è duro proprio perché è concretissimo: è duro perché apre vie impensate. Non è solo una questione di idee o di un suo ragionare sull’arte –che si possono facilmente opporre o confutare – MA SULLO STESSO OPERARE PSICHICO, MENTALE DELL’ARTISTA.
E’ dunque un testo duro, che costringe il lettore a fare un serio tentativo di concentrarsi per capirlo. Diversamente, la sua comprensione scivola via e si disperde.
Una delle difficoltà nel capire il testo sta nel fatto che Mani Kaul affronta e sbaraglia, il concetto fasullo di progresso che tanto occupa il pensiero mondiale oggi: quel concetto che a sua volta ha portato alla nozione della convergenza, del climax, su cui ancora si basa la stragrande maggioranza di prodotti culturali, alti o bassi che siano, poesie o installazioni che siano. Lo vediamo subito in poesia: pochissime le poesie che abbiano affrontato la questione centrale dello sviluppo, chiamiamolo, meta-tematico. Si tende invece ancora a parlare molto del contenuto. Quando il concetto di contenuto è ormai antiquato.
Ho molto apprezzato i commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Chiara Catapano, Mauro Pierno. Interessantissimo quello che dice Tosi, del suo mescolarsi interamente al flusso della vita per cogliere il nascere di un’opera. Le sue poesie sono di questo una diretta testimonianza. Su una cosa non mi trovo d’accordo: tu dici, Lucio, che “L’immagine in movimento farà invecchiare i vecchi dipinti, anche quelli di Van Gogh.” Sarà anche vero, ma ahimè è tutt’altra cosa che già adesso sta determinando quell’invecchiamento: il fatto che noi sempre di più guardiamo le immagini sul computer e non sulla carta. Pensa a questo incredibile cambiamento: le immagini risultano intensificate “artificialmente” dalla luce interna allo schermo. E non ci possiamo fare nulla. Perché sempre più guarderemo le foto dei nostri cari, Van Gogh, e la fotografia d’autore sullo schermo del nostro computer di casa. I colori saranno più intensi, i sorrisi più smaglianti, le forme più profonde.
In risposta al bel commento di Mario Gabriele, devo precisare: Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”, e tutta la parte riguardante i concetti deleuziani “immagine tempo” e “immagine movimento” riguardano solo il cinema: possono far capire a noi poeti molte cose, ma non sono in questa loro forma direttamente applicabili alla poesia o alle altre arti – non prima, almeno, di una ulteriore lunga riflessione estetica sulla questione.
Quello che tu, Mario, chiami ”declassamento dello spazio” in Mani Kaul è un po’ diverso, e si riferisce, operativamente parlando, al cinema, non alla poesia o alla pittura. E comunque tale declassamento viene in gioco nel cinema principalmente come mezzo per abolire la “convergenza”, il climax prospettico, che ha fatto il suo tempo da tanto ormai, ma continua imperterrito a falsare così tanta produzione artistica. In tutti i prodotti culturali, da Hollywood alla quasi totalità dei poeti persiste questo paradigma così profondamente insediato nella mente umana da ormai 5 secoli, da non essere più nemmeno percepito dai fruitori.
Un piccolissimo esempio: in genere si finisce una poesia con una sottolineatura, una intensificazione emotiva di un tipo o l’altro: di “pathos”, di “ira”, di “dolcezza”, di “saggezza”. La tipica chiusa “emotiva” è senz’altro uno dei punti più deboli della poesia oggi, che nessuna avanguardia è riuscita ad abbattere, e che più invalida le nostre composizioni. E’ davvero difficile vedere come i poeti ancora interessati a creare questa convergenza, il climax, nelle loro poesie, possano sfuggire alla forma-poesia novecentesca.
Quello che invece è indubbiamente estrapolabile dal discorso di Mani e trasferibile a tutte le arti compresa la poesia, è la questione dello spazio sacro e lo spazio profano.
Ringrazio Chiara Catapano del primo punto del suo commento: illuminante, perché, ragazzi, la banalità entra ovunque e dovrà fare il suo corso, piaccia o non piaccia. Altro che la porosità dell’opera artistica di cui parliamo noi! I reality ci hanno letteralmente seminato! Chiara infatti evoca il “reale”, ossia “il cinema dal vero” che il filosofo-scienziato-autore e più geniale fantascientista del Novecento, Stanislaw Lem, descrive nel suo Powrot z gwiazd, (Ritorno dall’universo). In questo spettacolo detto “reale”, attori in carne ed ossa vivono tutte le esperienze realissime della vita direttamente davanti agli spettatori: vengono tangibilmente sbranati da tigri, si innamorano, mangiano un panino, scrivono poesie immortali. Poi tutto si scioglie: non era vero nulla! Proprio come il reality. Ma il romanzo di Lem risale agli anni 60 del secolo scorso…
La mia anima artistica non può che gioire di quella meravigliosa aleatorietà di cui parli, Chiara, avvenuto nello spettacolo inscenato nel cortile del carcere. Di questo abbiamo fortemente bisogno.
Sul terzo punto devo ancora pensare, perché viene sollevato un fatto letteralmente rivoluzionario: forse è proprio questo lo spioncino attraverso il quale l’uomo diventa tutto il suo ambiente. Non è detto affatto che l’uomo del dopo plastica, del dopo inquinamento, non sarà così.
Alla fine, come spesso succede, Giorgio Linguaglossa centra la questione in pieno, dicendo: “Mi sembra chiaro. Per cambiare la forma-poesia finora in uso nella poesia italiana, bisogna andare molto in profondità, alla scaturigine della forma-poesia, all’origine. Se ci si ferma a metà strada, se ci si limita a riformattare l’aspetto fono simbolico, che so, o l’aspetto meramente metrico del vers libre, faremo opera di salvataggio della vecchia forma-poesia, faremo del riformismo più o meno moderato…”
Caro Gino Rago, c’è un’altra frase nel Bravo Soldato Schweik, non so se te la ricordi, che dice che i comandanti sono spesso più umili dei luogotenenti. Ma io, diversamente da te, penso che sull’Ombra delle Parole non ci sono né luogotenenti, né comandanti. Perché non ci sono battaglie, e nemmeno guerre qui. C’è soltanto la sincera volontà di offrire poesia, e idee e concetti il più possibile concreti: applicabili concretamente alla poesia. E’ quello che tutti noi stiamo cercando di fare.
A questo riguardo, dedico a te e a noi tutti una poesia cinese dell’ottavo secolo, per ricordarci che nei nostri multiversi – almeno letterari! – la NOE è già esistita più volte in passato. Sì, caro Gino, sono assolutamente d’accordo, coltiviamo l’umiltà! La poesia è di Li I, poeta dell’epoca Tang, che estrapolo dal mio prossimo post:
Spedizione a Nord
vento gelido sulla neve di T’ien Shan
suoni di flauti, dura la marcia
fra le rupi trecentomila soldati
si girano tutti insieme: la luna
E aggiungo qui il geniale incipit della poesia di Mauro Pierno,
L’incontro
a breve in video-conferenza
devastò l’immagine.
Grazie, Mauro!
Chiara Catapano
IL CORBEZZOLO ROSSO
(2013)
Nipfjället, la Tundra Comoda – come la chiamano qui – c’innalza sui mille metri sotto il cono d’ombra dello Städjan,
e tra le ossa dell’altopiano riconosci la mia voce, cauto frinire di foglie del Rossello Alpino nell’infinito albeggiare:
sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.
È, questa inquietudine che sa di latte, la bussola prestata dall’infanzia alla mia vita.
Mi districavo con essa i capelli nella sera.
Ogni nodo soffoca un lieve incanto, e per quanti ne sciolga non conosce il destino del giorno successivo: altri se ne assieperebbero, frequentazioni incaute di memoria.
Se scoverai il segreto che mi tiene ancorata a terra,
arriverà precocemente la fine dell’estate;
raccoglierai quel che resta della mia voce nella neve sciolta
a margine del bosco. Maturerò nel viola
della Campanula Patula i pensieri che serrano le nostre decisioni.
E a Dalarna dipingerai un cavallino intagliato nel mio ricordo,
souvenir da mercato per le ore giocate a rincorrerci
nell’acqua dove non si tocca.
Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art,
his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …
Chiara Catapano
INN
(2012)
I
A Sils l’onda che incide il suo corso fluttuante tra gole d’acciaio è la similitudine che concedo alla mia infanzia.
Intagliavo rami così come i monelli sul Timavo scelgono legno adatto per le fionde, ma poi le tue le spezzavano, gelosi tu sapessi far meglio; la differenza è che io non t’avrei tradito. Ma di questo pare non lasciar traccia il beneficio che da lontano ha saputo, suo malgrado, mutare gli orizzonti fino a piegare l’arco tra Sils e Trieste.
Tu non capisci con quale potenza l’acqua addomestichi il corso al proprio volere: l’Inn procede con intenzione, munifico, nonostante sia rasoio sulla già affilata geometria elvetica.
Filo su filo, senza scintille.
E, dentro, tutto il fuoco della creazione.
Francesco riposa come in un risvolto di vita, cucito per essere – in un giorno di crescita – liberato e adattato alla nuova misura. È paragone da sarta che lo imbriglierebbe nel muto accordo tra donne (sì, anche tra una svizzera ventenne e una donna pisana funziona l’antico patto di reciproco sostegno), se pigiate dentro l’esistenza esse sentissero -magari pure senza conoscersi, magari scostando appena la cortina densa che le separa dalla propria fine – l’inestinguibile canto d’agonia con cui lo spirito femminile si lascia riconoscere all’interno di una metafora.
Lungo le rive di questo fiume, che qui è richiamo, puro accenno al suo fulgore, la tua CC gioca ad abbandonare i sensi – per ripescarli sbiaditi più a valle, nell’ansa amichevole scavata dall’acqua, lontano dalla corrente impetuosa.
Ti ci porto ogni volta che vieni, sperando tu accolga l’invito a rianimare – nel corso dell’infanzia- questa predisposizione all’abbandono di me, cedevolezza che ammolla il petto ammaestrandolo alla giusta disposizione, senza disperare.
Questo tu potresti, ogni volta, in virtù delle fionde che non danneggiai; sebbene ancora non possa vedere l’esito di ciò che non svolsi, in tutta purezza.
Qui ti consegno i polsi. La lametta sei tu, s’agita dentro il tuo seme come dentro un’estinzione.
Così m’acquatto, sfidando il battito blu delle piccole vene che affiorano turgide, che tu le beva una volta per tutte. O mi liberi dalla mia stessa schiavitù, di cui non fosti l’artefice, ma di cui – scoperta – t’impossessasti.
II
“…più di tutti però il magnifico straniero dagli occhi pieni di senso, dal passo librante, e dalle labbra ricche di suoni dolcemente schiuse.”, scrive Novalis, e pare scavare dall’ombra il suo letto.
Fischia l’acqua ed è acquisizione di stabilità nelle mie ossa; dischiude un giorno luminoso raggiunto dalla semina inconsapevole del tuo calore.
Vedi?, la tua pelle brucia, germoglia ciò che produce. Oggi è questo filamento di pace, che un alito solleva sulla corrente, perché io non mi punga con l’accento uncinato del destino; domani sarà lo stormire, dentro una noce di vita, di ogni mia opposizione, intessendo con quell’unica voce un indumento inadatto all’intelaiatura di straniante sospetto.
Perdi il ritmo quando mi cerchi negli sbuffi di fumo della mia sigaretta; fingo anche il respiro quando ti narro le lontananze della mia infanzia.
Se come Sophie morissi, sarei per te lo spirito dell’assoluto che in te si desta e determina la soluzione ai nostri mali? …no, non distogliere lo sguardo: lo sai che mi piace passeggiare tra i nomi che darei alla mia fine. Non è la lapide il muto richiamo del poeta all’amore eterno?
Lì ti rammenteresti di noi, di quel che disperdiamo in questa incostante apposizione?
Ti dimentichi di quanto sottrai alla semplicità del divino, con tutta questa letteratura? L’anima protestante riscopre il suo vantaggio nella scabra bellezza delle sue chiese, dei suoi cimiteri.
E tu perdi due volte, se ora t’allontani lanciando l’ennesima facezia alla volta di questo fiume, abbandonando al suo destino la mia fioritura nel sacro.
III
Cresce in petto, con morbida consistenza di fieno, la lacrima schiumosa del cervo.
Il bosco riceve l’afrore della sua ghiandola, pena di desiderio nell’attesa dell’accoppiamento.
Al margine estremo, dove il verde si perde sullo sperone di roccia, il cervo gratta corteccia e muschio, sbuffa feroci nuvole bianche dalle froge dilatate.
C è il nome dentro il richiamo della femmina, la voce odorosa raccolta dalla direzione dell’acqua.
Improvviso silenzio quel frugare nell’anima animale.
CC ha nella grafia il passo saltellante della Signora di Beare, quando la contea di Cork era la stessa sua mitologia; e io mi trasformo per lei in Cernunnos -mi dice inarcando tanto il linguine, da invitare la mia natura tutta a iniettare in lei il veleno del paganesimo.
Viaggiatori mentali, dirigiamo gli spazi coltivati dalla nostra memoria nei luoghi della spontaneità boschiva.
Ma è sempre C a guidarmi, esploratore-cervo sconvolto dalla stagionale eco degli amori.
Tra i larici piegano il loro richiamo le tue ciglia; come rami gonfi di neve s’addentrano nel mio petto. Il mito che mi racconti piega la fiaba del tuo dominio dove mi attiri e m’infilzi con l’osso ramificato dello sguardo.
Non mi salverò dall’accoppiamento con la mia cerva -penso- e lei non si salverà dall’amore che ha (per me) perché la nostra religione è pura etimologia che circoscrive:
“come la cerva anela ai corsi d’acqua così la mia anima anela a te”, C sfrega il rossore invernale delle guance nell’abbraccio del mio cappotto, e dalla frizione sgorga miracolosamente il ricordo (da dove?) del Salmo 41.
“Stai pronosticando la mia morte”, mi dice sorridendo.
E, pure se non voglio crederci, non ricambio il sorriso.
” C’è qualcosa di violento nel sesso; ciò che resta scisso in me, come tutto ciò che in natura scivola e vive, è l’ombra in cui vacillo mentre ti sorrido.”
Non posso far altro che ricambiare oggi, a distanza di tanti anni, il sorriso che non capii, che non voleva tranquillizzare me, ma gettare un ponte su quell’inscindibile patto tra vita e morte che era il nostro amore.
E non posso non pensare al tragico rovesciamento: a come CC decise di scivolare nell’acqua, cercando nel ribaltamento d’immagini la sutura possibile tra ciò che era, e ciò che sarebbe potuto essere. La vidi sciogliersi al mio abbraccio, che non trovò la forza di sostenerla.
Chiara Catapano
SARASWATI, IL SEGNALE AL POETA (1997-2017)
Ho osservato i negozianti, e ho concluso che ce ne sono di due tipi: uno siede dietro il banco con animo rapace, l’altro siede dietro lo stesso banco e serve i clienti che vanno e vengono.
Contemplando questo fatto, mi fermo, rapito. Capisco che il secondo negoziante è un semplice testimone dell’andirivieni degli esseri umani: anche lui, è ovvio, compra e vende, ma dietro questo comprare e vendere, commercia diversamente negli stessi articoli, e diversamente usa la stessa moneta. Quando prende ad osservare il gesto di servire il cliente, di prendere pagamento, di dare il resto, nasce un senso. Il modo in cui vengono compiuti i gesti è uguale, ma uno se n’è accorto, l’altro no. Uno ha dato loro un valore metafisico.
Può darsi che in un primo tempo non ne sia consapevole: semplicemente gli piace vedere la gente che entra e esce: gli articoli comprati e venduti, e il denaro che cambia mano, sono gli stessi. Non vede dove sta la differenza. Non capisce come lui, da uomo giovane, era felicemente ignaro eppure pieno di ogni ricchezza.
E’ solo lentamente, a piccoli passi nell’arco di lunghi mesi e anni, che inizia a notare qualcosa.
Così, ho visto il negoziante che non vede l’ora di fare l’inventario degli articoli venduti, facendo i suoi calcoli come l’uomo assetato in prossimità di uno specchio d’acqua. Non ci può fare niente: qualcosa lo spinge da dentro.
Sono rimasto seduto tutto questo tempo, scrivendo in una stanza nella città accaldata: Firenze, dove il caldo e l’umidità allungano le ore immensamente, togliendo alle persone le migliori energie fisiche, lasciandole infiacchite, ma col pensiero ben desto: qui, dove scorrono via innumerevoli pomeriggi sudati, con il sole violento che dardeggia fuori, mentre all’interno della casa perdura l’ombra delle persiane accostate. Anch’io ho sentito la mente desta, e mi sono interamente concentrato sulla mia scrittura; in un lento processo di raccolta e scelta del materiale, ho plasmato le forme che avevo immaginato: una lenta crescita, come di un albero, o di un qualsiasi altro essere vivente, che sembra sorgere dal nulla e ramificarsi, raggiungendo ampiezza e profondità. E poi la sera, che giunge improvvisa con un alito di vento.
La magica profondità del mio pensiero: rispetto ad un’ape, dove sta la differenza? Librarsi sopra i fiori : come diverso dalle api? Sì, perché se lo vediamo diverso, dimentichiamo un punto essenziale, senza il quale non succede niente: l’arrivo inaspettato del segnale. Il segnale è ciò che riduce a nulla tutti i nostri progetti. E’ l’irruzione prepotente dell’estraneità. (Per quanto industriosa, l’ape si meraviglia davanti a tutti quei fiori.)
Ci sono irruzioni di una inaspettata, meravigliosa dolcezza, una dolcezza che ti porta via con sé. Diwali, la festa delle luci in India, e il tardo novembre: e questo sorprendente cielo azzurro, e il sole caldo del mezzogiorno, e l’arrivo prematuro della notte alle sei di sera. Le notti sono bellissime, nero pece ma con barlumi di nascoste luminosità.
Una fanciulla non riusciva a tenere i piedi radicati al suolo. Si alzava in volo verso tutto ciò che le piaceva, perdendosi in quei mondi. Finché un giorno qualcuno la chiamò: e lei, rapita, si destò.
Stamani spolveravo gli scaffali nel mio studio. Le due finestrelle aperte, il caldo entrava con la brezza. Spolveravo, quando inavvertitamente lo spolverino colpisce una minuta statuetta in cartapesta di Saraswati, che tengo appesa ad un gancio davanti ai libri. Saraswati è la dea che protegge le arti. Ha quattro braccia, e tiene una veena sulle gambe incrociate, mentre siede sulla sua cavalcatura, il cigno divino di nome Rajahamsa. I colori sono vivaci, tipici di questa tradizione artigianale della città di Varanasi.
Lo spolverino ha fatto saltare la statuetta dal suo gancio: e giù, è rimbalzata sullo scaffale sottostante, poi ha battuto in terra con un rumore spiacevole. Mi sono chinato a raccoglierla. Sembrava star bene, ma proprio accanto a lei sul pavimento ho visto un frammento nero, lucido, evidentemente un pezzo che si era staccato. Rapito, l’ho guardato, cercando poi di ricongiungere il pezzo alla statuetta. Faceva parte della testa. Ho pensato, ormai il danno è fatto, che senso ha tentare di incollare un pezzo così piccolo?
Più tardi mi trovavo ad attraversare via de’ Cerretani all’altezza dell’albergo Baglioni, lontano dalle strisce pedonali: una via molto larga, io schivavo le macchine che arrivavano veloci, gli autobus arancioni, motorini. Nel bel mezzo delle corsie è giunta quella parola: “aegis”. Era questo il pezzo che era venuto via dalla testa della dea? Come si era affacciata la parola, proprio in quel momento, quando stavo altrove col pensiero, quando attraversavo una strada pericolosa nel traffico fitto?
E’ curioso che volta dopo volta, tutto il mio “lavoro” e i miei pensieri – ogni attimo libero del giorno, e della notte quando sto sveglio, mi riportino alla stessa vecchia, identica questione: la natura dello scrivere: no, anzi, la natura di quel segnale.
Ora, mi stupiva che la parola aegis, mi avesse raggiunto così, dal nulla. Non me l’aspettavo. Come se la lingua inglese non fosse mia nel profondo, non mie tutte le altre lingue che ho mai conosciuto. In quale di esse, mi chiedo, mi sono sentito come qualcosa di più che un semplice ospite? In quale ho nuotato come dentro il liquido stesso della placenta? Un tempo mi era sembrato di nuotare in quel modo nell’inglese, o forse nello svizzero-tedesco della mia infanzia. Era un’illusione. Sentivo che non erano propriamente lingue mie: quasi ne esistesse una più interna, un Sanscrito delle profondità, un dio del dire che fluttua invisibile nelle profondità insondate del mio essere, quelle che non raggiungo mai, ma che ho talvolta percepito come realtà oscura, inesistente.
Allora non ho potuto non rompere in un sorriso: la parola aegis non era giusta. La dea non porta alcuna egida.
E adesso rimango colpito da ciò che sempre, quando ero più giovane, trovavo del tutto naturale: che le idee mi vengono talvolta in una lingua, talvolta in un’altra: magari in russo, che conosco meno delle altre. Non so perché è così, non trovo nessuna giustificazione.
Tanto più logico che una parola mi arrivi inaspettata dal Greco antico: una parola di cui non conosco benissimo il significato: ma che mi porta vicinissimo alla dea: e che mi fa sbagliare. Basta una parola. Basta una parola per evocare orizzonti prodigiosi.
Lentamente mi appare davanti un paesaggio devastato e mutilato dal continuo cambiamento, dalla distruzione, dalla incessante ricostruzione.
Sono tornato a casa, ho cercato la parola nel dizionario greco. Il segnale dato al poeta è davvero cosa strana. Mi ha confermato che il vero senso della statuetta è di proteggere – l’aegis è archetipo di “protezione”. Perfino Zeus ne doveva avere uno per farsi scudo. Non aveva niente a che fare con il pezzettino che si era rotto, ma solo con il significato di protezione che la statuetta evidentemente ha per me (e nemmeno lo sapevo). Altrimenti perché dovrebbe stare lì, vicino a dove sempre sto seduto e lavoro e aspetto il segnale?
Ho riappeso la statuetta al suo gancio davanti alla fila di libri di poesia. Per chissà quale ragione, guarda nella direzione opposta a dove sto seduto. Più volte avevo cercato di girarla verso di me, perfino storcendo il fil di ferro a cui sta appesa. Niente da fare: dopo un po’ la statuetta si era di nuovo voltata nell’altra direzione.
E’ passato qualche giorno, ho guardato la dea. Aveva cambiato posizione: guardava dritto verso il tavolino da lavoro dove io non sto più seduto.
Steven Grieco-Rathgeb
Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.
Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.