Fabrizio Dall’Aglio Poesie scelte da Le allegre carte (Valigie rosse, 2017) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
Gentile Signore, scusi davvero se ho tardato tanto a risponderle

 

Fabrizio Dall’Aglio è nato nel 1955 a Reggio Emilia. Vive tra Reggio Emilia e Firenze, impegnato in attività di carattere editoriale e librario. Ha pubblicato: Quaderno per Caterina. Poesie e brevi prose 1975-1980 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1984); Versi del fronte immaginario1982-1983 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1987); Hic et nuncPoesie 1985-1998 (Firenze, Passigli, 1999); La strage e altre poesie. Resti di cronaca, 1975-1982(Valverde, Il Girasole, 2004); L’altra luna. Poesie 2000-2006 (Firenze, Passigli, 2006); Colori e altri colori (Passigli, 2015); Le allegre carte (Valigie rosse, 2017).

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

Come è noto, nella poesia italiana l’elemento visivo, il congegno ottico, è stato trascurato e derubricato. La poesia italiana ha, con Pascoli e D’Annunzio, sopravvalutato da sempre il pentagramma acustico rispetto all’elemento ottico, con la conseguenza che le poetiche del decadentismo (come si dice nelle Accademie) hanno coltivato quasi esclusivamente una poesia di stampo lineare e sonoro con le rime alternate e al mezzo e al mezzodì. Una mentalità conservatrice e acritica si è mantenuta pervicacemente fino ai giorni nostri a cui ha dato un appoggio notevole la disconoscenza della rivoluzione modernista avvenuta nella poesia europea nel Novecento, con la sotto valutazione dell’imagismo di Pound, dell’acmeismo di Mandel’stam, delle idee di Fenollosa, del surrealismo, dell’espressionismo, degli Haiku cinesi e giapponesi, degli esiti della poesia svedese da Tranströmer in poi. Ma oggi forse c’è qualcosa di nuovo nell’aria, sono maturi i tempi per portare la nostra attenzione sugli aspetti non meramente acustici della poesia, su una poesia di scandaglio esistenzialistico.

 

Giorgio Linguaglossa Giorgio Linguaglossa
Fabrizio Dall’Aglio

Dal punto di vista acustico, Laborintus (1956) di Sanguineti non differisce molto da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, entrambe le operazioni si interessavano esclusivamente degli aspetti fonici, lessemici e lineari della poesia. Le cose non sono cambiate poi molto sotto l’egemonia dello sperimentalismo post-zanzottiano legato alla emergenza del significante. La idea prevalente della poesia era collegata ai due concetti antinomici di lirica e anti lirica, sfuggiva del tutto l’idea di una poesia possibile fondata sulla poliedricità tridimensionale e quadridimensionale, sfuggiva l’idea di una poesia fondata sul concetto di discorso poetico. Questa arretratezza generale della poesia italiana del secondo Novecento è visibile chiaramente oggi che il percorso della poesia acustica si è compiuto, con il risultato di un eccesso di narrativizzazione e di una dissipazione ergonomica della versificazione che ormai ha raggiunto l’arbitrio. Venuta meno l’acustica, restava la narratività, e infatti la poesia italiana dagli anni settanta ad oggi si è incamminata verso una tranquilla e oziosa narratività. La poesia dei milanesi da questo punto di vista non differisce affatto da quella dei minimalisti romani, tutte filiazioni di una impostazione conservatrice dei problemi legati alla forma-poesia. Ad esempio, se rileggiamo la prefazione ai Novissimi (1961) di Alfredo Giuliani ci accorgiamo di quanto sia minimo lo scarto di novità impresso alla poesia italiana dalla nuova teorizzazione della neoavanguardia:

 

«Non soltanto è arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo che pretende di conservare non già il valore e la possibilità della contemplazione, ma la sua reale sintassi; bensì è storicamente posto fuori luogo anche quel linguaggio argomentante che è stato nella lirica italiana una delle grandi invenzioni di Leopardi. Due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare particolarmente: una reale “riduzione dell’io” quale produttore di significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. (…) Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea. Si intravede qui un’indefinita possibilità di superare la spuria antinomia tra il cosiddetto monolinguismo, che degenera nella restaurazione classicistica, e quella “mescolanza degli stili” o plurilinguismo, che finisce in una mescolanza degli stili. (…)».

 

Scriveva Novalis nell’ottocento: «La filosofia è propriamente nostalgia (…) è desiderio di sentirsi ovunque a casa propria». Davvero strano che Novalis non si sia accorto che aveva appena dato una definizione impareggiabile della «poesia». Da allora, dal Romanticismo è iniziato il problema dello spaesamento, dell’essere fuori-luogo, del sostare straniero in ogni terra e in ogni dimora. L’antica unità di anima e mondo, il mondo omogeneo dell’epos è divenuto per noi irraggiungibile. Anche nell’immagine riflessa dallo specchio noi vediamo la nostra scissione, la nostra immagine deforme, la nostra irriconoscibilità.

 

In Fabrizio Dall’Aglio siamo dentro la scissione bipolare dell’io. Ormai la crisi dell’io ha investito la forma-poesia, e viceversa, le due crisi si alimentano e si incrementano a vicenda. Il fatto è che l’io ha una realtà pronominale tutta interna al discorso linguistico. Tutto ciò che accade nella poesia di Dall’Aglio deriva non, ironicamente, dalla morte di «Dio»: «l’accadimento non c’è stato, ringraziando Dio, lei non è morto, e neppure sono morto io…», ciò che è morto sembra essere il mondo, l’io è ridotto ad una «voce che mi parla e un’altra voce dentro che risponde». Dopo un secolo di psicoanalisi  e un secolo di riflessione filosofica sulla dis-locazione dell’io, oggi noi possiamo dire tranquillamente che l’io è una istanza di negoziazione tra le esigenze dell’Es e le pulsioni dell’inconscio e le istanze dell’esterno, una sottilissima superficie e una proiezione delle istanze su quella superficie.

 

Poesia dunque che vive a ridosso della crisi dell’io, di questo soggetto pronominale che vive di rendita all’interno di una crisi molto più vasta. Ricordiamoci della famosa equiparazione tra bene e male del tardo Montale: «il vero e il falso sono; il retto e il verso / della stessa medaglia» (Diario del ’71 e del ’72). Se il bene e il male sono indistinguibili ne deriva che anche l’io è indistinguibile dal suo sosia o da altri io.  Una rendita esosa quindi perché non lascia intravvedere alcuna via di uscita dalla crisi anch’essa esosa e rischiosa del «soggetto», se non tramite la confezione di una poesia nominale e proposizionale. Ecco spiegato anche il prosimetro adottato dal poeta fiorentino, una forma informe per eccellenza, che però si accorda benissimo con le poesie più propriamente speculative innervate su una intelaiatura di versi tutti brevi, inferiori all’endecasillabo, così da conferire all’andamento metrico quel carattere zoppicante tipico di una metricità intenzionalmente interrotta e disadorna.

 

*

«Tutti i testi che compongono questo libro sono stati scritti negli anni 1984-1995».
(Fabrizio Dall’Aglio)

 

 

Giorgio Linguaglossa
Ascolto la mia voce/ che mi parla/ e un’altra voce dentro/ che risponde.

 

Poesie

 

La vita gioca a sponde
e ora rimbalza
da un punto all’altro
di questa mia stanza.
Ascolto la mia voce
che mi parla
e un’altra voce dentro
che risponde.
Benvenuto, poeta
il giorno è chiuso
c’è solo la tua luce
alla finestra
e filtra, filtra
tutto il respiro buio
del mondo fuori
e dentro alla tua testa.

 

IO

 

Procedevano appaiati, mano nella mano, il più alto con un lungo cappello, strano, a cilindro… Sì, certo, e poi il frac simile a una cornacchia, l’andatura zoppicante, su scarpe appuntite e con i guanti bianchi…
No, magari erano discosti, l’uno dall’altro, per niente appaiati, forse s’incontravano, si salutavano appena.
O erano distanti, molto distanti fra loro, ecco, sì, su strade diverse, di città diverse, paesi diversi, non si erano mai visti né conosciuti, non era neppure la stessa ora, quella…
E magari ce n’era uno solo, senza l’altro, ed era senza cappello, e forse ero io, proprio io.

 

LA RISPOSTA

 

«Gentile Signore, scusi davvero se ho tardato tanto a risponderle.
È che speravo che nel frattempo lei sarebbe morto, e questa speranza mi addolorava, certo, al punto
di annichilirmi, di togliermi qualsiasi forza, persino per un nonnulla come rispondere, pur brevemente, alla sua solerte lettera. Un penoso senso di assenza, deve credermi, e come unico appiglio per lenirlo proprio e solo quel nonnulla di risponderle, che a quel punto la sua morte mi evitava. Ben misero appiglio, lo so, eppure… L’accadimento non c’è stato, ringraziando Dio, lei non è morto, e neppure sono morto io, ma, a ben vedere, la potenzialità di quell’evento ci obbliga entrambi a riflettere sull’opportunità della mia risposta e, ancor prima e ancor più, su quella della sua cortese lettera. E in tutta sincerità, stando così le cose, proprio non riesco a vederla. Ecco perché, conseguentemente, lei non riceverà neppure questa mia risposta, e nemmeno saprà che è esistita, e mi accuserà, legittimamente
magari, ma per sua sola ignoranza, di insolenza, o di boria, o che altro. La pensi come vuole, Egregio

Signore, ma l’ignorante è lei».

 

*

 

Il mio incubo
ha radici profonde.
Nuotavo
fra le onde del mare
con mio fratello
e mio padre.
L’acqua mi sommerse,
e le forze
scomparse
ridevano di inedia.
La mano
che mi afferrò i capelli
mi legò
con un cappio
alla vita.
Persi l’eternità
ma vinsi
– truccando –
la partita.

 

DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO
Il sonno dei mostri genera la ragione.

 

MAGIA DI ACCIDENTALI INCONTRI
«Rivederti, dopo tanto tempo, mi ha fatto davvero un piacere
incredibile. Dovremmo vederci di meno».

 

SENSO DI COLPA
Ogni volta che qualcuno lo riconosceva, aveva la sensazione di
essere stato scoperto.

 

RILETTURE
«No, Guerra e pace non l’avevo mai letto, ma lo sto rileggendo
proprio in questi giorni».

 

*

 

Generica figura,
la mia natura mi volle duplice.
Da un lato l’appetito
infantile
e la bile ingiallita
dalle delusioni;
dall’altro
una struttura senile,
su un terreno minato
di masturbazioni.
L’infanzia sbigottita
non permise il trapasso.
Racchiusi il mondo,
circoscrivendolo con un compasso
svogliato;
quando poi mi svegliai,
se n’era già andato
– lui –
all’altro mondo.

 

Il gigante
restava nell’ombra.
La sonda spaziale
non l’aveva sfiorato.
Vestiva elegante
con charme naturale
e antiquato.
Pregava,
il gigante pregava.
A un tratto
una stella vicina
lo morse:
«Cristallo di genio»
gli disse
«tu mediti forse
se a fare fortuna
sarà sufficiente
la luna?».
Si volse,
il gigante si volse.
«Cristallo di donna»
rispose
«non medito niente.
Per fare fortuna
è già
sufficiente
la luna».
La stella
guardava per terra.
Il gigante
guardava la luna.

 

PRESENTE COME PASSATO
Si deve sempre diffidare di ciò che ci è contemporaneo, nel concetto
di presente è già insita la sua stessa sopravvalutazione.
Vedere il proprio presente, e noi con lui, come già passati, è il
primo sintomo di intelligenza critica.

 

 

 

PROLOGO

Acrostico del poeta-redattore

 

Ingrato mio lettor, adora invero
Su questa carta bianca la mia orma,
Io redattor de’ redattor d’Omero
Datore di parole senza forma.
Osserva l’eleganza dello stile
Rutilante di mirra, oro, incenso,
Olimpico, sprezzante, pio, scurrile,
Costretto a scriver quarte senza senso.
Onora il mio destino di cantore
Rinchiuso come perla in una cozza,
Da vate a consigliere correttore,
Effimero guardiano della bozza.
Vivo ormai con distacco un tale scempio.
Io che ho rubato al sonno la mia lira
Offro or le terga da immolar nel tempio
Lillipuziano di Madonna Lira:
Avanti che c’è posto, ciak, si gira…

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